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Intervista a Gina P.
Nata a Rovigno nel 1925. Abbandona la sua città nel 1958 e arriva a Trieste dove si ferma pochi giorni prima di giungere al centro di smistamento di Udine. Da qui viene trasferita al centro raccolta profughi di Chiari in provincia di Brescia, dove resta fino al 1961. Nel 1961 si trsferisce al centro raccolta profughi di MONZA. Nel 1964 si trasferisce a Torino andando ad abitare alle Vallette dove vive tutt'oggi. E' stata intervistata il 22 giugno 2010. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nata?
R.: "Sono nata a Rovigno d'Istria nel 1925."
2) Mi può parlare della sua famiglia di origine? Quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori...
R.: "Più che volentieri! Mio papà faceva l'agricoltore, mia mamma era in Manifattura Tabacchi, [da] quando c'era ancora l'Austria, perché lei sa meglio di me che una volta da noi c'era l'Austria. Mia mamma era in Manifattura Tabacchi, poi è scoppiata la guerra e [i miei genitori] sono andati profughi in Austria. Anche perché certi studenti - e mi scusi se dico queste parole - non sanno neanche perché è stata fatta la guerra, non questa del '40, ma la prima guerra mondiale. La guerra l'hanno fatta perché? Per redimere le terre nostre, o sbaglio? Dunque gli italiani che erano in Istria li hanno mandati profughi in Austria, anche per salvargli la vita, perché loro pensavano che ci sarebbero stati forse più morti, mentre invece in Istria c'era chi teneva per Francesco Giuseppe, ma si sentivano anche italiani. Erano italiani, eh! Ed erano più rispettati di quando sono arrivati gli altri [gli jugoslavi], eh! E allora son stati lì profughi, sono rientrati nel '18 - dopo che c'è stata la guerra '15-'18 - e hanno trovato le case e le campagne tutte abbandonate, capirà [non c'era più] nessuno che le lavorava!"
3) Mi ha parlato della Manifattura Tabacchi. Era una sicurezza lavorare in Manifattura, o sbaglio?
R.: "Chi lavorava in Manifattura Tabacchi era un piccolo signore. Un piccolo signore, perché c'era la paga sicura, perché la disoccupazione - adesso lasciamo stare - ma c'è stata sempre, eh! Perché il mio paese viveva di terra e di mare, c'era chi era pescatore e chi era agricoltore. E la Manifattura Tabacchi l'hanno costruita quando c'era Francesco Giuseppe, perché prima era una Manifattura piccolina e adesso han portato via tutto. Ma ci lavorava tanta di quella gente! E' stata una ricchezza per Rovigno."
4) Lei è nata nel 1925, quindi ha vissuto in pieno il periodo fascista. Posso chiedere cosa ricorda di questi anni?
R.: "Guardi, io mi ricordo di quando sono andata a scuola, che ci obbligavano ad avere la tessera, perché c'è poco da dire, tutti i partiti hanno i loro tesserati, diciamo così. Quello me lo ricordo, e mi ricordo [anche] che [c'era] chi ci teneva la fascismo, chi non si interessava e chi era comunista, è stata sempre così. Quello posso ricordare, ma da quando sono andata a scuola. Ci facevano pagare la tessera, era di 5 Lire, e chi non la pagava... Insomma, non gli facevano del male, perché questo non posso dirlo, però se la pagavi la pagavi."
5) Si ricorda, ad esempio, se a scuola c'era qualche tipo di propaganda?
R.: " Eh si, questo me lo ricordo perché ero anche io una piccola italiana: la gonna nera, la camicetta bianca, eh si! Quando c'erano le feste - non so, il 4 novembre o il 28 ottobre - facevano dei cortei e ste ragazzine sa cos'è, bastava non andare a scuola e saltare le lezioni! Come tutte le cose a quell'età!"
6) Parliamo ancora un attimo di Rovigno. Com'era la situazione dal punto di vista della distribuzione della popolazione?
R.: "Funzionava che... Bisogna dire la verità, e cioè che gli italiani non vedevano bene quelli che erano di razza slava, e gli slavi reciprocamente."
7) So che in dialetto c'era un termine molto usato per definirli...
R.: "S'ciavon, s'ciavon, schiavone. Che, insomma, non ha senso per conto mio questa parola, perché anche a Venezia c'è la riva degli schiavoni, ma noi in dialetto li chiamavamo s'ciavoni, che era dispregiativo, si, si. Guardi, certe cose son successe perché l'italiano era un po' sul chi va là quando sentiva la parola [la lingua] croata. Era anche sbagliato, però era così. Io ero ragazza, cosa vuole, a quei tempi mi interessava poco, sa, nel '41, quando è scoppiata la guerra avevo sedici anni."
8) Torniamo a Rovigno. Dal punto di vista della distribuzione della popolazione, dicevamo, gli italiani erano in città e i croati popolavano invece il circondario. E' corretta questa analisi?
R.: "Si, Rovigno era proprio italiana, ma se andava fuori, due chilometri, non proprio in periferia ma dove cominciava la campagna, lì già cominciavano ad essere slavi, diciamo, un po' bastardati, per dire una parola brutta. Perché sa, non è che tutti odiavano gli italiani, come non tutti gli italiani [odiavano] gli slavi. Perché io mi ricordo mio papà che aveva la campagna: noi si viveva in città, ma per andare in campagna bisognava avere l'asinello e il carretto, perché era un po' fuori la campagna, e [mio papà] diceva molto bene dei suoi confinanti, ed erano slavi, [si chiamavano] B.. Ma mio papà non maltrattava nessuno, loro nemmeno, e si andava d'accordo, ma non era un'amicizia, era una cosa [del tipo]: con chi dividi la campagna? Con tal dei tal, slavo."
9) Ho capito. Perché altrimenti i rapporti tra le due componenti non erano buonissimi, o sbaglio?
R.: "Sa quand'è che non erano buonissimi? Proprio quando è scoppiata la guerra, cioè, neanche quando è scoppiata la guerra, ma quando è venuto Tito. Perché se io davo uno schiaffo a uno, quello quando ha avuto il potere me ne ha dati dieci! Dico, io, per dire. E poi è saltato fuori tutto questo odio."
10) Un odio sul quale, secondo lei - e guardi che non è assolutamente una giustificazione - si inserisce anche il fascismo? Penso ad esempio all'italianizzazione forzata portata avanti dal regime...
R.: "Si, ha cambiato i nomi... Certo, naturale, l'ho sentito, come no! Hanno italianizzato i nomi slavi, come ha fatto poi l'altro quando è arrivato che ha cercato di slavizzare anche il mio cognome, che proprio di slavo non ha niente! Questo si, si."
11) Parliamo ora della guerra. Quali sono i primi ricordi che le vengono in mente in proposito?
R.: "Eh, io mi ricordo che cominciavano a bombardare Pola e Trieste. Qualche volta sono arrivate anche a Rovigno qualche bomba, molta paura: suonava l'allarme e tutti si scappava in campagna, che magari quello [l'aereo] poteva abbassarsi e mitragliare ed era peggio che stare a casa. Nelle grandi città io non c'ero, però sappiamo tutti quello che è successo, perché ci sono stati morti a migliaia. Ma nel mio paese che io ricordo, due o tre [sono morti], buttavano degli spezzoni e. fatalità ha voluto che sono morti. Però Rovigno non è stata tanto bombardata, no, no. Il nostro rifugio era andare sotto la chiesa, dicevamo: andiamo a monte, che c'era una pineta e stavamo lì. E per noi ragazze, che avevamo diciotto o diciannove anni, l'avevamo presa un po' da ridere, i nostri genitori magari no, [ma noi si]. "
12) Molte volte, purtroppo, la guerra fa rima con fame, la cosiddetta fame di guerra. Lei ricorda se durante il periodo bellico ci fosse la borsa nera?
R.: "Si c'era, c'era. Come funzionava non lo so, però so che anche la carne si comprava a borsa nera. La carne, perché a casa mia - essendo mio papà contadino - non ci mancava il pane, l'ultimo a morire era il contadino. Ma la carne...Poi è stata tesserata, ma capitava qualche volta che un'amica ti diceva: vuoi un po' di carne? Si, si, come no! Adesso io non so esattamente cosa si pagava, però era borsa nera."
13) Io so ad esempio che dalla città spesso si andava in campagna a rifornirsi di cibo che non veniva pagato con denaro, ma scambiato...
R.: "Si, si. Ecco, da noi per esempio si , si faceva. Anche mia mamma: le dava il vino e aveva il pesce. Pesce, eh, perché la carne era tesserata, ma il pesce no. I pescatori dicevano: me lo dai un litro di vino e io ti do del pesce? Si, si. Era proprio uno scambio, una cosa naturale per quell'epoca."
14) Ricorda l'arrivo dei tedeschi?
R.: "Quando sono arrivati i tedeschi?"
15) Si.
R.: "Dunque, quando sono arrivati i tedeschi io glielo racconto. Erano a Pola, e si festeggiava la libertà, c'erano le piazze tutte piene, gente che gridava la guerra è finita! Poi uno si mette e grida: i tedeschi, i tedeschi! Bom, tutti a casa. Perché c'erano già tutte le bandiere pronte - è stato sempre così - allora tira via le bandiere e corri a casa. E i tedeschi poi hanno preso... Mi ricordo uno che abitava vicino a me - noi disemo s'ciopo, fucile - [che ha tirato col fucile] contro sti carri armati, e capirà, insomma... E' stata una bella paura e qualche po' di morti anche, perché son venuti da Pola e anche belli armati. E noi eravamo a casa chiusi - mi sembra ieri - con mio papà, che aveva fatto un po' di mesi il militare sotto l'Austria - lui era nato nel 1886 - aveva imparato qualche parola di tedesco. Noi, torno a dire, chiusi in casa - non solo la mia famiglia, ma tutti - [con] mio papà che diceva a mia mamma: guarda che dobbiamo aprire le finestre, perché dicono che se non apriamo le finestre loro sparano. Erano agli angoli delle strade con delle armi. E mio papà [a un certo momento] dice: io mi faccio coraggio, vado giù. E mia mamma: ma no, per l'amor di Dio, sta qua, sta qua! No, guarda [che se non vado] e'i amazan tutti! E' andato - noi avevamo due case, una si sentiva per cantina e l'altra per tinello - ed è uscito con le braccia così [in alto], si è avvicinato a un tedesco e io e mia sorella, nascoste, guardavamo. [Stavamo nascoste perché] mio papà ci aveva raccomandato: voi, ragazze, state a casa, perché purtroppo succedevano tanti casi di violenza. Insomma, in poche parole, mio papà [è andato dal tedesco] e ha detto: guarda che noi abitiamo qui, questa è la mia casa e l'altra è la mia casa. Era tempo di vendemmia, ha aperto la porta e gli ha detto: entrate, entrate. Loro sono entrati - era tempo di vendemmia - e mio papà ha preso - noi diciamo la bucaleta, una brocca - e gli ha detto: bevete! Loro [hanno risposto] nein, nein, [dicendo] bevi prima te! Allora mio papà ha bevuto e poi hanno bevuto anche loro. [Poi han chiesto]: ci son partigiani? Ce n'erano nascosti per le case, ma neanche noi lo sapevamo, chi li aveva in casa se li teneva. Allora hanno incominciato a bere, poi mio papà è uscito ha avvisato i nostri vicini di casa e gli ha detto: aprite le finestre, altrimenti qua ce la vediamo brutta. Allora tutti hanno aperto le finestre e, calmi, calmi, se ne sono andati a fare il comando in piazza lì a Rovigno e poi son rimasti. Facendo poi anche altre cose che però noi non sapevamo, perché le cose si sanno quando passa un po' di tempo."
16) Ad esempio cosa non sapeva?
R.: "Eh, non so... Andavano per le campagne i tedeschi, così dicevano. Io non l'ho visto, ma ci credo, e gli prendevano ai contadini - poverini - i maiali, le galline, insomma rubacchiavano, si arrangiavano. Hanno fatto poi il comando lì all'hotel, proprio in centro di Rovigno, e son rimasti."
17) Me ne parlava prima: i partigiani. Sapeva che esistevano, li vedeva?
R.: "Guardi, si sapeva. Prima di dire partigiani, bisogna dire ribelli, perché dicevano: sono i ribelli. E chi sono sti ribelli? Mah, dicevamo... Erano partigiani che si nascondevano per le campagne e anche loro, poverini, cercavano da mangiare, sempre nelle case di campagna. E chi era fuori città ha sempre preso la botta, quello mi ricordo benissimo. Poi la gente mancava e si chiedevano: ma il tal dei tali non c'è, dov'è andato? Boh! Chi andava in bosco e chi lo sa la fine che han fatto."
18) Parlando ancora dei partigiani, dei titini, lei ricorda il loro ingresso a Rovigno?
R.: "Guardi, io mi ricordo che sono entrati piano, piano: son venuti da Zagabria , io le parlo della fine della guerra, non subito. Poi quello che mi ricordo è il battaglione Pino Budicin."
19) Ah, ecco! Allora me ne parli del battaglione Budicin...
R.: "Era una battaglione composto da italiani e croati, che a noi cittadini sembrava [che il discorso] fosse viva la fratellanza, viva la libertà! Invece poi si è saputo, ma dopo anni... Insomma, lui è stato in prigione tanti anni, come antifascista, comunista, come vuole chiamarlo... Erano due fratelli... Lui però era intelligente e ha formato il battaglione, però questo battaglione - e poi si è saputo - era composto anche da slavi, ma lo slavo l'italiano lo aveva sulle corde, e a quanto si dice i capi li hanno fatto qualche agguato. Insomma, hanno cercato di eliminarli, perché Tito così diceva: fate scappare più italiani che potete. E allora il battaglione Pino Budicin era composto... Insomma, diciamo che i capi che lo hanno formato questo battaglione, non esistevano più, [mentre] quei pochi che erano rimasti, un po' sono andati via, un po' magari son rimasti anche lì... Insomma, è stata una cosa brutta, perché anche quelli che credevi che magari ti fosse amico, che delusione! Ma quale amico! Amico perché doveva, perché non pensi che gli slavi non fossero messi sotto i piedi, ma dagli italiani! E' sempre così!"
20) Lei sa meglio di me che in Istria, tra il 1943 e il 1945 si assiste a violenze di massa, meglio note come foibe. Lei ne era a conoscenza?
R.: "Nessuno era a conoscenza: mancava la gente e non si sapeva dove sono. Il fatto delle foibe è saltato fuori dopo, alla fine della guerra. Cioè dopo l'armistizio Mussolini ha di nuovo preso il potere e ha formato la Repubblica di Salò, e quelli che erano ancora fascisti hanno formato questa repubblica. E non si sapeva niente, perché c'era l'occupazione tedesca, e chi sapeva? Si sapeva così, da una voce all'altra: manca il tal, manca il tal. Stanotte sono andati a prendere Giovanni - per dire -, Antonio. E dove li portano? Mah? E chi, e come e cosa? Quando è finita la guerra, nel 1945, allora lì si è saputo. [Anche se] c'era chi sapeva che lo facevamo, ma anche per paura stava zitto. Ma noi, il popolino, non sapevamo queste cose. Poi son venute fuori, che è stata una botta! Perché li buttavano nelle foibe, c'è poca da dire. E questo, anche se qualcuno sapeva - più di qualcuno sapeva - stavano zitti perché c'era la paura. Ma la gente, i cittadini [non sapevano]: manca il tale, manca il tale... E dov'è? Boh! E anche se sapevano stavano zitti, perché la paura fa novanta."
21) Persone che venivano prese di notte, mi diceva...
R.: "Ma guardi, di notte... Io non ho mai visto nessuno che di giorno va in casa di un altro a [prendere le persone]. Se facevano, facevano di notte. E la famiglia, anche, parlava poco. Le milizie slave, di notte. Queste son cose che si sentivano... Si, di notte... E tutti sapevano, ma stavano zitti."
22) Posso chiederle, alla luce anche dell'idea che si è fatta dopo molti anni, cosa c'era secondo lei dietro alle foibe?
R.: "E' una cosa, diciamo, complicata, perché era un odio già fermentato. Ma non è che finita la guerra era finita la guerra, era una rivoluzione dopo, perché se io avevo dato una volta uno schiaffo a lei, lei cercava di darmene dieci, capisce? C'erano dei responsabili, cioè erano fascisti, ma la morte che hanno fatto non se la meritavano. Io so di gente, [che ai] vecchi e [agli] anziani, li davano l'olio di ricino, e in cambio dell'olio di ricino li hanno presi e li hanno ammazzati. E' stato proprio anche un odio personale. A mio parere."
23) Parliamo ora dell'esodo. Quando parte da Rovigno?
R.: "Nel 1958".
24) Quindi parte tardi...
R.: "Si."
25) Vive dunque un bel po' di anni in Jugoslavia...
R.: "Si, maltrattata."
26) Perché maltrattata?
R.: "Perché cambia. Cambia che noi non parlavamo il croato e ci disprezzavano, perché noi italiani eravamo tutti fascisti, per loro. Era un disprezzo! Si andava in fila - perché era tutto tesserato, lo zucchero, questo e quell'altro - e un giorno mi son sentita dire: svinja taliana, porca italiana vai in Italia! Io ho capito, perché qualche volta, non che si imparava il croato perché era una lingua che non mi interessava, dovevo andare via e non mi interessava impararlo, ma le parole più crude rimangono. E io sapevo che svinja vuol dire porca. Allora mi sono rivolta a questa qua e le ho detto: si, io sarò porca italiana, ma andrò in Italia a mangiare e tu starai qua con Tito a crepare! E l'altra [mia amica] dietro di me [mi diceva] sta zitta, sta zitta! Perché poi allora avevano preso le redini in mano, i croati."
27) Mi ha appena detto che faceva le file. Questo, deduco, perché in Jugoslavia all'epoca c'era molta miseria, non c'era niente...
R.: "Io, sinceramente, torno a ripetere, mio papà era contadino e il contadino è l'ultimo a morire."
28) Certo. Però a suo padre non hanno nazionalizzato la terra? Non è entrato nel nuovo sistema delle cooperative?
R.: "No, no, lui non è voluto andare, non ha voluto saperne. Lui diceva: io ho un età, quello che ho mi basta e di cooperative non ne voglio sapere. Magari si, i più giovani, stando lì dicevano ma cosa facciamo? Andiamo in cooperativa. Però mio papà aveva un'età che diceva che voleva andare in campagna quando voleva, tornare a casa quando voleva, quello che aveva gli bastava."
29) In Jugoslavia, subito dopo la guerra, c'era comunque miseria. Almeno questo è quanto emerge da molte testimonianze raccolte...
R.: "Ah, non c'era niente, non c'era niente. Io mi sono sposata nel '47, e al comune si andava a dire che ci sposiamo e che ci diano qualcosa: ci davano dieci metri di tela per far le lenzuola, pagandole, è logico. Perché i negozi erano puliti, pulitissimi, non c'era niente."
30) Parlando sempre della Jugoslavia, le chiedo se, come molti altri suoi conterranei, mi hanno detto ci fossero effettivamente delle limitazioni relative alle pratiche religiose...
R.: "Dunque, guardi, io mi sono sposata al mattino in anagrafe e al pomeriggio in chiesa, perché mia mamma, cioè tutti, non si concepiva un matrimonio o un convivere come adesso, perché i tempi sono cambiati. E [per] i miei, come [per] tutti noi che eravamo lì, la chiesa era la chiesa... Però chi andava in chiesa a sposarsi non è che gli davano [fastidio], non potevano fargli niente, però dicevano: ah, quello lì si è sposato in chiesa, capisce? Però quello che voleva andare a messa andava, anche se c'erano tanti che evitavano [di andarci]. Non erano guardati bene, però non era proibito perché, torno a ripeterle, io mi sono sposata in chiesa."
31) Altre testimonianze relative alla Jugoslavia del dopoguerra, fanno affiorare un'altra pratica che sembrava molto diffusa e cioè quella del lavoro volontario. Lei ricorda qualcosa a riguardo?
R.: "Si, si che me lo ricordo! Io non sono mai andata perché ero bassa e non avevo forza, ma a far le strade e una cosa e un'altra, allora dicevano il lavoro volontario, ma era obbligatorio. E questo, però, succedeva a chi lavorava nelle fabbriche, che erano un po' più osservati, diciamo. [La cosa era]: domani si fa il lavoro volontario, e andavano! E certo che non potevi non andare. Nella mia famiglia questo non era mai successo, perché mio papà aveva un'età che non poteva lavorare e mio marito lavorava in mare e diceva che lui andava in mare: prendevano la barca e andavano e fuori e al lavoro volontario vada chi vuole! Però si, questa cosa c'era, come no. E c'è n'erano tanti che andavano, anche chi lavorava in Manifattura [Tabacchi]. Ed erano osservati, poi: perché non sewi venuto, come mai... sa com'è... l'Ozna..."
32) E l'Ozna era presente...
R.: "Si, si... E, sa, dai oggi, dai domani e uno [quelli dell'Ozna] li conosceva: perché se erano croati non li conoscevi, ma se erano paesani poi si sapeva che quello è dell'Ozna, perché poi dopo non è che la cosa è durata un mese!"
33) Prima parlavamo del fascismo e della sua propaganda facendo l'esempio delle divise indossate da voi piccole italiane. Relativamente alla propaganda titina [mi interrompe]...
R.: "Uguale, uguale! Era uguale, perché anche ai bambini che andavano a scuola li mettevano il berretto con la stella rossa e via... I pionieri [li chiamavano]."
34) Tito, ad esempio, è mai venuto a Rovigno?
R.: "No. Però era a Brioni e mi ricordo che una mattina io ero a far la spesa, e c'erano le guardie del corpo che dicevano: fermi, tutti fermi! E vedevi la barca di Tito che passava vicino al molo e allora fin che passava lui, noi dovevamo stare tutti fermi come scemi! Era un capo di governo, qualcuno poteva anche fargli qualcosa e sarebbe stato anche un guaio se gli succedeva qualcosa."
35) Le chiedo ancora una cosa sulla Jugoslavia: a Rovigno c'erano delle fabbriche...
R.: "Si, c'era la Manifattura Tabacchi, c'era il conservificio pesce, c'era la fabbrica del gas..."
36) Era quindi una città industriale. Lei si ricorda se nelle fabbriche rovignesi arrivano i monfalconesi?
R.: "Si, ma pochi. Pochi. Si, perché loro miravano ad andare a Pola che c'erano i cantieri, e quelli di Monfalcone erano quasi tutti che lavoravano nei cantieri. E allora andavano a Pola: di famiglie non me le ricordo a Rovigno, andavano a Pola perché avevano tutto l'interesse di andare lì. Madonna, lavorava tanto quel cantiere! Scoglio Olivi..."
37) Che poi, parlando sempre dei monfalconesi, non è che abbiano, come si dice, fatto una bella fine...
R.: "Sa, c'era la propaganda grande e loro, come tutti - perché anche il contadino era pressato dalle tasse - si pensava che Tito portava il benessere, che non ci sarebbero state tante tasse, perché si pagavano. E loro son venuti... Saranno stati non dico comunisti, ma antifascisti, e avranno detto: andiamo lì che si stava bene, perché la propaganda è propaganda, c'è poco da dire. Ma a Rovigno, sa, non c'è n'erano tanti. "
38) Mi viene in mente una cosa su Rovigno, ora che parliamo dei monfalconesi, e cioè che Rovigno credo fosse una città di forti tradizioni socialiste. Non a caso, se non sbaglio, la chiamavano Rovigno la rossa...
R.: "Si, si. Dico [questo]: da noi prenda il 90% [dei rovignesi] che erano a favore di Tito, cioè non di Tito ma che erano antifascisti, perché a Rovigno dicevano che [Rovigno] era la piccola Mosca, la piccola Russia. Appunto perché era un paese che viveva si dell'industria, ma anche della terra e del mare e guardi che [durante il fascismo] facevano pagare la tassa anche sull'asino e sul carro. Diciamo che noi vivevamo in città, e per andare fuori in campagna si doveva fare qualche chilometro, e bisognava avere l'asinello e il carretto. E mia mamma li malediva sempre, diceva: mamma mia quante tasse! La metà di quel che ti porti in casa paghi le tasse! E mio papà diceva: di quello che vendo, perché per mio papà la maggior parte del guadagno era sul vino, sulla vite, tant'è che mio papà diceva che il vino ti dava da vivere, perché col vino puoi comperare tutto. E allora bisognava lavorare su quello che dava più guadagno, però non mancava da mangiare. Poi dopo no - cioè noi si, il contadino, perché magari il contadino aveva delle amicizie con l'oleificio, però c'era la tessera e non mi ricordo quanti litri a testa che davano di olio e magari chiudevano l'occhio per una bevuta e lasciavano passare dei litri in più di modo che uno non stava male."
39) Poi però la tessera arriva anche con Tito...
R.: "Si, peggio ancora!"
40) In che senso peggio ancora?
R.: "Uh, mamma mia, mamma mia! Mi ricordo che avevo i bambini piccoli e c'era un parente del mio consuocero che mi diceva: Gina, guarda che s'e arrivà i fidelini - che sarebbero i capelli d'angelo - per i bambini piccoli. E li davano con la tessera, e bisognava fare la fila di modo che quei pochi cercavamo di aiutarci in un certo modo. Però c'era gente che aveva anche fame, perché con un etto di pane al giorno - un etto e mezzo o due - non so se uno poteva andare a zappare la terra, o per lo meno a lavorare, perché la fame è brutta, eh! Era tutto con la tessera: mio marito era R1, lui era R1B e pensi che gli davano anche la cioccolata con la tessera, perché lui faceva un lavoro pesante, era in mare e la gente poi, appunto, [si rivolgeva] alla borsa nera. Poi, tante donne di pescatori, andavano fuori, in campagna, con il pesce e portavano il pesce. Magari questo poverino - dicevano - aveva voglia di mangiare pesce - o che doveva mangiarlo - gli davano il pesce [e lui] gli dava, magari, un chilo di farina. Eh si, come no!"
41) Parliamo adesso dell'esodo. Lei mi ha detto di essere partita nel 1958, quindi piuttosto tardi. Credo dunque che lei abbia visto il primo esodo, posso chiederle cosa ricorda?
R.: "Da tirarsi i capelli! Cosa vuole che le descriva? Era un dispiacere grosso, perché chi rimaneva rimaneva per la mamma o per il papà, per una cosa o per l'altra, chi andava via andava verso l'ignoto, perché non è che tutti avevano il lavoro pronto qua, sa? Io poi avevo tre bambini piccoli..."
42) Rovigno era una città che si svuotava in quel periodo?
R.: "Era una città che alle cinque di sera, se andavo da casa mia [a casa] di mia mamma mi veniva da piangere, perché non incontravo un'anima. E' stata brutta per chi è andato via, ma è stato brutto anche per chi è rimasto, perché ci sono tanti che son rimasti: o avevano i genitori vecchi, o perché dove andavano non avevano il lavoro sicuro... Erano tante le cose che uno doveva pensare. Io avevo tre bambini piccoli, ma non mi lasciavano andare perché dicevano che io sono croata".
43) In che senso non la lasciavano andare, mi spieghi...
R.: " Non si poteva perché respingevano l'opzione e niente, ho dovuto aspettare finchè hanno voluto loro."
44) Mi scusi, come mai dicevano che lei era croata?
R.: "Eh, eh! Io mi chiamo P., il mio cognome è P. e non ha proprio niente di croata. Ma, come dire - e gliel'ho già detto -, se uno mi dava un pugno, io cercavo di dargliene dieci. Se io avevo fatto uno sgarbo, che magari a me sembrava di non averlo fatto, quello si vendicava, [diceva]: quella non va via e basta. Ha capito? Quindi a me mi han respinto, ma non solo io anche ad altre famiglie. Poi c'era il consolato [italiano] a Zagabria, e lì cercavano di aiutare sta gente [che voleva andare via]."
45) La prima volta quando ha fatto l'opzione?
R.: "Sa che non mi ricordo? Forse nel '48 o nel '49. Poi, nel frattempo son nati i bambini, e mia mamma quando le dicevo che volevo andare via cominciava a piangere e quindi sa com'è..."
46) Mi permetta di chiederle ancora una cosa sulla Rovigno vuota nei giorni dell'esodo. Ho in mente le immagini di Pola, con le famiglie che partono con bauli caricati sui carri e sulle navi. Un'atmosfera straziante. A Rovigno era la stessa cosa?
R.: "Un'atmosfera brutta, malinconica, da piangere, perché andavi a fare la spesa e si incontravano tre o quattro persone: quel s'è andà via? Eh si. L'altro s'è andà via? Eh, si. Brutto, da piangere! Alle cinque di sera lei non vedeva nessuno per strada."
47) Dopo la città si è però ripopolata...
R.: "Eh, croati! E' logico! Le case si son svuotate e loro le hanno riempite, a gratis! Beh, la stessa cosa è stata adesso, quando la Jugoslavia si è divisa, con la Serbia. Cioè, voglio dire, anche là si sono svuotate case... Un'atmosfera brutta e pesante. Andavano via in stazione [a Rovigno], mentre Pola è stato diverso, perché c'era il piroscafo e imbarcavano tutti. Da Rovigno invece partivano in treno, eh si. E bisognava avere passaporti e permessi e venivano i doganieri a vedere quello che mettevi nei bauli."
48) Su questo ci torniamo dopo, se non le spiace. Vorrei ora chiederle una cosa: secondo lei - e ci metto dentro anche la sua storia - la gente che è andata via, come mai ha fatto questa scelta?
R.: "Eravamo trattati da fascisti, da porci. [C'era] odio, ci odiavano. Magari sarà stato anche reciproco, perché anche io se vedevo un croato che mi maltratta [non è che ero contenta]. Cose queste - che mi dicevano mio papà e mia mamma - quando c'era Francesco Giuseppe non succedevano. Poi obbligavano i ragazzi ad andare nelle scuole croate, cioè avevano la scuola italiana ma era d'obbligo andare anche nella scuola croata così che piano piano cercavo di eliminare quella italiana. Poi io son venuta via... Io son venuta via per il trattamento, perché per loro eravamo tutti fascisti, porci fascisti."
49) Credo quindi che sia stato molto difficile il rapporto anche con i nuovi arrivati provenienti dalle altri parti della Jugoslavia...
R.: "Peggio ancora, peggio ancora, perché loro venivano da padroni,da trionfatori perché avevano vinto la guerra. L'Istria l'hanno ceduta perché? Perché la Jugoslavia ha vinto la guerra e l'Italia l'ha persa, è vero? E' stata così. Proprio l'altra sera, io ho visto per televisione - e mi piace vedere quelle cose - Emanuele Filiberto, che parlavano di padre Pio. Che padre Pio lui l'aveva predetta questa disfatta dell'Italia e della monarchia. Solo che a quei tempi non c'era la politica, cioè la gioventù aveva solo il fascismo: festa del fascismo, giorno del fascismo... Però per gli altri eravamo tutti fascisti. Perché anche questo bisogna dire: se uno voleva un lavoro e aveva la tessera del partito, c'era prima lui che io e quello vuol dire. Però penso che questo sia un po' dappertutto. Quello che però noi abbiamo sofferto, era che eravamo a casa nostra e non eravamo padroni del nostra casa. Ed eravamo tutti fascisti [per loro], ma di quei fascisti che ammazzavano: non di quei fascisti che uno aveva la tessera perché gli hanno dato il lavoro. C'era odio proprio, che poi è diventato un odio personale: quello che ti credevi amico una volta, era diventato nemico."
50) Ora le ribalto la domanda. Tra la popolazione italiana - e questo indipendentemente dalla sua che è una situazione forzatamente limite - c'è anche chi ha deciso di restare. Secondo lei cosa stava alla base di questa scelta?
R.: "Sa perché l'ha fatto? Tante famiglie - anche tra i miei parenti - avevano i genitori vecchi, non avevano un lavoro sicuro, perché lavorando la campagna il lavoro non è sicuro. Se vieni via di là, dove vai qua? Io ho parenti miei che sono ancora lì per questo motivo, perché dicevano: come andiamo noi in campo profughi con sti due vecchi? C'era un mio cugino - poverino lui e i suoi fratelli son morti tutti - che aveva papà e mamma e suoceri: dove vai con quattro vecchi? E contadino: dove vai senza un mestiere in mano? Hai il mestiere, si, però... Invece tanti son venuti via da Rovigno con il lavoro sicuro, perché chi era in Manifattura Tabacchi, assunto durante il periodo italiano, il lavoro lo hanno avuto sicuro."
51) Certo, perché glielo tenevano. Qui a Torino in Manifattura Tabacchi c'erano ad esempio tante sigaraie rovignesi...
R.: "Uh, se c'erano! Chissà quante rovignesi c'erano! Si, perché la Manifattura Tabacchi era a Rovigno, ma anche a Pola, Zara, Fiume."
52) Tra chi è rimasto, secondo lei, qualcuno lo ha fatto anche per motivi politici?
R.: "Tra chi è rimasto lì? Non saprei, credo che siano rimasti più per motivi economici, perché non erano sicuri di un lavoro qua."
53) Parliamo ora del suo viaggio. Lei parte nel 1958, riesce a descrivermelo?
R.: "Io parto in treno da Rovigno e vado a Trieste. Da Trieste vado poi a Udine, al campo profughi."
54) Ha potuto portare via quello che poteva oppure c'erano delle limitazioni?
R.: "No, come soldi davano non mi ricordo quanto che si poteva portare e poi venivano i doganieri a casa, a vedere nei bauli. Io avevo un mucchio di romanzi e me li hanno non presi, ma proprio buttati in un sacco e buttati in acqua. Insomma, quello che gli sembrava a loro non lasciavano, ma come biancheria e materassi lasciavano. Che poi è andato a finire tutto a Trieste, al porto [e son diventati] stracci."
55) Molte testimonianze evidenziano come venissero messi in atto dei meccanismi per ingannare i doganieri e portare con sé più cose possibile. E' stato anche il suo caso?
R.: "Eh, eh! Si, si, sono riuscita, come no. Mia mamma - poverina - mi aveva dato un po' di soldi, ed ero riuscita a cucirli nei pantaloni di mio marito, perché - adesso è diverso - una volta i pantaloni avevano la fodera qua [davanti], e allora piano, piano ho cucito e son riuscita a portare quel che mia mamma mi aveva dato. Perché io con tre figli non ho fatto la fame - mio marito lavorava sodo e aveva anche una bella paga, lavorava in mare - ma quello si, son riuscita: sa, proprio scemi [non eravamo]!"
56) Parte da Rovigno, poi sta un po' a Trieste e infine Udine. Riesce a descrivermi il campo di Udine?
R.: "Io sono stata da settembre a novembre a Udine. Era una caserma, o scuole - non mi ricordo bene -, comunque era un campo. Si andava a prendere il rancio come i militari e io e i miei figli... Insomma, la bambina l'ho tenuta con me -povera- e i miei figli son andati in collegio. Perché? Perché nei campi profughi non è che imparavano bene, neanche male, però c'era il bene e il male. Perché poi noi donne - io a Udine no - abbiamo iniziato a lavorare nelle case, e dicevo: e di questi bambini cosa ne facciamo, dove li lasciamo? E in tanti bambini sono andati a Pesaro, che bisogna fare un monumento a quel padre [Pietro] Damiani, che era pesarese ed ha accolto 700 bambini istriani. Era sovvenzionato dal governo, non dico di no, però aveva anche un bel peso sulle spalle. Erano quelle colonie dei profughi, che erano in tutta Italia... Noi siccome avevano destinato di mandarci a Chiari, allora abbiamo scelto di mandare [i figli] a Pesaro, che avevano accolto tutti sti bambini."
57) Lei sta un po' a Udine e poi?
R.: "E poi vado a Chairi, vicino a Brescia."
58) In un campo profughi?
R.: "Era una ex caserma, dove avevamo una stanza a seconda della famiglia più piccola o più grande. Io l'avevo più grande, perché in previsione che i bambini durante le vacanze vengono a casa, allora avevo dovuto anche avere il posto per mettere queste brandine. Infatti è stato così: a Chiari sono rimasta fino al 1961, dal 1958 al 1961, e i bambini li avevo a Pesaro."
59) Come mai è andata a Chiari. Cioè si poteva scegliere dove andare?
R.: "No, noi cercavamo di scegliere un paese che era vicino all'industria, e infatti mio marito era andato - lui come tanti altri - al comitato [giuliano-dalmata] a Milano e gli hanno trovato il lavoro. Perché quello era un periodo che [il lavoro per i giuliano-dalmati] era un diritto, e cioè il padrone della fabbrica doveva assumere una percentuale di profughi. E mio marito era andato a lavorare a Casalbusterlengo, alla SAFA. I primi tempi andava il lunedì e veniva il sabato, poi partiva la mattina alle cinque e alla sera alle otto era a casa. A casa, in campo! E abbiamo fatto questa vita fino al '61, che poi siamo venuti a Monza, perché avevamo fatto la domanda per venire a Monza, che a Monza era come essere in paradiso, perché a Monza tutti lavoravano. Anche a Chiari tutti lavoravano, però era diverso, come dire... La fatica era il viaggio."
60) A Chiari eravate quindi un una stanza...
R.: "Si, avevo tre letti, perché avevo con me anche la nonna di mio marito, di ottantaquattro anni, e poi quando venivano i bambini durante le vacanze, mi davano due letti e mi facevo il letto a castello. Però era una bella stanza grande. Facevamo da mangiare noi, ci passavano il sussidio - 8 Lire al giorno - e quando il capofamiglia lavorava il sussidio non lo aveva più: è naturale, se lavorava, lavorava."
61) Eravate in tanti nel centro raccolta profughi di Chiari?
R.:"Beh, non saprei dirle, [però eravamo] abbastanza: oltre a noi c'erano anche i tripolini, i libici."
62) Poi dopo Chiari, Monza...
R.: "Noi avevamo una parete divisoria, anche se uno sentiva quello di cui parlava l'altro, però ognuno aveva la sua stanza. Avevamo i caloriferi, perché ci avevano messo nelle scuderie del palazzo reale a Monza. Ma io mi sono trovata subito bene a Monza, anche perché eravamo trattati bene, perché nel frattempo avevano capito che gli istriani non erano né fascisti né ladri, che gli piaceva lavorare e che si sono tirati su le maniche. Non tutti, ci sarà stato qualcuno che non gli piaceva, ma la maggioranza lavoravano. Il campo si chiamava Villa Reale e ci avevano messo dove viveva la servitù una volta, ma non era male, eh! Avevamo i caloriferi, io mi sono trovata bene e ho trovata anche la gente buona. In campo c'era il papà della [mia amica] Rita che aveva un negozietto che era molto pratico, poi però andavamo fuori, avevi solo da passare il giardino e andavi a Monza."
63) A Chiari invece non c'era nulla?
R.: "A Chiari no, c'era solo un campo, non c'era negozi dentro. Ma li avevamo subito fuori. Il campo era una ex caserma, mi sembra si chiamasse Eugenio di Savoia, ed era abbastanza in centro. Ma a dire la verità non eravamo trattati male, anche perché erano passati oramai un po' di anni, e la gente si era fatta un concetto di questi disgraziati istriani! Perché sa, i primi tempi magari non li volevano. Gli istriani non li volevano, mentre invece quando c'ero io, venivano da Milano a prendere le donne per lavorare. E io poi sono andata a lavorare nelle case, a servizio."
64) Posso chiederle com'era la vita in campo? Cioè, non è rimasta un po' traumatizzata?
R.: "No, no, perché si faceva amicizia, andavamo fuori a far la spesa, passavi i giorni e passavi il tempo. Che allora non si guadagnava noi, avevamo quel desiderio di venire via dal campo e di comprarci una casa. Questo parlo di Chiari, invece a Monza sono andata a lavorare. A Monza lavoravano tutti: se lei andava alla mattina non trovava nessuno in campo! Lavoravano nelle case, ma la gioventù no: ci sono stati tanti ragazzi che sono andati anche alla RAI a lavorare, perché i tempi erano cambiati e la gente si era fatta un altro concetto [dei profughi istriani]. Molti dei nostri lavoravo nelle fabbriche, mentre i dalmati tanti erano muratori, ma era il periodo che costruivano anche a Milano."
65) Le ho chiesto se fosse rimasta traumatizzata perché in base a quanto raccolto in questi anni, molti suoi conterranei mi hanno parlato della vita in campo come una sorta di trauma, specialmente per la quotidianità e i suoi aspetti, come ad esempio quelli legati all'igiene...
R.: "Beh, quello si, quello si, sinceramente, perché bisognava andare nel gabinetto dove andavan tutti. E quello quindi neanche lo nomino, perché abbiamo provato tutti brutti momenti, insomma. Però stanchi di là, stanchi della vita che si faceva là, anche se avevo la casa a Rovigno io non sono rimasta traumatizzata [dai campi]. Perché me l'aspettavo, perché mia mamma me lo diceva: guarda che ho provato io tre anni ad essere profuga - torno a ripeterlo, che lei era stata profuga durante la guerra del '15-'18 -, guarda che non è bello... Però lei, poverina, è morta, ma veniva [a trovarmi], invece poi [con] mia sorella, mio cognato e mio papà ci siamo ricongiunti, sono venuti in Italia."
66) Fino a che anno sta a Monza?
R.: "Fino al '64."
67) E poi viene a Torino?
R.: "Si."
68) Come mai arriva a Torino?
R.: "Perché avevo fatto il bando di concorso. Però devo dire questo: mio marito lavorava e avrei potuto prendere anche la casa a Milano, se non a Milano lì vicino, perché mio marito era andato a lavorare alla Falck, e quella volta la Falck era la Falck! E poi da Monza a Sesto San Giovanni andava con la bicicletta a lavorare, si figuri. Però avevano fatto il bando di concorso per le case qui a Torino, e io qui avevo mio papà e mia sorella e allora abbiamo preferito venire qui. Poi mio papà è morto, mio cognato è morto, ma mia sorella è ancor viva; i miei ragazzi hanno imparato il mestiere qua e ci siamo sistemati qua."
69) Suo marito qui che lavoro ha fatto?
R.: "Era alla Ceat, in via Leoncavallo Mio marito non è rimasto neanche un'ora senza lavoro: fino al sabato ha lavorato alla Falck e il lunedì era alla Ceat. Lui non è stao a casa neanche un giorno, il tempo dio venire qui e di andare alla Ceat. Mio marito, devo dire la verità, ha avuto anche la raccomandazione della Falck, perché non era né ingegnere né cosa, era un controllore, era un semplice operaio. Però era di quegli operai che si davano da fare. I miei figli invece hanno imparato tutti e due un mestiere, sono ortopedici. Lavoravano al Maria Adelaide, cioè facevano i lavori per il Maria Adelaide, loro facevano le protesi e avevano imparato il mestiere in un'officina. Adesso uno è in pensione, mentre l'altro lavora ancora, è tanti anni che lavora in proprio. Quindi, insomma, non è che mi possa lamentare. Loro non volevano andare a scuola e mio marito gli diceva: ricordatevi che io non vi voglio vedere girare in bicicletta per le Vallette. O scuola o lavoro, via!"
70) Parliamo ora dell'accoglienza. Posso chiederle come è stata accolta?
R.: "Guardi, io a Torino ho trovato la differenza dal milanese al torinese, dal lombardo al piemontese, senza offendere nessuno. Perché il lombardo è come il triestino, aperto, quello che ti deve dire ti dice... Ma sa, io qua a lavorare non sono andata, però come carattere a Torino ho trovato cambiamento, perché anche i chiaresi erano cordiali con noi, mentre invece qui [a Torino] la gente era più chiusa."
71) Un'accoglienza, quella che lei ha ricevuto, forse migliore rispetto a quella che hanno vissuto coloro che sono arrivati prima di lei...
R.: "Ah, si, io non l'ho provato quello, son sincera, ma i primi che son venuti gli davano del fascista, ed era quello che dava i nervi. Io non sono mai stata offesa, così [in generale] magari si, che dicevano che gli istriani erano tutti fascisti, ma a tu per tu no: mai nessuno mi ha detto eri fascista o eri comunista, no. I primi [invece] l'han passata un po' più brutta. Anche perché erano ancora gli anni bollenti quelli lì."
72) Si ricorda se ricevevate qualche tipo di assistenza?
R.: "Ogni tanto in campo veniva qualche pezzo di sapone, qualche vestiario che magari neanche mettevi, ma non era il massimo. E sa perché? Perché anche la gente a Chiari lavorava, e andavano a Milano."
73) Lei arriva a Torino nel 1964 e viene a stare subito alle Vallette. Posso chiederle com'era allora questo quartiere?
R.: "Eh, era un po' isolato, non era con tante case e, insomma, ci siamo trovati un po'... Io mi sono trovata male!"
74) In che senso?
R.: "Nel senso che rimpiangevo il campo: quell'amicizia, quella fraternità che c'era anche coi dalmati - perché eravamo vicini - che invece qua è sparita, poi però è tutto passato, perché [ho trovato] dei buoni vicini - e quando hai dei buoni vicini è già bene - poi i miei figli hanno incominciato a lavorare, e quindi, insomma..."
75) Mi scusi, però credo che dopo tanti anni di campo sia stata contenta di avere una casa...
R.: "Orco! Si, si... Non mi sembrava vero di poter andare al gabinetto!"
76) Era quindi un quartiere diverso...
R.: "Eh, non c'eran tante case, hanno costruito dopo... Tutte queste case qua [che ci sono adesso] le hanno costruite [dopo]."
77) Qui alle Vallette non ci sono molti giuliano-dalmati, ci sono più immigrati dal sud Italia. Posso chiedere com'è stato il rapporto con loro?
R.: "No, non è stato male... Perché innanzitutto c'erano tanti miei paesani lì a Lucento e allora loro venivano a trovarmi, io andavo, quindi era cominciato già un rapporto, diciamo, che avevamo lasciato lì. Perché poi, ad esempio, c'era anche una famiglia che [a Rovigno] abitava a due passi da casa mia. E poi non avevo neanche il tempo di dire vado qui o vado lì: avevo i figli, lavoravano loro e avevo da fare."
78) Quindi il suo tempo libero...
R.: "Ma no, non avevo tempo, avevo tre figli!"
79) Arrivata a Torino, una grande città, posso chiederle qual è stato il suo impatto?
R.: "Ma, guardi, indifferente. Non è che mi abbia fatto chissà che effetto. Anche perché non è che giravo tanto: la mia vita [era] la spesa, se avevo da fare qualche compera andavo in centro, ma non è che ho fatto una vita tanto movimentata, avevo tre figli e mio marito lavorava."
80) Lei ritorna a Rovigno?
R.: "Dunque, io sono tornata a Rovigno dopo otto/dieci anni, ma mi sono trovata bene, perché mio marito aveva il papà lì, e allora... Si, c'era qualche muso lungo che diceva: eh, siete andati via, ma se tutti rimanevano - e questo è il vero - non prendevano piede i croati. Questo si, ma anche adesso, se andiamo, non sono visti bene, perché oramai i croati dicono: queste son terre nostre."
81) Lei ha nostalgia di Rovigno?
R.: "Eh, si, si. Tante volte, siccome che io credo, dico a Gesù: ma, lasciami andare a Rovigno!
22/06/2010;
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