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Intervista a Romana B.
Romana B. nasce a Salona d'Isonzo (Gorizia) nel 1929 da padre spalatino e madre slovena. Dopo la definizione dei confini in seguito al Trattato di Pace di Parigi del 1947 e il successivo passaggio del suo paese alla Jugoslavia, decide di partire per l'Italia. La scelta cade, non a caso, su Casale Monferrato poiché suo padre, operaio all'Eternit di Salona d'Isonzo, riesce ad essere riassorbito nell'organico dell'Eternit della città monferrina. Oggi vive a Casale, dove è stata intervistata il 26 settembre 2009. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: quando e dove è nata?
R.: "B. Romana, sono nata in Salona d'Isonzo, provincia di Gorizia, il 3 marzo del 1929."
2) Può parlarmi un po' della sua famiglia di origine? Quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...
R.: "Mamma e papà, mamma slovena, papà italiano. Naturalmente italiano relativo, perché papà è nato a Spalato, guarda caso, perché il nonno era un costruttore di case, un carpentiere lo chiamavano allora lui e qualche fratello, quanti non ricordo ma non credo tutti, sono nati in Spalato. Sono poi andati a Genova e sono poi finiti in Salona che hanno poi costruito la fabbrica [dell'Eternit] e le case per gli operai. [Per gli operai] italiani, non [per] gli sloveni, eh! E quindi diciamo che i ricordi di quelle cose lì sono piuttosto forti e importanti, perché non subito, ma dopo, crescendo, abbiamo potuto accorgerci di quanto poteva avere il valore della lingua di mia madre che lei non ci ha mai parlato nella sua linea. Metti dialetto, non lingua perché lei, poverina, aveva fatto solo tre anni di scuole slovene e nient'altro. Era una donna piuttosto intelligente, tanto per dire che se scriveva a papà che non era a casa, scriveva come parlava, in dialetto, perché lei la scuola non l'aveva mai fatta, però era arrivata a farlo perché non voleva arrivare che altri né leggessero né scrivessero per lei. E quindi io poi, cosa molto particolare e molto importante l'asilo...Che poi tra parentesi, noi avevamo l'asilo molto bello della Montessori, naturalmente: molto bello, molto ben guidato e preparato, e noi frequentavamo a scuola il gruppo delle persone italiane e la quantità dei bambini sloveni. E naturalmente, forse nessuno come i bambini, ha la capacità di imparare a capire e a parlare la lingua dell'interlocutore, tanto per dire. Quindi io avevo imparato ma mai parlato, se non con i compagni di scuola, che loro dovevano parlare italiano perché la maestra imponeva. E i genitori e i nonni, andando negli uffici o in farmacia o dal dottore, che poi il dottore poteva anche essere molto attento e molto sensibile e sapeva capirli anche se dopo loro non parlavano in italiano, ma negli uffici, in grande c'era un cartello [con su scritto] qui si parla solo italiano. E lo stabilimento che è nato nel 1924, fatto come questo qua da Fumazza nel 1907, era un grande stabilimento. Quando è stato lasciato alla Slovenia, alla ex Jugoslavia, mi correggo, perché allora era ex Jugoslavia e non Slovenia, perché c'è stata dopo la divisione degli stati...E' stata calcolata come la fabbrica più grande della Eternit. C'è chi non ci crede: Bruno P. non ci credeva, invece Bruno F., un ex operaio che girava molto in tutte le fabbrica dell'Eternit, sia a Napoli che a Reggio Emilia e compagnia bella, dice che era vero."
3) Quello di Salona era quindi uno stabilimento dell'Eternit?
R.: "Si, dell'Eternit a Salona d'Isonzo."
4) Mi interessa molto questo discorso della lingua. Lei prima accennava all'impedimento imposto, possiamo dirlo, dal fascismo di parlare sloveno. Ecco, ricorda degli episodi in proposito?
R.: "Specialmente [tra i] bambini, non c'è mai stato un rancore, neanche dopo, se non proprio con quello che è particolare e rompe le scatole, che provoca e compagnia bella, se non proprio alla fine. Ma diciamo che anche tra lavoratori, alla fine della settimana o della quindicina che prendevano la paga, andavano magari all'osteria, che allora c'erano le osterie, e magari erano tra sloveni e italiani, la bicchierata la facevano, non c'erano rapporti di rancore o che. E poi, specialmente io le ripeto il particolare di aver riassunto dopo, perché mi interessava e mi colpiva quella particolarità dei tanti matrimoni fatti tra italiani e sloveni. Specialmente italiani maschi con donne slovene più che viceversa. E quindi, però, il particolare, che mia mamma aveva diciotto anni quando si è sposata, era proprio una bambina, ma mia mamma non ci ha mai, mai, mai parlato nemmeno una volta nel suo dialetto. Mai. E noi la credevamo una cosa normalissima; e invece no, non è una cosa normale."
5) E non vi ha mai parlato in Sloveno per quale motivo? Forse perché non poteva?
R.: "No, perché non c'era l'occasione, perché per esempio se andavamo a trovare le zie, tanto i fratelli che le sorelle di lei, lei parlava in sloveno con le sorelle o con i parenti con gli amici oche, e noi parlavamo in italiano e loro ci rispondevano in sloveno. O, più intelligenti di noi, mi dispiace dirlo, che poi ci battevano il naso, imparavano meglio di noi. Perché io poi ho fatto le commerciali, ma i ragazzi che hanno fatto le medie o che, erano più bravi gli sloveni che gli italiani. Forse per puntiglio, io non lo so perché. Comunque quelli che prevalevano [erano più bravi], poi quelli che erano lazzaroni rimanevano lazzaroni da una parte e dall'altra, naturalmente."
6) Mi parlava prima di questi cartelli qui si parla solo italiano...
R.: "Grandi eh, erano grandi..."
7) Ecco, ma secondo lei quelli erano un modi per escludere l'elemento sloveno...
R.: "Di italianizzare più che escluderli. Perché era l'era fascista e qui si parla solo italiano, gridavano le maestre. E però senz'altro comprendevano che i bambini non potevano immediatamente parlare [italiano], o i genitori peggio ancora o i nonni ancora peggio, che non avevano mai parlato l'italiano, non avevano mai sentito parlare in italiano. E quindi quella era una difficoltà vera e propria. Diciamo che magari succedeva nelle quindicine che prendevano come paga, e che poi facevano qualche bicchierata o qualche partita di pallone. E mi ricordo che c'è stata anche qualche festa folcloristica, ma fatte dagli italiani, naturalmente. Poi [ricordo] il particolare delle adunate vestite da piccole italiane, che ho là una fotografia seduta con mia mamma e Maria Rosa e Ottavio [mia sorella e mio fratello]. E io ero innamorata di andare a far ginnastica, i saggi e compagnia bella, mentre invece mia sorella Giulia si è presa anche la bocciatura perché doveva mettersi in divisa, e lei assolutamente non voleva, e questo pur avendo solo un anno più di me. Lei non ne voleva sapere, e quindi prima si è presa una bella sberla perché veniva non so se il Principe Umberto o il Duce. E lei aveva il paltò e la maestra le ha detto: domani ti metti in divisa, vero? E lei [le dice] ma si, altroché! La maestra le apre il paltò e lei [sotto] aveva il grembiule di scuola, perché lei assolutamente [non voleva]...E lei aveva solo un anno più di me. Io, naturalmente, ero tremenda, nel senso che ero più birichina, ero più aperta, più allegra, ma ognuno ha il suo carattere... E quindi pur di non fare i lavori in casa, andare a giocare e andare a far ginnastica era il mio divertimento, e quindi quello succedeva allora."
8) Parlando della scuola durante il fascismo ricorda anche la propaganda?
R.: "Si, si. Per esempio [c'è] un altro esempio più o meno importante. Quando è arrivato il duce per commemorare il pezzo di fabbrica aggiunto alla vecchia fabbrica. Era l'anno...Io andavo a scuola e non credo che c'era la guerra, e quindi sarà stato nel '39, sarà venuto nel '39. Però non credo che ci fosse stata la guerra, perché io ero proprio piccola, avrò fatto la terza elementare o qualcosa del genere, e la nostra maestra, che era una mamma di famiglia un po' fatta a modo suo ed era friulana... Naturalmente tutti gridavano duce, duce, duce e lei ci diceva gridate scuola, scuola, scuola! Perché lei era un po' così, e aveva ragione lei, poi, non gli altri. Perché noi abbiamo fatto scuola in posti un po' particolari: diciamo che non erano mal messi, ma non erano niente di particolare rispetto a come c'è adesso l'opportunità di seguire le scuole. E poi io mi ricordo che i ragazzi si rivolgevano a noi in sloveno, soprattutto i primi anni, e noi rispondevamo a loro in italiano, così noi imparavamo il dialetto, e loro imparavano la lingua. Anche noi parlavamo il dialetto, veramente, poi però c'era l'obbligo di parlare e di scrivere in italiano. E loro però in un certo qual modo erano agevolati: io se vado là, ancora adesso c'è molta gente che parla l'italiano, assolutamente, perché l'hanno imparato e non l'hanno dimenticato. Poi per loro forse è più facile, e chissà perché, io non ho mai capito quel particolare..."
9) Mi diceva prima che i rapporti tra la componente italiana e quella slovena erano, tutto sommato, buoni, però poi dopo si sono guastati...
R.: "Si, proprio alla fine."
10) Ecco, posso chiederle come mai?
R.: "Guardi già andando a scuola quando man mano crescevano, perché poi venivano sistematicamente bocciati gli sloveni. Le faccio un piccolo esempio: io mi ricordo di avere avuto una maestra, forse ero in terza elementare, e avevo una compagna di classe che aveva voluto che stessimo vicino una all'altra. Lei era la figlia del podestà, ed era di una schignosità tremenda, era da prenderla e da sbatterla nel muro, perché non voleva nessuno vicino... E, naturalmente, la nostra maestra [ci diceva]: guardate Giulia che bel quaderno senza errori , blu e rosso a seconda dell'importanza degli errori. Poi è andata in maternità quella maestra e ne è venuta un'altra, e allora quel quaderno, dalla prima all'ultima pagina si è riempito di rosso e di blu anche quello! Poi c'era la maestra di mia sorella che, naturalmente, bacchettava con una bella bacchettina i ragazzi. E mi ricordo, io facevo quarta e Giulia faceva già quinta, ed eravamo con dei ragazzi alti, già uomini, oramai perché erano stati talmente tanto bocciati che erano alti, e allora a un certo momento con la maestra facevano gli spiritosi [e lei disse]: fuori, fuori! Tu, tu e tu, fuori! E allora finiva l'ora di scuola, e andavamo fuori anche noi, il resto della scuola: scendevamo le scale che c'erano le ciliegie nelle scale. E noi, allora: dai, pronti, prendi le ciliegie, fino a che qualcuno non diceva: non le mangiare che ci han fatto la pipì sopra. Perché era anche una cosa naturale, perché nessuno come i bambini capiscono le diversità e anche le ingiustizie, diciamolo pure. E le cose proprio grosse che potevano capitare erano magari quando per la riunione venivano in divisa da Gorizia che c'era stata magari l'adunanza, venivano col pugnale, gli arditi e quelli che erano più fascisti degli altri diciamo. E magari poi da una parola o da una bevuta in più succedeva [qualche problema]: è successo che si sono anche accoltellati. E poi in quell'epoca forse anche i brigadieri del posto e i carabinieri erano anche abbastanza come certi maestri, non tutti, ma certi maestri, a parte l'era fascista, erano anche uomini e donne che sapevano calcolare qual era il giusto, prevenivano. Per esempio c'era anche il nostro vicino di casa, italiano, friulano, che aveva la bellezza di una figlia e sette o otto maschi, e noi eravamo in cinque sorelle. Qui c'era il cortile, e loro erano di là, e questo signore era un gran lavoratore, lavorava proprio nell'insaccamento dell'amianto, perché anche là lo lavoravano. Ed era forse il lavoro più pesante dello stabilimento, e lui era un omone, grande e grosso, si chiamava Domenico. Però [aveva un problema]: prendeva la paga, e vigliacchi anche gli amici, sia gli uni che gli altri ma più gli italiani che sapevano quanti figli aveva. Lo portavano in osteria, lui pagava da bere a tutti lì, e poi gli dicevano: canta bandiera rossa! Meni, canta bandiera rossa! Lui cantava e arrivavano i carabinieri, l'olio di ricino e portarlo a casa. Ed era una persona buonissima, solo che il vino arrivava [fino a quel punto]. La moglie era una gran persona, perché rappezzava le pezze dei pantaloni dei ragazzi, le toglieva perché erano consumate e ne rimetteva altre, perché quelli erano i tempi, eh! Quelli erano i momenti. E poi [c'è ancora] il fatto della guerra, che molti ragazzi son partiti volontari, e tanti non sono purtroppo tornati. Io avevo un cugino che era nella Marina: lui è tornato, ma altri non son tornati. E quello è stato un grande dolore, perché poi nc'è stata anche dal '43 in poi il grande momento della rivalità, che gia incominciava ad uscire perché giustamente c'erano i partigiani."
11) Che ricordi ha di questa rivalità?
R.: "Naturalmente partigiani...Di italiani no, perché erano purtroppo richiamati. Però tra gli italiani c'era anche chi faceva la spia e compagnia bella, perché anche quello succedeva, come in tutte le parti del mondo, naturalmente. Tant'è vero che qualcuno l'ha pagata. Ingiustamente, perché la guerra porta a vendetta e contro vendetta, tu me l'hai fatto e allora io te lo faccio, ed è la cosa più brutta che c'è al mondo. E quindi c'era anche quello: il particolare di vedere, magari in due giorni, morire una ventina di persone. Mamma e due figlie, portate in un paese più in là dove c'era il comando dei fascisti, dei tedeschi, e dopo averle interrogate [vederle ammazzate]. Era successo un particolare, [e cioè] che c'erano le osterie, e una ragazza molto carina aveva una simpatia con un soldato dei domobranci, tu sai chi erano...Erano proprio i fascisti sloveni, fascisti che erano coi tedeschi e coi fascisti. E non so perché li chiamavano domobranci, non saprei neanche dirlo, perché domo è casa, e branci non so cosa voglia dire, comunque...Una sera sono arrivati di notte e sta ragazza con il fratello ancora più giovane di lei - lei era giovanissima -, con due soldati sloveni, fascisti naturalmente, che parlavano e i partigiani sapevano questa particolarità e allora sono arrivati e dalla finestra han sparato e li hanno uccisi tutti e quattro. Allora c'è stata la controparte di dire chi ha ucciso. E allora un po' più in là c'era un'osteria dove c'erano gli uomini in montagna e la madre e due figlie erano responsabili, cioè non responsabili ma in quel periodo erano responsabili. Quindi le avevano portate al comando tre chilometri più in là del mio paese e [le avevano] interrogate ma non so come. Non è mai venuto fuori, perché poi le hanno uccise e non è mai venuto fuori se loro son state trattate male o che. Comunque le han fatto fare la strada, che allora era ridere fare tre chilometri a piedi, non era un problema, le han fatte camminare sulla ferrovia e a un certo punto le han sparato alle spalle e tutte e tre sono state uccise, una cosa orrenda, proprio veramente orrenda! E poi hanno fatto un rastrellamento di nove persone e tra loro c'era una donna molto giovane, una ragazza, e le han portate...E si, la guerra è fatta anche di furbizie e di calcoli, hai fatto questo e perché l'hai fatto, allora io faccio quello e compagnia bella...Il particolare è che l'han portate tutte fuori dal paese, ma erano tutte persone dei dintorni e non c'erano italiani in quel gruppo di nove persone, erano tutti sloveni. Li han portati davanti a una passerella fatta di legno, una vecchia passerella fatta di legno che pareva che i partigiani l'avessero minata. Ma i tedeschi non erano sicuri, e quindi non potevano passare con sicurezza, ed era un passaggio molto comodo anche perché era un passaggio un po' nascosto, fuori dall'abitato da una parte e dall'altra e quindi era importante per chi dalla montagna veniva in valle e andava nell'altra montagna, o qualcosa del genere. Comunque, hanno messo in fila uno vicino all'altro queste nove persone, i tedeschi li han fatti bere la grappa e compagnia bella, li han messi un po' in alto che c'era la ferrovia e li han sparati, li hanno uccisi uno dopo l'altro. Uno di quelli, guarda caso, la passerella era così, loro erano qui e in fondo alla strada provinciale che veniva da Gorizia c'era la casa di uno di questi e la moglie, i bambini e la suocera di uno. E loro vedevano, lo avevano riconosciuto il marito, era tra l'altro uno molto giovane...E chi lo sa qual è la reazione di uno che è davanti a una cosa del genere...Bisogna provare, forse, no? E quindi lui è scappato, nella passerella che quindi non era minata, e a metà della passerella gli han sparato. Tant'è vero che quando lo han messo nella cassa l'han lasciato lì due giorni lui, mentre gli altri invece li han portati via ognuno nella sua casa. [E a lui] gli han spezzato le gambe perché era raggomitolato, una cosa proprio tragica! Naturalmente forse è quello che poi dopo, crescendo, uno ha ancora quei ricordi e quei flash che magari si dimenticano adesso ma poi c'è sempre un qualche cosa che ti rinnova il ricordo, e allora poi il ricordo viene uno dietro l'altro, che ti si collegano tanti ricordi a una cosa sola. E quindi lì li hanno uccisi, e in due giorni sono morti madre e due figlie, i quattro sono sette e nove sono sedici. In più, c'era un altro signore che oggi era fascista e domani cantava bandiera rossa e poi era di nuovo [fascista]. I figli, tutti e tre maschi, erano partigiani. Lui era italiano [si chiamava] Conti, era triestino addirittura. Beveva, e quando beveva non sapeva quello che faceva, ed era molto amico di mio padre e mio padre sapendo com'era in quei momenti lì voleva stargli dietro, perché magari in osteria avevano bevuto assieme, e lui non beveva un granché, perché gli faceva male il vino. E lui bastava che bevesse un mezzo bicchiere perché partisse, e allora è scappato da mio papà, ed è andato proprio dove son stati uccisi questi nove, e quindi cantando bandiera rossa o cose del genere gli hanno sparato anche a lui. E quindi un morto in più. Poi anche come, con il cervello fuori...Io ho visto uno di quelli, anche perché da bambina si fan le cose senza pensarci e poi rimangono in testa, naturalmente."
12) Mi parlava di spie, delatori...
R.: "Si, poi per esempio, uno dei giorni verso la fine della guerra, ma non tanto alla fine, [sarà stato] il '44, naturalmente quando li prendevano...I fascisti e i tedeschi quando prendevano qualche partigiano erano dolori! Avevano preso un capitano della marina che era tra i partigiani, che c'era anche nome e cognome perché forse aveva preso la medaglia d'oro, l'avevano ben ben bastonato e poi buttato nel fiume Isonzo. Poi l'avevano preso, legato alle gambe e a un cavallo e lo avevano trascinato per tutto il paese. [Sono] cose che purtroppo io...A volte sento, si, le foibe e quelle cose lì, ma a me vien spontaneo di dire: ma prima, cosa c'è stato? Ci son stati, in Jugoslavia, gli stupri. Io le faccio un piccolissimo esempio che io faccio sempre, che a me colpisce anche se io lo metto in un posto che ci ragiono sopra. Mio padre aveva due fratelli, uno era più grande di lui di qualche anno e uno era pochissimo più giovane di papà. Il più grande era socialista e non aveva la tessera del fascio, quindi non aveva lavoro, quando c'erano le manifestazioni lui andava in galera, poi lo mettevano fuori, come succedeva a tutti. E lui non voleva la tessera, quindi era disoccupato; la moglie lavorava per i soldati [in una fabbrica che faceva] i paltò, i pantaloni, e le divise, perché non andavano avanti. Ma era una persona sensibile e buona, zio Dante. Era socialista, assolutamente contro il lavoro, poi i due fratelli l'hanno convinto e sono andati in Africa, e ricordo le lotte in casa, che c'erano, perché lui aveva due figli, e si era convinto, nel '36 mi pare, a prendere la tessera. Però nel '43, che lui era del 1897 e nel' 43 aveva quarantasei anni, e quindi a settembre del '43, dopo l'8 settembre, subito dopo, aveva bisticciato con la moglie ed era venuto da Trieste al mio paese in bicicletta. Era molto giù di morale, arrabbiato, e voleva andare coi partigiani. E papà invece pensando alla sua età, pensando alla sua non tanta salute, diceva: no! E addirittura papà e mamma sono arrivati al punto di chiudere la porta a chiave perché non uscisse. Allora lui è andato in bagno, ha spostato uno dei vasi di cemento che faceva l'Eternit, era molto pesante, e pian pianino l'ha posato a terra. Poi dal gabinetto è scappato: mamma e papà se ne sono accorti e hanno immediatamente aperto la porta per fermarlo e invece lui ha attraversato l'Isonzo. E pensa che dalla fabbrica [perché la casa dei miei genitori era vicina alla fabbrica] c'era un serbatoio di acqua e sopra c'era una piattaforma con le mitragliatrici e i fari che guardavano l'Isonzo, perché da lì passavano anche i partigiani: per non passare dalla passerella che poteva essere minata, passavano dall'Isonzo che era molto basso. E quindi lui è sparito in un batter d'occhio, e non c'è stato modo di fermarlo. E quello zio è stato ucciso dai partigiani. Più che dai partigiani da qualcuno del paese, da qualcuno della mamma e della moglie di lui, che erano sorelle e hanno sposato due fratelli. E probabilmente [è andata così], perché rivangando e domandando perché nessuno ha mai parlato che fine abbia fatto. Stranamente nel '45, una persona è andata a Trieste dai nonni: [il] nonno non c'era, [ma] c'era la nonna che, purtroppo, poverina era cieca quasi e gli ha detto chi aspettate non aspettatelo più perché è morto. Questa è l'unica cosa che abbiamo saputo di lui, e probabilmente lui è uno dei primi messo nelle foibe. Perché delle foibe, giustamente, si parla, ma chi c'era dentro quelle foibe prima degli italiani di Trieste e Gorizia? Era pieno dei soldati che combattevano nelle montagne, e dove finivano poveracci? Va beh, ognuno ha la sua opinione."
13) I soldati?
R.: "Quelli del '40-'45. Dal '40 al '45, perché, non combattevano in montagna? Dentro c'erano partigiani... Io non potrei testimoniare, però pensando ben bene a quello che c'era in quegli anni, a quanti non sono tornati...Beh, dove sono andati a finire? E combattevano in montagna eh!"
Claudio D.: "Posso dire una cosa su questo? C'è una canzone, in dialetto, in istroveneto, che parla delle foibe, di quella de Pisin, dove ei va a finir dentro coi piedi de morbin... Morbin è come delle idee strampalate: ti g'ha el morbin è come dire sei un po' particolare, sei un po' fatto a modo tuo, ecco. E c'è la canzone, c'è il testo perché su un libro scritto da Giacomo Scotti, c'è il testo di questa canzone cantata dai fascisti. "
R.: "Che poi lì dentro anche, in particolare, della gente comune del paese che molto probabilmente han fatto la spia che han preso qualche partigiano o comunque qualcosa del genere, son stati presi appena finita la guerra e portati via. E non si son più visti!"
14) Sarn finiti dentro...
R.: "Eh! Almeno, io non ci giurerei e non ho testimonianze, ma se ci ragiono sopra con la poca intelligenza che posso avere, penso che prima abbiano incominciato quelli che purtroppo hanno combattuto ancora nel '43 e nel '45."
15) Delle foibe lei aveva la percezione?
R.: "No, no."
16) Ne ha sentito parlare dopo?
R.: "No, son venute fuori quando poi gli sloveni han fatto manifestazioni per Trieste italiana, come noi italiani facevamo a Trieste e gli Alleati americani provocavano e poi filmavano e ridevano! Allora le manifestazioni erano per Trieste italiana e per Trieste slovena, e quindi da Trieste e da Gorizia son stati portati via un sacco di gente. Quanta io non ho idea, ma questo è vero...Portate via...Nelle foibe, nelle foibe. Portati via dalle loro case, dai loro paesi e che fine poi han fatto son quelli famosi che si parla delle foibe. Ma io parlo dell'anticipo."
17) Lei quindi, per intenderci, parla del '43...
R.: "Io penso...Poi, ecco, io la zona vera e propria delle foibe dove sono non la so, perché è lunga!"
18) Non le hanno mai raccontato come avveniva la cattura di queste persone?
R.: "No, quelle che so io son quelle che le han portate via dalle case. Ma finita la guerra, eh! Quindi portate via, magari legate, fatte [passare] per la strada che andava in montagna, magari con le pantofole [cioè] non pantofole, ma scarpe non da montagna. E poi non si trovavano più, eh no."
19) Quindi sparivano dall'oggi al domani...
R.: "Eh...Che poi invece mio zio Armando lui, furbo, si è alleato con i repubblichini di Salò, nel '43, con un amico. Zio aveva poi un figlio solo che era in marina e per tanto tempo non si è saputo niente di lui, e invece l'altro era un giovane, un ragazzo e son partiti tutti e due. Sbruffoni, perché poi quando venivano da Gorizia a trovare le famiglie, spiritosi, sparavano col fucile dal treno. E poi noi trovavamo nelle finestre, che eravamo a pianterreno, delle case che son state fatte solo per gli operai italiani, che noi italiani avevamo ancora sempre l'abitudine [di mettere] dei fiori alle finestre, dei gerani in dei vasoni grossi. E tra i due vasi [trovavamo una copia]del giornale, del Piccolo, il famoso Piccolo di Trieste. E abbiamo visto in una o forse due occasioni, ma in una sono sicura perché mi ricordo ancora di averla visto, [un articolo] sulla bruciature di case all'interno della Jugoslavia, e noi temiamo di aver visto anche mio zio. E qualcuno [quel giornale] ce lo ha messo nella finestra per farcelo sapere. Chi, come, chi lo sa, ma comunque [lo hanno messo] per farcelo sapere. Comunque vede il particolare dell'orribile, la guerra cosa può fare?"
20) Suo zio però poi non l'hanno preso...
R.: "No, lui una volta capita la cosa, si è fatto ricoverare a Gorizia nell'ospedale militare. L'altro invece, il suo compagno, si è messo il fazzoletto rosso per far vedere che era partigiano: lo conoscevano, perché in un certo qual modo era peggio di mio zio, gli han fatto mangiare il fazzoletto e poi l'hanno ucciso. Mai più visto, mai più visto."
21) Se non le crea problemi, vorrei parlarle un attimo di suo zio, quello che ha detto essere stato infoibato. Secondo lei perché lo hanno gettato in foiba, perché aveva la tessera del fascio?
R.: "No, no, lì c'è stato un motivo personale, nel fatto che probabilmente mio zio si era innamorato della sorella di mia mamma che era fidanzata con un altro e...Perché gli sloveni sono bravi e buoni, ma non toccarli!"
22) Ho capito. Lei invece della guerra ricorda [mi interrompe]
R.: "La fame anche."
23) Ecco, stavo proprio per chiederglielo. La fame, la borsa nera...
R.: "Borsa nera meno in paese, però per esempio noi avevamo la particolarità che non avevamo campi, orti, pollai e robe del genere. [Avevamo] un piccolo orto, ma il latte, il grano e quelle cose lì [no]. Che poi noi eravamo arrivati in quel posto [nel mio paese] al punto che addirittura non c'era più la farmacia, non c'era più il dottore, non c'era più la scuola, non c'era il fornaio: non c'era più niente! Perché tutti scappavano! Senza essere presi, scappavano e se ne andavano: il medico era un napoletano ed è ritornato a Napoli, il farmacista era goriziano e pretendeva quasi il saluto fascista a entrare in farmacia, ed è andato via...Invece il dottore no, per esempio, la maestra dell'asilo era un bon bon quasi, e invece anche tra le maestre c'era quella che pretendeva la divisa, il saluto e compagnia bella e quelle che invece chiudeva gli occhi. E peccato che non c'era più gente che ragionava in quel periodo! Mio padre era fabbro meccanico, e data la fame... Intanto nel '37 e nel '40 son nate altre due sorelle ed eravamo in cinque sorelle: eravamo piccole, e non c'era vitamine, non c'eran medicine, non c'era niente, e quindi il medico aveva consigliato di prendere una capra e di darle il latte alle due piccole che era [latte] più nutriente. Però poi, specialmente l'ultimo anno, non c'era più niente da mangiare: il pane non c'era, farina non c'era, non c'era più niente! Mio padre allora aveva fatto una macchina [che sembrava] sai quegli aggeggi che facevan la conserva? Beh, più robusto... Poi, sai quelle panche che c'erano una volta nelle osterie, che ti sedevi anche in tre o quattro? Beh, gli aveva fatto un buco e in mezzo ci aveva piazzato questo suo mulinello. Lui lo imprestava ai compagni di lavoro che avevano un po' di terra, perché c'era l'ammasso, e quindi bisognava consegnare ciò che sti poveri diavoli coltivavano. E quindi, in particolare, zio, che era fratello di mamma, ci dava un po' di latte, ci dava le mele, ci dava le noci e le castagne...Le castagne...L'ultimo anno, io odio le castagne, [mangiavamo] le castagne nel caffelatte perché non c'era altro, o [mangiavamo] il radicchio condito con lo strutto...Ah, che roba! Ma non c'era latro, non c'era... Pane non c'era, non c'era niente...E poverina, mamma, come faceva ...Una delle prime cose che mi è venuta in mente ricordando il passato è come faceva mia madre a prepararci il pranzo o la cena che non aveva niente, non lo so! Una volta ci ha fatto una specie di focaccia con la meliga, farina di polenta, non c'era altro, e ci aveva messo [dentro] qualche ciliegia per addolcirlo. Quando c'era quello, se no quando non c'era neanche quello non c'era...Io mi ricordo un fatto: papà mi aveva detto vai fin là, che c'erano due chilometri e mezzo se non tre da andare in casa di quel signore, che io sapevo dov'era perché ci conoscevamo con tutti gli sloveni, conoscevamo...Vai che ti darà un po' di granoturco. Io sono andata e combinazione quel compagno di lavoro di mio padre, che smettevano alle due, si lavava in quei porta catini di ferro. Si lavava, io sono arrivata e ho detto a lui: papà mi ha mandato a prendere qualche cosa. Si, aspetta un momento. E la moglie ha intuito: lei non parlava l'italiano, ma l'aveva intuito, e ha cominciato a brontolare con lui perché aveva capito che lui mi doveva dare un po' di grano perché papà gli aveva imprestato quell'aggeggio per poter macinare un po' di grano per fare polenta anche loro. Quella continuava [a gridare] perché anche lei aveva figli e di grano non ne aveva tanto e allora splash, l'ha bagnato tutto con l'acqua! Tutte cose che sono una memoria viva. E anche quella è una cosa che non ho mai dimenticato, perché poi mi ha messo anche un po' paura, ma ero piccola. E quindi ho alzato il grembiule e nel grembiule mi ha buttato due o forse tre manciate di grano e[sono andata] fino a casa a portarle. Poi quando papà metteva su questo aggeggio che non lo prestava, io e mia sorella Libera, una seduta da una parte e una dall'altra [della panca], ci mettevamo a cantare forte e a girare sto mulinello per far la farine perché gli altri non sentissero che facevamo un rumore diverso. Insomma, si aveva anche paura dell'aria che c'era!"
24) La guerra finisce nel '45, e si porta dietro tutta la questione del confine...
R.: "Io l'ultima cosa che ho visto è la sfilata dei nostri soldati andare via. Penso che sia stata nel '43 quella cosa lì, dopo l' 8 settembre. Però fascisti e tedeschi son rimasti eh..."
25) Ho capito...Torniamo al dopoguerra, cosa succede?
R.: "Guardi, tanto per farle un altro esempio...C'era la mensa degli operai della Eternit e nel '45, noi siamo venuti via nel '47, volevano fare il ballo nella mensa gli sloveni, naturalmente, e giustamente, era finita la guerra, era la fine dell'anno... E papà aveva paura a lasciarci andare, e non ci lasciava andare, perché lui aveva paura. Perché gli italiani, oramai, uno era andato in Australia, l'altro in Argentina, poi c'erano quelli che avevano delle paure o che avevano fatto delle manifestazioni fasciste o trattato anche male qualche compagno di lavoro, non in maniera molto grossa, ma comunque... Le maestre [ad esempio] son le prime che se ne sono andate, perché erano cattive con i ragazzi sloveni, perché intanto li bocciavano, magari meritatamente, ma potevano anche aver un po' più di attenzione."
26) Quindi mi sta dicendo che i primi ad andare via sono stati coloro che avevano rapporti più stretti col regime...
R.: "Si, perché quell'uno o due che son rimasti, son poi stati portati via dai partigiani. Uno l'hanno ucciso, che era impiegato in qualche cosa, ma non ricordo se era in Posta o in stabilimento, e un altro non so neanche che ruolo aveva, era friulano e l'han portato via. E quello si pensava proprio che portandolo via come l'avevano portato via aveva fatto la spia o qualcosa del genere, senz'altro. E uno l'avevano ucciso, che poi non era...Era una persona mite e tutti dicevano: che strano che l'abbiano ucciso, per quello che lo conosceva la gente nei dintorni. E dicono, se è vero o no [non lo so] che gli han tagliato un dito per togliergli la fede. Vero, non vero? Questo invece, questo signore qui non si è mai saputo dove è andato a finire. Ma il podestà e i dirigenti dello stabilimento, che erano tutti del Piemonte - Ozzano, Marino e altri che magari adesso all'ultimo momento non mi vengono in mente - e il direttore, il vicedirettore, i responsabili e il caposquadra che erano italiani sono andati via subito. Eh si! Anche qualche famiglie, perché magari...Sa, diciamo oggi, magari mio padre gridava anche viva il duce per necessità e magari domani lo mandava in quel paese perché sapeva cosa era stato provocato. Poi lui lavorava di notte dal '43 al '45 in officina dell'elettricità: faceva il turno di notte, e aveva una radio che collegava partigiani e soldati e compagnia belle. E quando c'è stata quell'uccisione che ho nominato prima, han messo in fila tutti gli operai: uno, due, tre... dieci. E mio padre per due volte è venuto fuori decimo, poi però si è intromesso...Hanno ucciso il prete anche, e sembra che l'abbiano ucciso loro, loro sloveni perché sembra che tenesse per l'Italia e per i fascisti. Vero, non vero, queste son tutte cose che noi siamo poi venuti via. Per esempio noi siamo poi venuti via perché mio padre, tanto affezionato a mio zio, al fratello di mamma, che gli amici che erano partigiani, che sapeva che erano stati partigiani, gli avevano detto: Ottavio non andare via, resta con noi. E' rimasto qualcuno di italiani nel paese; mio papà non avrebbe avuto tanta difficoltà: aveva chiesto a noi figli e alla mamma qual era la nostra idea, ma io non aveva neanche diciotto anni a Giulia, la più grande, [ne aveva] diciannove e quindi si, potevamo prendere anche noi le decisioni, ma senza competenza in un certo qual modo. Noi poi si andava all'avventura, comunque sia. Comunque, in particolare, papà desiderava sapere che fine aveva fatto suo fratello, perché dato che quella voce girava che lo avevano ucciso loro, [girava voce che l'avesse ucciso] un paesano che ce l'aveva ancora che era stato venti anni prima, che mio zio aveva sposato la ragazza che lui voleva sposare. Quello era il motivo, vero o non vero [non si sa]: l'hanno bastonato e l'hanno ucciso a botte, proprio veramente male, che lui urlava mamma aiutami. Vero o non vero...E mio padre, io me lo ricordo, che io mia mamma e mia sorella eravamo sul treno e lui passeggiava avanti e indietro, perché allora in due giorni siamo arrivati a Ozzano, con quella poca mobilia che avevamo. E, gli diceva mio zio, non andare Ottavio, non andare, resta. Ed era poi da mesi che andava avanti questa storia, resta, resta. E lui aveva detto che se a lui davano i resti di mio zio, lui restava. Invece nessuno voleva scoprire cosa era successo a questo mio zio, e quindi mio padre ha detto no: o mi date i resti di mio fratello e io resto, altrimenti me ne vado. Per sapere la fine che aveva fatto questo suo fratello, perché era molto buono questo mio zio, però era un tipo che toccarlo andava sulle furie, ed era una sua debolezza quasi, quella."
27) Quindi il motivo scatenante la partenza è stato quello, non la paura...
R.: "Quello, la paura di scoprire cosa era successo, nel senso che non lo volevano ammettere dov'era. Perché anche il fratello di mia mamma lo sapeva, ma neanche a sua sorella la morte di questo zio non gliel'ha mai detta. "
28) Dopo la guerra il suo paese diventa parte della Jugoslavia...
R.: "Si, si."
29) Lei va via, mi ha detto, nel '47, e quindi lei vive un po' di Jugoslavia. Posso chiederle cosa cambia rispetto a prima. Credo che si trovi di fronte a un mondo nuovo...
R.: "Si, cambia... Guardi, una cosa che mi aveva colpito è che io avevo fatto due anni di commerciali e avevo finito la terza a Gorizia, perché c'era i bombardamenti. E avevano messo la scuola serale, oltre che la scuola slovena. E io, per curiosità e interesse, ho voluto andarci alla scuola serale, e c'era un insegnante molto brava che però parlava sloveno, e io grazie a dio capivo abbastanza, anche se io il dialetto con le mie compagne, con le zie o con i miei vicini se volevo lo parlavo, e ancora adesso qualche parola la so, anche se faccio ridere quando tiro fuori qualche parola! Ma è dialetto, non è lingua. E quindi, a un certo momento, io che avevo studiato la storia che si partiva da Roma, dai romani e roba del genere, loro partivano che loro erano stati ancora prima dei romani, e allora ho rinunciato e non ho più voluto andare a scuola. Ma come, pensavo, mi sconvolgono tutto?! Il particolare è che noi abbiamo continuato ad aver rapporti con la gente comune come prima, però io mi ricordo che una sera mia sorella e io abbiamo voluto uscire con due ragazzi che avevamo fatto la scuola assieme, e siamo andati verso il paese che c'erano gli sloveni e non gli italiani. E due ragazzi, che probabilmente erano quelli che avevano messo le ciliegie e la pipì, che avevano combattuto ed erano stati in montagna, perché quelli non avevano fatto i soldati, ma avevano fatto proprio i partigiani. E, stupidamente o casualmente, ci hanno fermati, e noi tutti e quattro, che io poi son sempre stata un po' più irruenta, riflettevo poco mentre invece mia sorella mi diceva: sta zitta, sta zitta! Perché io dicevo: ma come, abbiamo fatto la scuola assieme e adesso mi dite perkleti taliani, maledetti italiani! E noi? E noi a loro maledetti s'ciavi; quante volte glielo abbiamo detto maledetti s'ciavi! E quindi a un certo momento abbiamo avuto un po' di [paura]: loro due, i ragazzi [che erano con noi] erano già di due anni più grandi, e [mia sorella] Giulia, molto capace, meditava. Io no, io ero più irruenta. E quindi mi diceva: sta zitta, sta zitta, perché magari avevano bevuto. E quindi, pian piano, siamo ritornati a casa, e non uscivamo alla sera, non uscivamo. Perché anche tra di loro chi era stato tra i fascisti, fascisti sloveni, e i partigiani, era successo che si prendevano a botte e compagnia bella."
30) Mi ha detto s'ciavo, quindi questo è un termine utilizzato anche da voi e non solo in Istria....
R.: "S'ciavo si, dispregiativo, altroché! Perché io l'ho detto a un ragazzo, ma ancora oggi mi vergogno di averglielo detto, perché... Poi a un ragazzino come me che, non mi ricordo, mi aveva detto qualcosa. E come l'ho detto mi è dispiaciuto, mi son vergognata di farlo perché io avevo ricordato immediatamente che mia mamma era slovena, ed era una stupidaggine. E poi era già finita la guerra!"
31) Ed era un termine usato per deridere e screditare?
R.: "Si, si. E loro, invece, ci dicevano precleti taliani."
32) Parliamo ora del suo viaggio. Mi ha detto che parte nel '47...
R.: "Io vado prima a Ozano e poi a Casale Monferrato. Che Ozano è un paese a otto chilometri da Casale."
33) Come mai decide di venire proprio qui?
R.: "Intanto perché qui a Ozano c'era già un fratello di mio padre... A Ozano siamo andati alla scuola, e meno male! Perché Giulia, Romana e Libera sono andate a lavorare in casa d'altri, e noi stavamo giorno e notte e mangiavamo, ma loro no,eh! Mio papà è stato mesi senza lavoro lì, perché non volevano assumerlo. Dovevano, come profugo, e non volevano...Il solito...Anche quando siamo andate noi ragazze a domandare [ci rispondevano]: per voi non c'è lavoro! E infatti ètra di noi] chi non è andato in sevizio, pochissime non sono andate in servizio in casa d'altri. E [non c'era] niente di male, perché basta lavorare, per carità, anche perché poi non siamo state trattate male. Comunque siamo venuti qui perché zio Armando, l'ex repubblichino, appena aveva potuto, prima della fine della guerra, era già venuto qua a Ozano che c'erano degli amici che noi avevamo conosciuto ed eravamo cresciuti assieme al mio paese. Che una, addirittura, era una sorella di latte."
34) Mi ha detto di essere partita in treno.
R.: "Si."
35) Cosa siete riusciti a portare con voi? Cioè avete portato con voi tutto ciò che volevate oppure avevate degli impedimenti?
R.: "No, no, assolutamente no. L'unica cosa che purtroppo papà ha perso, d'altronde qui non avrebbe avuto modo di metterla, è che lui nell'orto aveva un'officina. Aveva la forgia, l'incudine, faceva il fabbro ferraio mio papà. Faceva le cose di ferro, le cancellate: a Gorizia c'è un cancello fatto da papà. E poi lui faceva le palette, i ferri da smuovere la brace e quelle cose lì. Aggiustava anche le pentole che poi gli mettevano i ribattini. L'officina l'ha lasciata lì, e poi gli avevano detto di fare domanda per i danni, ma ha lasciato perdere."
36) Dal suo paese è invece andata via tanta gente oppure molti sono rimasti
R.: "No, no, del mio paese vero e proprio, specialmente prima di noi, prima della fine della guerra sono andati via. E son quelli che erano più dalla parte dei fascisti."
37) Mi ha detto che la sua famiglia è andata via per un motivo preciso [mi interrompe]
R.: "Si, quello è il motivo principale, ma poi ce ne sono altri. Naturalmente il papà il lavoro ce l'aveva, in fabbrica, invece qui c'era la fabbrica dell'Eternit dello stesso ramo, però arrivando qua c'è stata difficoltà, siamo stati mesi nella Cansa."
38) Di questo ne parleremo. Volevo solo chiederle se secondo lei chi è rimasto nel suo paese lo ha fatto anche per motivi politici...
R.. "Quei che son rimasti, se non sbaglio, penso che siano stati poco politici. Che poi si siano aggregati perché le mogli erano slovene e i ragazzi parlavano sloveno è una cosa che è andata avanti negli anni, ma per quello che ricordo in questo momento così, erano poco politici. Poco interessati [alla politica] prima e anche dopo. Che quindi anche mio papà non era uno tanto interessato del fascio, e se avesse voluto noi saremmo rimasti benissimo lì ancora. Avevamo anche la casa dello stabilimento."
39) Mi ha detto di essere arrivata a Ozano nel '47...
R.: "Allora, noi siamo partiti da Gorizia il 3 marzo del 1947. Io facevo quel giorno diciotto anni. Siamo venuti dopo le grandi manifestazioni, e noi abbiamo saputo qui a Casale che Trieste era italiana; non ricordo in che anno, era il '48?"
40) Trieste passa definitivamente all'Italia nel 1954...
R.:"No, no, prima si sapeva già. Eh no, '53, ha ragione, era quell'epoca E mi ricordo che il papà ha fatto un salto! E quindi noi abbiamo preso la decisione di venire via, perché pareva che dello zio non ci dessero i resti, e lo zio Armando, quello repubblichino, era in Ozano e lavorava nello stabilimento dell'Eternit. Era elettricista, lui, all'Eternit, veniva da Ozano a Casale."
Claudio D.: "Qui a Ozano l'Eternit aveva un cementificio, mentre invece a Casale c'era l'amianto."
R.: "La lavorazione vera e propria dell'amianto, che è quella che ha portato ai disastri."
41) E quindi suo papà è stato assunto lì...
R.: "Si, dopo cinque mesi ed è stata dura, ma molto dura per loro [ per i mie genitori]. Perché a volte non sapevano cosa mangiare: costava 300 Lire al chilo il pane e papà per la liquidazione di ventitre anni di lavoro, la liquidazione dello stabilimento là, aveva preso 18.000 Lire, e noi siamo venuti via con quello. Ed eravamo in sette. Ed è stata dura perché noi proprio... Per me è un merito, gli altri la pensino come vogliono: la dignità di non voler chiedere la carità, [di non voler chiedere] niente a nessuno. Mia mamma e mio papà si son trovati a dividere un frutto in quattro, tra le due [figlie piccole] e loro; se avanzava qualcosa dal refettorio delle bimbe che andavano a scuola, la bidella aveva il cuore di dargliela, ma se non avanzava non c'era."
42) Lei arriva a Ozano e poi viene a Casale, quando?
R.: "Siamo arrivati prima a Ozano il 5 marzo del 1947, e c'era un po' di neve. E poi da lì ci siamo spostati quasi immediatamente a Casale, perché papà ha incominciato a lavorare, e quindi siamo andati a finire nei cameroni [della Cansa] che erano prima degli aviatori."
Claudio D.: "Si, si, era un deposito dell'aviazione."
43) Alla Cansa...
R.: "Si, si, alla Cansa"
44) Riesce a descrivermela la Cansa, se la ricorda?
R.: "Altroché! Io mi son sposata quasi subito, ma i ricordi ci sono, eccome! Allora, intanto erano quei grandi cameroni che erano stati per molti soldati che dormivano in quei cameroni, quindi erano state fatte le divisioni, ma i soffitti erano talmente alti...E c'era, subito fuori dalla porta e per tutto il corridoio che c'erano altri profughi che non erano del nostro paese. Noi eravamo soli di lì, non avevamo nessun altro, siamo proprio venuti casualmente di lì, dalla Slovenia. E quindi c'erano i gabinetti comuni, ma puliti, perché i gabinetti erano puliti: ce n'erano cinque o sei, ma per le famiglie che c'erano non c'erano problemi. E poi mio padre andando a lavorare nello stabilimento [dell'Eternit] ha fatto la domanda per l'INA Case e siamo finiti [nel quartiere] Oltre ponte nell'INA Case nel '53. Io ero incinta e nel '53."
45) E alla Cansa le divisioni com'erano? Cioè, ogni famiglia aveva la propria stanza?
R.: "Allora, c'era la cucina divisa casualmente perché non tutti l'avevano divisa, noi si perché eravamo nell'angolo. E poi la camera anche era divisa da quella di mamma e papà, e noi sorelle. Era divisa sempre da legno, da una tramezza di compensato o qualcosa del genere: adesso non ricordo bene, ma non erano coperte, era legno o qualcosa del genere. E quindi siamo stati lì: siamo arrivati nel '47 lì e nel '48, a novembre mi son sposata ed ero la prima, la prima di tutto il giro della Cansa. Tant'è vero che mi prendevano in giro!"
46) E anche da sposata ha continuato a vivere lì?
R.: "No, no."
47) Della Cansa a me interessa sapere quante famiglie eravate...
R.: "Allora, i G. tre, B. un altro che non era tanto per la quale, poi i'era I., e noi. Diciamo che da noi saremmo stati in cinque."
48) Da voi perché? Eravate due palazzine?
R.: "Si. Da una parte erano più case che caserma, gli uffici, mentre noi eravamo più caserma."
Claudio D.: "Diciamo che da una parte c'erano gli uffici e i magazzini e dall'altra era più una caserma. Comunque in tutto ci saranno state...Dov'erano loro cinque famiglie, cinque poi erano in quella di mezzo dove c'era i G., c'era i J., c'era i P., i C., e poi di qua c'era altre famiglie."
R.: "Si, erano tre le parti: due basse e una più grossa. E una, la nostra, era proprio dormitorio, invece [le altre] erano più uffici."
49) E le stanze erano divise, tutte quante...
R.: "Si, e non era male, perché mi ricordo che mi piacevano i pavimenti rossi, di piastrelle, quello di ingresso, ed era abbastanza facile da tenere in ordine. Però faceva freddo, eh! Faceva freddo e non c'era il riscaldamento."
50) E cosa avevate, lo spaher?
R.: "Si, o il tamburnin lo chiamavano qui. E anche quando mi son sposata avevo quello"
Claudio D.: "In Monferrato il tamburnin è una cosa [stufa] alta così, cilindrica."
51) Quindi la quotidianità era molto diversa da quella di un campo profughi...
R.: "Ah beh, si, non era un campo profughi il nostro. Era un insieme, perché poi era presidente il prof. D., e quindi non era come un campo. Non è che avevamo attenzioni, un po' si la pontificia."
52) Ecco, chi è che vi forniva un po' di assistenza?
R.: " Un po' la pontificia [Pontificia Commissione di Assistenza, PCA], ma non molto: l'han data per un po', poi quando abbiamo cominciato a lavorare hanno smesso."
53) Posso chiederle cosa vi davano?
R.: "Penso che sia stato il pacco di pasta, di riso... Guardi, siccome noi tre ragazze eravamo già a lavorare in casa d'altri, non è che abbiamo proprio seguito con gli occhi la cosa."
54) Lei ricorda se arrivassero dei pacchi dagli Stati Uniti, i cosiddetti pacchi UNRRA?
R.: "No, no, assolutamente no. Anzi, una cosa mia personale: siccome io mi sono sposata per prima e mi prendevano in giro dicendo che ero già incinta e invece non era assolutamente vero, era una stupidaggine. Quando è stata messa fuori la voce, che anche quella era un po' una cattiveria, che un giorno vado da mamma ed ero incinta di mio figlio e mio marito lavorava nelle miniere a Cognolo, o qualcosa del genere e finiva alle dieci di sera quando faceva il turno del pomeriggio. Mia mamma mi dice: sai, c'è chi dice che ti sei sposata perché il comitato dei profughi ti ha dato dei soldi, altrimenti non potevi sposarti. L'ho detto prima che avevo il carattere [irruento]; adesso no, mi sono moderata, ma allora mi sono arrabbiata! Ero già abbastanza avanti [nella gravidanza] e quella sera sapevo che c'era una riunione [ e mio marito mi dice]: ma dove vai? Vado alla riunione. No, non andare! E sono andata. E c'era tutto il comitato e i profughi e allora mi son rivolta al presidente e gli ho detto: signor D., lei ha dato dei soldi a mio papà e a mia mamma quando mi son sposata? No. Ecco, allora che lo sappiano tutti che noi non abbiamo avuto dei soldi quando ci siamo sposati. E poi me ne sono andata, ed ero soddisfatta di averlo fatto! Avevo diciannove anni."
55) Quindi i profughi facevano delle riunioni?
R.: "Si, di quando in quando. Poi mio papà andava e poi se c'erano delle beghe mio papà si rifiutava di andare. Ma erano in tanti. Poi [in tanti] erano anche disamorati, anche abbastanza a disagio, anche se qualcuno poi ha fatto fortuna, si son fatti le case. Noi abbiamo avuto l'INA Case, e a noi diciamo che andava bene senz'altro. E poi era come dappertutto: anche se si è nelle stesse condizioni e si soffre alla stessa maniera [alla fine c'è sempre chi dice] ah, tu si e io no, tu no e io si."
Claudio D.: "Le donne, e questo me lo ricordo, avevano mediamente più grinta degli uomini."
R.: "Ah, questo si! Tu pensa, una cosa personale, però me la ricordo: mio marito aveva un fratello che purtroppo non era tanto per la quale, aveva picchiato una signora e l'avevano mandato a Gaeta. A Gaeta avevano bombardato la prigione ed era scappato. Si era sposato in una maniera stupida, perché si era proprio sposato male, con una donna non seria e aveva messo al mondo una bambina. E poi bisticciavano e al primo bisticcio chiamano i carabinieri e lo mettono in galera, e lì fa la sua carriera fino a quando non va in pensione. Dentro fa la brava persona, poi esce beve uin bicchiere di vino, fa casino e lo rimettono dentro, e paga il condono e la pena. Quello è stato il fratello di mio marito. Quando ho conosciuto mio marito, lui era già in prigione, aveva già fatto il primo litigio. E mio marito aveva pudore, non sapeva come dirmelo, e allora una sua zia ha detto chiaramente: o glielo dici tu o glielo dico io, perché glielo devi dire. Allora mi ha portato in casa sua e mi ha fatto leggere una lettera del fratello. Io ho intuito che veniva dalla prigione, c'era il timbro, e gli ho detto: guarda che io sposo te, non tuo fratello! Però non lo diciamo in casa, non lo diciamo a mia mamma e mio papà. Prima che nascesse Avio [mio figlio] lo sapevano, glielo avevano detto a mio papà: ah, ma non lo sa che suo genero ha un fratello in prigione? E mio papà, eravamo soli con mamma, mi ha detto: ma senti un po' ma è vero questo? Si. Guarda che io lo sapevo prima e son stata io a dirgli di non dire niente. Bon, basta, neanche una parola in più. Tanto per dire."
56) Parliamo ancora un attimo di Casale: posso chiederle come siete stati accolti dalla popolazione locale?
R.: "Non bene, ma neanche proprio male, male. Nel senso che: mi scusi, dov'è quella via? Mi sai n'en...E la via era scritta sopra la loro testa! Tanto per dire...Perché sapevano che non eravamo casalesi. Oppure salutare una persona che avevamo conosciuto e non rispondere, oppure sentirsi dire questi ci vengono a portare via il lavoro e noi non abbiamo lavoro, perché anche quelli non erano tempi tanto per la quale. Ma non più di tanto: [infatti] anche noi che siamo andati in casa d'altri a lavorare abbiamo rispettato e loro ci hanno rispettato."
57) C'è uno stereotipo, ovviamente sbagliato, tendente ad individuare gli istriani come fascisti. Anche a voi è capitato di subire qualche discriminazione di tipo politico?
R.: "No, no. Neanche sul lavoro papà, io credo di no. Papà era un misantropo"
58) Quindi, tirando le somme, non siete stati accolti male...
R.: "Diciamo non benissimo, perché si capiva...Per esempio, a parte che non era proprio il carattere di mio papà andare al cinema, al bar, in osteria o roba del genere, ma non uscivamo più di quel tanto noi. Altri non lo so, alcune ragazze andavano anche a ballare. Mio papà...Siccome noi ci arrabbiamo, [avevamo diciannove, diciotto anni], perché finita la guerra al mio paese dicevamo a mio padre papà, lasciaci andare a ballare! Ma lui non voleva, aveva paura e non aveva torto, perché anche un bicchiere di vino in più poteva...E, se andavamo, a mezzanotte dovevamo essere a casa. E lui ci aveva promesso, quando si parlava di venire via, che quando saremmo venuti qui lui ci avrebbe lasciato andare. Invece mi ha lasciato andare una volta, ma non mi è piaciuto e non sono mai più andata. E poi ho conosciuto mio marito."
59) Alcune testimonianze raccolte hanno evidenziato la diffusione di uno stereotipo legato alla donna istriana e cioè quello si essere considerata di facili costumi. Una convinzione sbagliata certamente, dovuta probabilmente al modo di fare delle ragazze istriane più spigliate ed emancipate rispetto a quelle dell'Italia di allora. A lei è mai capitata una cosa simile?
R.: "Questo era già successo anche nel paese, con i soldati americani neri, era già successo anche là. Qua a me non è mai capitato, e quindi non sentivamo le esigenze di uscire. Ma altre ragazze, che son andate a finire anche loro in Australia o qualcosa del genere, ma non me le ricordo più perché le ho frequentate anche poco, ebbene quelle le amicizie le avevano, erano forse anche un po' più libere, ma senza esagerare."
60) Le faccio l'ultima domanda poi abbiamo finito: come ha fatto, negli anni ad integrarsi qui a Casale?
R.: "Non c'è stata difficoltà, no, neanche per le mie sorelle. Perché io mi son sposata presto, a diciannove anni e quindi ero proprio giovane, ma neanche le mie sorelle [hanno avuto difficoltà], tanto è vero che Cristina e Luciana penso abbiano imparato il dialetto locale, mentre anche io capirlo senz'altro, ma parlarlo no. Io ho imparato da mio marito un'unica frase che dico in dialetto: ah, el pi brau dei rus l'ha campà so par'n tal pus! E mi prendeva in giro e gli dicevo: guarda che i capelli li avevo rossi prima... Ma era un modo per prenderci in giro."
26/09/2009;
All'intervista partecipa in qualità di mediatore anche Claudio D., profugo di Dignano residente a Casale Monferrato. I suoi interventi sono segnalati e trascritti nel testo.
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