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CARTACEO: Intervista a Claudio D.

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Intervista a Claudio D.
Claudio D. nasce a Dignano d'Istria nel 1944. Suo padre, operaio alla Fabbrica Cementi Marchino di Pola, lascia Dignano a gennaio del 1947. Claudio, la madre e il fratello, dopo un breve periodo di alcuni mesi trascorsi nel centro di raccolta profughi di Marina di Massa, lo raggiungono a Casale Monferrato, dove il padre trova lavoro presso il locale stabilimento Marchino. A Casale dopo una breve sosta alla Casa di Riposo, si trasferiscono alla Cansa e in seguito alle Case Popolari in quanto profughi. Impegnato attivamente nel sindacato, Claudio D. vive oggi a Casale Monferrato dove è stato intervistato il 28 dicembre 2005. Intervista e trascrive Enrico Miletto.

"Sono nato il 20 settembre 1944 a Dignano d'Istria, un paese a circa dieci chilometri da Pola nella parte meridionale dell'Istria."

1) Mi parli della sua famiglia di origine...

R.:" Sono il secondo di due figli, mio fratello più grande di tre anni circa abita a Settimo, vicino a Torino. Mio padre prima è andato come apprendista in una tipografia a Dignano che era di suo cugino, poi dopo un po' di anni è finito alla fabbrica cementi Marchino di Pola e lì faceva il magazziniere addetto alla spuntatura, al controllo e alla movimentazione. Poi ha fatto anche per alcuni anni il messo giudiziario. La Marchino a color che optavano per l'Italia nel momento in cui c'è stato il diritto di opzione, prometteva un posto di lavoro in uno dei suoi stabilimenti in giro per l'Italia, per cui di fatto lui è stato mandato a casale perché c'era la fabbrica. E' arrivato a Casale a gennaio del '47 e noi siam venuti poi via a febbraio. Lui era stato messo in una casa di riposo, un centro raccolta per sfollati e quando siamo arrivati anche noi siamo andati in questo centro raccolta profughi individuato qui a Casale per i profughi istriani. Mia mamma invece era casalinga. Fino al momento di sposarsi era in casa e lo è stata anche dopo."

2) Lei si ricorda se i suoi genitori le hanno mai parlato della cucina che avevano in casa a Dignano?

R.:"Ma, della stanza no, però ho dei vaghi ricordi di quando andavo a trovare i parenti rimasti in Istria, e ricordo che c'era il focolare. Il fogolar era abbastanza tradizionale, c'era un po' dappertutto insieme a un'altra cosa, lo spaker. Quello che mi raccontavano sempre era la cosa del pasto consumato tutti insieme, con il capofamiglia a capotavola, con un'aringa che scendeva dal centro della volta, e tutti intingevano un pezzo di polenta su questa aringa per dargli il gusto, per cogliere le essenze, vaghe penso. Ed era una lotta alla fine riuscire a mangiarsi l'ultimo pezzo. Questa cosa la dicevano sempre i miei, soprattutto mio padre che mi raccontava che da giovane il suo incontro col cibo era stato di questo tipo qua, traumatico. Della cucina dei miei ho ancora una credenza che è venuta con noi dall'Istria: l'ho fatta restaurare ed è diventato un mobile della mia sala."

3) Parlando invece del cibo. Si ricorda se mangiava dei piatti tipicamente istriani?

R.:"La cucina era sicuramente e tipicamente istriana. C'erano i capuzi, che era un piatto che mangiavamo sovente, anche se poi in realtà utilizzavamo gli ingredienti di qui. Di cose particolari mi ricordo i dolci pasquali, prima tra tutte la pinza, che è una treccia con l'uovo dentro e che mia mamma faceva in casa con lo spaker. Poi i gnocchi dolci: c'erano gli gnocchi normali che mamma era molto brava a fare, e poi c'era una specie di gnocco dolce avvolto nel cacao e ripieno di marmellata che diventava una cosa grande... In sostanza, se ne mangiavi due di quelli eri a posto, potevi anche non consumare il pranzo, perché erano grossi al punto che doveva straci il ripieno di marmellata dentro."

4) Lei sa meglio di me come i luoghi da cui arriva sono luoghi di confine in cui convivono diverse culture, usanze e tradizioni. A me interessa sapere questo: le hanno mai raccontato se dal punto di vista del cibo e dell'alimentazione, c'era una contaminazione, uno scambio, tra italiani e slavi?

R.:"Ma, a me non han mai raccontato nulla di questo per un fatto, e questo mio papà lo diceva. E cioè che soprattutto sulla costa, e Dignano stava già dentro questa fascia costiera, dove era molto prevalente l'italiano, le caratteristiche legate alla cultura, alla religione e alle usanze religiose erano segni distintivi, non c'era contatto con gli slavi. Mentre nell'interno, più andavi verso l'interno e sicuramente le cose diventavano diverse, perché lì nei paesi dell'interno la prevalenza croata era decisamente marcata. Io però non saprei dire se c'è stata questa mescolanza, ma non credo. Per esempio, ma è una cosa banale, alcune cose come i cevapcici e i rasici a casa mia non si sono mai mangiati e li ho assaggiati dopo, quando sono stato in Istria. Ma quello era un piatto che non apparteneva alla nostra cultura, è un piatto che è arrivato dopo. A proposito della contaminazione e dei contatti tra le due culture io penso che non ci sia stata tanto anche per una cosa, e cioè che c'era una forte differenza di classe, di reddito e di benessere che era piuttosto marcata, nel senso che i croati erano prevalentemente contadini e poveri, a differenza degli italiani che erano contadini e poveri pure loro, ma erano anche, in larga misura, quelli che studiavano, quelli che occupavano i posti pubblici (porta lettere, ufficiale dell'anagrafe, avvocato) e quindi c'era dietro una forte differenza di casta, non solo di reddito ma anche culturale. E quindi credo che questo portasse a una separatezza tra due mondi, quello italiano e quello slavo, che era piuttosto marcata."

5) Cosa le hanno raccontato del fascismo?

R.:"Beh, del fascismo la prima cosa che mi hanno raccontato è quella dei cognomi e dell'italianizzazione forzata di queste zone che i miei hanno vissuto. Soprattutto da parte di mia madre. Perché i miei da parte di mia madre si chiamavano D., e il cognome col fascismo è stato cambiato in D.. Poi sono tornati D., con Tito e infatti negli ultimi documenti del parroco di Dignano c'è proprio la scritta D., e poi qui in Italia mia mamma è diventata di nuovo D.. Comunque per quel che mi ricordo, anche dalle conversazioni con gli altri profughi che io sentivo da piccolo, penso che in sostanza il rapporto col fascismo fosse quello di avere un atteggiamento che sostanzialmente diceva che il duce era stato tradito, che lui aveva delle idee buone ma quelli che aveva intorno lo avevano tradito e questa penso sia la leggenda metropolitana con cui fai i conti quando parli di certe cose con i vecchi. Per cui il fascismo era identificato con la figura di questo personaggio sostanzialmente con delle idee corrette ma che poi erano tradite nell'azione concreta. Mi ricordo ad esempio quando parlavano della Russia, che raccontavano che aveva mandato i soldati in Russia con le scarpe di cartone e questo dimostra secondo me non tanto l'idea sbagliata di andare a rompere le scatole in Russia, quanto invece quella di dire chi ha mangiato e chi si è messo i soldi in tasca ha sbagliato, non Mussolini. Questo credo che fosse l'atteggiamento di fondo. Di altro non mi parlavano. Anche per una cosa e cioè che nel dopoguerra, il discorso di richiamare in qualche modo il fascismo era considerato tabù, nel senso che anche chi lo era stato aveva tutto l'interesse a rimuoverlo, a far finta che non fosse successo niente, anche perché in effetti la situazione qui a Casale quando siamo arrivati gli istriani non eran visti bene."

6) E come si inseriva in questo ragionamento il rapporto con l'elemento slavo?

R.:"L'atteggiamnto era, ed è ancora, gli sciavoni. Quando tu parli di sciavoni che sono quelli lì, è come dire una razza inferiore... Ma ancora adesso mia madre cha ha novant'anni, quando parla degli sciavoni ha questo atteggiamento di ripulsa e ripugnanza, che è una cosa terribile. Eppure loro avevano questo atteggiamento di considerare gli sciavoni un po' come delle persone da tenere alla larga o comunque delle persone adibite alle cose più umili, a quelle che non volevano fare loro. Questo era l'atteggiamento: un senso si superiorità che li portava spesso a dire che noi siamo un'atra cosa rispetto a loro. E in questo credo che il fascismo abbia contribuito molto ad alimentare. E direi che il rapporto tra italiani e slavi era sostanzialmente questo. Si, c'era il rapporto di affari sicuramente, perché l'economia ha le sue leggi di sopravvivenza generali, però dietro c'era sempre questo atteggiamento di superiorità. E ti dirò di pi§: anche questa cosa dei matrimoni misti, in Istria credo che salvo nelle zone dell'interno, sulla costa non erano ammessi o per lo meno non erano ben visti."

7) E i suoi genitori capivano il croato?

R.:"Mio padre no, mia mamma si, lo parla e lo capisce perfettamente. Perché suo padre si chiamava D., suo padre parlava perfettamente il croato e in casa era indifferente usare l'italiano o il croato."

8) E sulla guerra, relativamente al cibo, cosa le hanno raccontato i suoi genitori?

R.:"Lì si. La cosa rispetto al cibo è un po' questa. Mia mamma in casa sua faceva la fame, era in una situazione molto disagiata. Quando si è sposata è andata ad abitare con la famiglia di mio padre: sette fratelli tutti abitanti insieme al nonno. Una famiglia più che patriarcale, direi quasi una tribù. Perché all'uscita di Dignano c'è un bivio da dove iniziano due strade che vanno verso l'interno dell'Istria, e dietro questo bivio c'era la casa di mio nonno, che era una cascina enorme, e lo è tutt'ora, e lì dentro mio nonno aveva l'osteria. L'osteria era il posto dove i carrettieri la mattina quando uscivano per andare verso l'interno, passavano a fare la prima colazione che era mezzo pasto abbondante. E mio nonno era una persona ricca: aveva terreni, viti, oliveti. Era davvero benestante. Per cui anche durante la guerra la dispensa lì era fornitissima. Ma comunque, e mia madre c'è l'ha ancora un po' adesso con il nonno, la cosa era un po' questa, e cioè che di fatto all'interno dei fratelli c'erano i figli e i figliastri. Ovvero c'era chi poteva tranquillamente andarsi a prendere un salame e del pane a volontà, e c'era chi invece aveva le cose contate. Come lei, che era una forestiera e che era vista un po' come la mezza croata, una comunque non proprio dei nostri, non del tutto dei nostri, era tenuta un po' a stecchetto dal punto di vista del cibo. Una diatriba che lei ricorda ancora adesso: ad esempio la figlia, l'unica femmina che andava in sintonia con mia nonna, aveva libero accesso alla dispensa, lei invece no. Questo era un po' il rapporto con il cibo durante la guerra. Anche se mi hanno sempre raccontato di non aver mai avuto problemi come mangiare, perché erano gente che comunque stava bene."

9) Sempre relativamente alla guerra, lei ha mai sentito parlare delle foibe?

R.:"Si, ne ho sentito parlare però soprattutto in chiave di vendette personali. Io da piccolo delle foibe avevo questa dimensione qua. Son andà a ciaparlo de note e lo ghe han portà là perché il aveva el problema del campo che non andava d'accordo coi confini.... Cioè queste cose qua io me le ricordo che uscivano nei discorsi. Venivano fuori: el g'ha butà in foiba per questo motivo o per l'altro. Qualche volte veniva fuori anche perché era italiano, così, ma il motivo politico nelle conversazioni che facevamo sotto le stelle della sera questa cosa politica no. Se ne parlava con un taglio quasi di vendette personali, private. Di regolamento dei conti."

10) parliamo dell'esodo. Quando siete partiti?

R.:" Mio padre è partito a gennaio del 1947, mia madre io e mio fratello a febbraio."

11) Le hanno mai raccontato quali sono stati i motivi che hanno spinto i suoi genitori a partire?

R.:" Dunque, una delle molle fondamentali è stata questa, e cioè che se io so che tutti quelli intorno a me sono buttati in foiba io prendo e vado, ecco perché la paura, da quel che mi raccontavano, ne ha fatti andare via tanti. Poi un 'altra cosa è stata che da parte di mio nonno paterno tutti i figli son venuti via e quindi tutta la famiglia ha deciso insieme di andare via, di optare per l'Italia, come molti altri conoscenti, amici e parenti. Invece da parte di mia madre son rimasti tutti là, tre fratelli più i genitori. E questa cosa ha creato un dramma familiare, deve essere stata, e me lo ricordo, una cosa abbastanza atroce. Perché da parte di mia madre i due fratelli erano partigiani con Tito, e la sorella si è sposata con un partigiano di Tito che era diventato ufficiale dell'esercito. E ricordo una cosa, che quando andavamo a trovarli c'era sempre nell'aria questa cosa non detta, questa difficoltà di relazionarsi sulla situazione reale, nel senso che tutti tendevano, noi da questa e loro dall'altra, a dare l'impressione che qui si stava meglio, che avevamo avuto ragione noi, loro a rimanere e noi a partire. Questo era l'atteggiamento che aleggiava, che però rendeva difficile anche la relazione nei rapporti. Quelli che son venuti via, son venuti via perché ritenevano appunto impossibile rimanere in una situazione che cambiava completamente, in cui tutto era completamente sconvolto, in cui chi comandava prima non comandava più, chi era abituato a fare certe cose non le avrebbe più fatte, chi era credente non sarebbe più andato in chiesa non tanto perché era vietato quanto invece che se andavi in chiesa non avevi accesso ad altre cose e così via. Oltre al fatto per esempio, e credo importante, che nessuno di loro, da parte di mio padre e dei fratelli, parlava il croato, e già il fatto della lingua secondo me è stato un aspetto tutt'altro che secondario. Secondo me è stato tutto insieme di cose. Poi per esempio per mio padre il fatto di avere un posto di lavoro garantito non era cosa da poco in quegli anni, perché la disoccupazione in Italia, lo sai meglio di me, in quegli anni era altissima. Anche se mia madre ha più volte rinfacciato a mio padre di non essere andati a Torino, tante volte gli ha detto perché non siamo andati a Torino?".

12) Perché Torino era vista come l'America?

R.:"Si, c'era il mito di Torino e della Fiat e allora lei diceva sempre come mai eravamo rimasti a Casale. E lui diceva che qui c'era il lavoro. Però ricordo che questo fatto di non esser andati a Torino era una discussione ricorrente."

13) Cosa le hanno raccontato del viaggio?

R.:"Io, mia madre e mio fratello siamo partiti da Pola a febbraio col Toscana e con un po' di mobili e casse di legno con dentro le poche cose che avevam portato. Abbiam fatto scalo a Venezia e poi da lì con il treno siamo andati al campo profughi di Marina di Massa. A Marina di Massa abbiamo aspettato che mio padre venisse a prenderci e siamo stati lì qualche mese, e poi siam venuti a casale."

14) Mi parli di casale...

R.:" A Casale, per circa vent'anni abbiamo vissuto in un centro raccolta profughi. A Casale avevan assegnato a queste famiglie di profughi una ex caserma dell'aeronautica che era un magazzino dell'aeronautica che aveva tra grandi costruzioni, due lunghe come magazzino e una palazzina e lì sono transitate una venticinquina di famiglie, non tutte istriane. C'erano degli sfollati dal Friuli, c'era qualche sfollato di questa zona, due o tre famiglie, e il resto erano istriani e dalmati. I cognomi erano J., G., M., N., B., quindi parlavano chiaro. Direi che in tutto saranno passate diciotto, diciannove famiglie, poco meno di venti. E alcune sono solo passate per transito, si son fermate poco, perché dopo qualche mese sono andate chi in America e chi in Australia. Son partite diverse famiglie per il Canada, alcune per l'America del sud e di questi abbiamo perso le tracce. E queste famiglie non sono state rimpiazzate, perché dopo la grande ondata, la prima, poi l'ultima c'è stata nel '53, quando sono arrivate forse una famiglia o due. Perché questo magazzino dell'aeronautica si chiamava CANSA, che erano le iniziali di non so quali parole. E CANSA a casale era diventato sinonimo di profughi. Per cui ancora adesso se ai vecchi casalesi dici io abitavo alla CANSA, loro sanno che cos'era, era al bivio per Valenza. A fianco della CANSA, e lo dico per capire il contesto, c'era un istituto religioso, l'opera di Santa Teresa, che era stata fondata intorno agli anni Trenta da un ordine di suore laiche che non hanno una particolare professione di fede. Questo centro si occupava in pratica dell'assistenza alle giovani operaie della Manifattura seta che c'era qui a casale e che impiegava miglia di persona, una roba impressionante. E questo istituto religioso era nato appunto per prendersi un po' cura della salute spirituale di queste ragazze, per cui che veniva dai paesi poteva dormire lì. Era una specie di convitto. E lì queste suore avevano fatto una scuola materna e subito dopo la guerra avevano messo una scuola elementare. Per cui di fatto io sono andato lì alla scuola materna, e poi ho fatto la prima, la seconda e la terza elementare alla pluriclasse di quella scuola, in una stanza piccolissima c'erano tre classi, prima, seconda e terza. Io perciò uscivo da casa ed andavo a scuola. Invece la quarta e la quinta le ho fatte a Casale, per cui facevamo più di un chilometro e mezzo e poi arrivavamo in centro a scuola. Perché ho detto sta cosa dell'opera Santa Teresa? Perché ha fatto un po' da collante: in questo istituto c'era infatti una direttrice che era una donna che guardava lontano, e che con il tempo è riuscita a mettere insieme queste famiglie e a farle accettare dal contesto che gli stava intorno, facendo appunto la scuola materna che mettesse a contatto i genitori e queste cose qui, che han fatto si che gli istriani non si sentissero isolati e messi in un angolo. Li ha anche messi nel coro, che aveva quindi questi uomini che cantavano con voci tonanti, noi facevamo i chierichetti e quindi l'inserimento e la successiva integrazione è avvenuta un po' sul lavoro, e un po' proprio grazie a occasioni come questa. L'altra grande occasione era il fatto che gli uomini istriani, proprio per poter stare insieme, hanno messo mano a questo centro dell'aeronautica che tra l'altro mi dicevano che appena erano arrivati era bombardato, c'erano maceria dapperttutto, e l'hanno trasformato in un giardino, ma bello. Hanno fatto le stradine, hanno fatto una pista da ballo con l'illuminazione e lì alla sera con il giradischi si ballava, io tra l'altro ero l'incaricato di azionare la manovella al giradischi a 78 giri, han fatto un campo da bocce. E ala sera venivano da casale a giocare alle bocce, perché c'erano questi fari che illuminavano, e altri campi in giro non ce n'erano per cui venivano lì, erano gli stessi casalesi che sono venuti in questa CANSA. In più il comune aveva fatto lì alla CANSA una colonia estiva, per cui venivano i ragazzini da Casale in questa zona e lì ricordo che combinavamo qualunque tipo di cosa, cose inenarrabili! C'erano le bande e mi ricordo che c'era la tortura per il prigioniero della banda avversaria che veniva preso eh! Poi c'è da aggiungere che i casalesi la sera venivano da noi anche grazie al fatto che le ragazze istriane erano delle belle ragazze. Per cui c'erano i mosconi che gli ronzavano intorno, che giravano. Ricordo che una famiglia aveva addirittura cinque sorelle, tutte in età da marito, belle ragazze."

15) Quest'ultima cosa che mi ha detto ne introduce in un certo senso un'altra. E cioè che la ragazza profuga, ed è una considerazione che emerge in molte parti d'Italia, fosse considerata di facili costumi dagli autoctoni. E'vero o sbaglio?

R.:"Si, si, è verissimo. Ma questo secondo me anche per il fare, perché le istriane erano molto più disinibite, molto più disinvolte. Ma questo credo fosse proprio nella cultura istriana di una donna che non si lasciava sottomettere facilmente. Ma quello che hai detto sulle profughe è vero, anche io lo confermo, anche perché anch'io mi son fatto un po' quest'idea. Anche se poi devo dire che salvo fidanzamenti rotti in maniera traumatica, pochi, per la verità il fidanzato casalese di queste ragazze è diventato poi il marito. Quindi era anche uno stereotipo questo, ma c'era sicuramente. Se pensi comunque è un po' come per le mondine che venivano dall'Emilia, che in questa zona qui eran tante. Era un po' il discorso del forestiero, dell'attrazione esotica, oltre che erotica!"

16) Torniamo a casale. Mi diceva che all'inizio l'inserimento è stato difficile...

R.:"Si, era difficilissimo perché c'era questa cosa del fascismo. C'era questa cosa del fascismo, che l'istriano era fascista. Era uno stereotipo ma a dire il vero non era neanche tanto lontano dalla realtà, nel senso che chi è venuto qua aveva dei trascorsi che erano questi. Solo che anche qui erano prima tutti fascisti o quasi...Però di fatto c'era questa situazione. L'inizio è stato difficile. Mi diceva mia madre, per esempio, che nei negozi tanti parlavano dialetto, non parlavano italiano. Che questo fosse dovuto a una scelta per non aiutare gli istriani, o al fatto che qui moltissimi l'italiano non lo conoscessero non lo so, però ricordo che questo è stato vissuto come un atteggiamento di rifiuto e di allontanamento per prendere le distanze."

17) E invece suo padre come si è trovato in fabbrica?

R.:"Ecco, in fabbrica lui ha aderito quasi subito al partito social democratico di Saragat. Lui era aderente alla Fil, Federazione Italiana del lavoro, che era la corrente dei social democratici che si è staccata dalla CGIL nel '48 e che poi è confluita nella Cisl nel 1950 proprio come FIL. Lui è stato uno dei fondatori della Cisl e questo ti dice anche in fabbrica come siano andate le cose, rispetto a una fabbrica in cui la maggioranza era CGIL e ad un paese, Morano Po, che era un paese rosso, rimasto ad amministrazione di sinistra fino a circa dieci anni fa, ma sinistra vuol dire maggioranze bulgare con la maggioranza del PCI, quindi proprio un feudo rosso. Per cui, e lui lo diceva, anche i primi anni sono stati anni duri anche da quel punto di vista lì. Su questo non ha raccontato molto, m mi ricordo che alcuni scioperi, soprattutto quelli del '48 e di Togliatti, lui non li ha fatti, proprio perché lui era di un'altra tendenza e questo qui per lui è stato abbastanza pesante, anche perché la Cisl in quella fabbrica lì era minoritaria, di gran lunga. Diciamo anche un'alta cosa che insieme ad elementi filo padronali, fascisti, eccetera, c'era anche in mio padre una forte componente cattolica e nel '48 lo scontro era ad arma bianca, e poi credo che gli istriani, parlo come lavoratori nelle fabbriche, siano stati usati in chiave anticomunista da parte padronale. E non solo nelle grandi fabbriche, ma anche per esempio alla Marchino. E il fatto che Marchino dicesse agli istriani se rientrate in Italia vi do un posto di lavoro nei miei stabilimenti, aveva anche quell'aspetto lì, sicuramente. E se non c'era subito all'inizio perché magari la cosa non era subito così visibile, sicuramente lo è diventato dopo, per cui anche se non c'era stato un disegno così raffinato, alla fine in chiave anticomunista e in chiave anti Cgil, e questa cosa vista la mia esperienza sindacale la posso sostenere, l'hanno sicuramente usata. Questo è pacifico."

1) E suo padre alla Marchino cosa faceva?

R.:" Mio padre era magazziniere alla Marchino una fabbrica cementi, a pochi chilometri da Casale, a Morano Po. Era una fabbrica cementi a ciclo completo ed era una delle più grandi realtà produttive della Unione Cementi Marchino, che poi è diventata Unicum del gruppo Fiat e adesso è Unicum Buzzi, del gruppo Buzzi che è il secondo gruppo cementifero italiano. La mamma era operaia: per moltissimi anni ha lavorato in campagna come bracciante e poi è andata come operaia qui all'Eternit di Casale da cui ha ricavato una malattia che desso la sta abbastanza provando. Dopo l'Eternit ha fatto esperienze nel settore del freddo come stagionale e come colf nelle case di alcune famiglie casalesi e poi ultimamente era operaia e delegata sindacale della Cisl in una fabbrichetta di materie plastiche.".

2) Come eravate sistemati nel centro di raccolta?


R.:" La palazzina era un classico edificio militare, tipico del littorio se vuoi, con scaloni, soffitti alti, spazi giganteschi. Lì ognuno si attrezzava come poteva, c'era un solo bagno in comune nel piano, per cui era quasi come essere in una casa di ringhiera con il bagno in comune. Al primo piano dove abitavo io eravamo ad esempio tre famiglie. Prima eravamo divisi con le classiche coperte di divisione, e poi ci siamo "raffinati" mettendo delle paravie con un cartone che si chiama masonite e che non so neanche se esiste ancora e che facendo dei telai diventava una specie di muro. Però erano divisioni blande, fatte da noi. Il riscaldamento non c'era, se non lo spaker in cucina, perché non c'era altro per scaldarsi. E quindi è chiaro che lo dovevi in qualche modo aggiustarti. Ricordo ad esempio che chi lavorava nell'edilizia tirava su dei muri con dei mattoni recuperati, muri che poi sono stati fatti nel corso degli anni, proprio perché era gente che si industriava. Pensa che ognuno si era preso un pezzo di orto, e si coltivava l'orto, e con un sistema ingegnosissimo di canaletti, si prendeva l'acqua da un grande canale di irrigazione di proprietà di un consorzio irriguo e con me se fosse un prelievo abusivo, ma io penso lo fosse, con questo sistema di cataletti, tutti gli orti avevano la loro irrigazione, tranquilla. Poi c'era chi aveva il maiale, i polli, addirittura un asino abbiamo visto lì dentro, tacchini. Ci costruivamo i garage per le prime macchine anche.
Prima ho parlato dello spaker, e lo spaker era la nostra cucina. Noi cucinavamo sullo spaker, per moltissimi anni abbiamo continuato, fino a quando è arrivata questa magnificenza tecnologica che era il fornello a gas con la bombola. Diciamo che noi a metà degli anni Cinquanta siamo passati al fornello a gas, ma prima era tutto cucinato su questa stufa a legna con il forno. Di altre cose tipiche della nostra cucina a Casale io ricordo la giasera, che era un'altra cosa curiosa, e ricordo che andavo io a comprare il ghiaccio qui alla fabbrica di ghiaccio a casale, andavo in bicicletta. La fabbrica era dietro al carcere e noi eravamo a un chilometro e mezzo dalla fabbrica e la domenica andavo a comperare un quarto di panetto di ghiaccio, venti lire."

3) E a proposito di cibo, voi come lo conservavate?

R.:" Lo si conservava sotto sale o fuori dalla finestra d'inverno proteggendolo dai gatti randagi, anche se noi abitavamo su al primo piano e non c'era questo pericolo di gatti. E d'estate era conservato sotto sale o dentro a delle specie di zanzariere, le moschere, che tu sollevavi un lembo e mettevi dentro la roba che stava lì. D'estate comunque sotto sale, perché non c'era il modo di conservare. Poi è arrivata la ghiacciaia e allora con la giacere è stato più semplice, ma nei primi anni non c'era neanche quello."


4) Qual era l'ente che si occupava della vostra assistenza?

R.:"Noi avevamo l'Eca e questo istituto religioso. Poi ricordo che il cibo arrivava dagli aiuti americani, i pacchi Unra. Ma delle scatole grosse così di formaggio fuso, che aveva un colore giallastro che pensarci adesso guarda...C'era questo formaggio, riso, pasta. Pacchi soprattutto di aiuti americani, che mi ricordo coperte e maglioni, tutti dello stesso colore: o erano maglioni marroni scuro con due righe bianche orizzontali, o bianchi con due righe orizzontali marroni; questo era il maglione classico, tradizionale che avevamo tutti. L'Eca da noi c'era, però eravamo noi ad andare all'Eca a prendere gli aiuti."

22) E senta, l'Eca organizzava delle gite o dei pranzi per i figli dei profughi e distribuiva dei pacchi dono?

R.:"Si, si. Facevano le gite. Ci portavano al santuario di Crea, a Oropa, oppure andavamo in gita con questo istituto religiose, che la direttrice organizzava gite, a vedere sempre i santuari: tutti i santi e le madonne del Piemonte, della Liguria e della Lombardia li abbiam visti! Però era un modo molto importante per socializzare. Poi ricordo che l'Eca faceva le feste e ci davano dei pacchi dono, una volta all'anno, all'epifania."

23) E cosa c'era dentro questi pacchi?

R." C'era un po' di dolciumi e qualche giocattolo, più il solito riso e pasta, lo zucchero e queste cose qua che erano sempre gradite."

24) Il cibo era anche un modo per stare insieme, per evadere dalla realtà sicuramente non idilliaca del campo oppure ogni famiglia faceva vita a sé?

R.:" No, non mi ricordo di pranzi insieme, non c'era questa abitudine. Credo nei primi tempi perché ognuno era impegnatissimo a sopravvivere in qualche modo e poi perché crescendo noi ragazzi andavamo fuori. Non c'era però l'abitudine di trovarsi insieme agli altri a mangiare, no."

25) La presenza di una comunità istriana, ha fatto si che il territorio che vi accolti abbia fatto proprie anche le vostre esigenze alimentari?

R.:"Io non credo che siamo riusciti a incidere sulle abitudini dei casalesi, abbiamo piuttosto assimilato noi. Ad esempio questa storia del riso, che da noi era praticamente sconosciuto, si mangiava polenta o pasta, siamo stati noi contaminati. Si, siamo stati noi ad essere contaminati più che riuscire a contaminare, perché in effetti era un numero talmente limitato di persone che non poteva incidere. Credo che per i vecchi si sia trattato di rimanere nel solco delle loro abitudini, mentre per i giovani piano piano si sia trattato di acquisirne di nuove."

26) Quindi una contaminazione che non ha fatto perdere le vecchie abitudini oppure è successo che queste siano andate perse?

R.:"Io credo perdendo. Qualcosa si è perso. Salvo alcuni piatti non è che ci sia stato un gran mantenimento di abitudini. Forse qualcosa nelle feste."

27) Ad esempio lei oggi mangia ancora qualcosa di istriano?

R.:"Per esempio questa cosa dei crauti mi è rimasta, è rimasta per me una cosa molto forte. Così come rimane forte il pesce. Mia mamma cucinava molto pesce per cui...A me piace il pesce di mare, il pesce azzurro, non quello di fiume. E mi piace fritto, anche se non dovrei mangiare il fritto! Però il pesce al cartoccio, il pesce bollito non lo sento mio, mentre se facciamo anche solo delle sarde fatte fritte e già un altro discorso. E poi un'altra cosa che mi ricordo è il baccalà che faceva mio padre. Lo metteva a bagno per un paio di giorni e poi con il dietro della scure lo batteva delle ore e diventava una crema, una roba non dico come la maionese ma quasi. Era una cosa squisita, veramente. Polenta e baccalà fatto così, con quei sapori, era una cosa indimenticabile. Quindi pesce, baccalà e crauti io me li ricordo come una cosa legata alla mia infanzia, alla mia vita. Poi un'altra cosa che mi ricordo è un'insalata di cavolfiori con le acciughe, impregnata di aceto."

28) Ecco, ma con il tempo questi sapori sono andati persi?

R.:"No, no, anzi, li mangio ancora, mia moglie me li fa volentieri perché piacciono anche a lei. Il pesce un po' meno, perché non è abituata, mi fa il pesce alla monferrina."

29) Le ricette a sua moglie chi le ha insegnate? Mi interessa sapere se sono state tramandate di generazione in generazione...

R.:"Qualcosa le ha insegnato mia madre, alcuni piatti si. La pinza no per esempio, non gliel'ha mai insegnata, rimane patrimonio suo, anche se adesso è qualche anno che non le fa più."

30) L'altra cosa che le chiedo è questa. Secondo me c'è un modo differente di vivere il campo profughi in base alle fasce di età. Cioè i bambini lo hanno inteso in modo, i vecchi in un altro [mi interrompe]...

R.:"Questo è vero. Per noi bambini era una dimensione ludica e io mi porto dentro una cosa, ce l'ho proprio dentro. Alla sera quando ci trovavamo a chiacchierare, avevamo tutti in mano un pezzetto di arbusto, di siepe, perché le zanzare non le conoscevamo, e con questa roba le mandavamo via. Va beh... Eravamo seduti sugli scalini, la sera d'estate, e ricordo che era tutto in parlare di ricordi, un raccontarsi, un rivivere la loro esperienza, che però arrivava a toccare solo le cose belle. Una cosa che io ho notato è che nessuno parlava mai della guerra, di come era riuscito a venir via, di cosa aveva lasciato là e così via. Parlavano tutti di quello che avevano fatto di bello e di buono. Ecco, questa è una cosa che ho dentro come un ricordo, che in effetti è monco, perché manca di qualcosa."

31) Che peso ha avuto e in che modo è stata trasmessa l'esperienza dell'esodo ai suoi figli?

R.:"C'è una cosa curiosa che è questa: alcune sere fa ero con degli amici e ci scambiavamo gli auguri di Natale. E a un certo punto uno di questi mi dice: ma sai, dovremmo vederci una sera così mi racconti cosa è successo, perché qui di sta cosa tutti ne parlano... Cioè tutti ne parlano ma in realtà, dico io, nessuno sa niente, nessuno capisce un cavolo di quel che è successo allora, soprattutto perché la storia è complicata, c'è un substrato di cose che si intrecciano e si accavallano, questioni che hanno a che fare con la politica, la cultura, la storia mondiale, la bufera della guerra eccetera. Io ai miei figli ho raccontato parecchie cose, nel senso che quando loro mi chiedono io cerco di rispondere e di raccontare, e devo dire che sono curiosi, stanno a sentire. Sono già venuti in Istria anche loro diverse volte, anche da piccoli li ho portati dove abitavamo, a casa del nonno, in osteria a conoscere i vicini che conoscevano i miei, una signora anziana che è rimasta lì e che si ricordava ancora di me. Quindi si, io gli ho raccontato."

32) L'ultima domanda che le faccio è questa: a Casale hanno costruito delle case per i profughi come ad esempio a Tortona?

R.:" No, hanno assegnato degli alloggi popolari in base a un punteggio. Per cui quando ci hanno dato le case popolari, circa vent'anni dopo, nel 1967, praticamente siamo rimasti tutti sparpagliati, non si è creato un quartiere come in altri posti."
28/12/2005;


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Miletto Enrico 10/11/2009
Pischedda Carlo 10/11/2009
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Come citare questa fonte. Intervista a Claudio D.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD14189]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019