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CARTACEO: Intervista a Guido C.

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Intervista a Guido C.
Guido C. nasce a Ceppi di Portole, in provincia di Pola nel 1937. Resta in Istria fino al 1961, quando decide di partire per l'Italia. Arrivato a Trieste con un visto turistico raggiunge dopo qualche settimana la sorella a Torino. In Piemonte resta qualche mese, prima di trasferirsi di nuovo a Trieste dove trova ospitalità al campo profughi della Risiera di San Sabba. Da qui va prima al campo profughi di Capua, poi a Milano e infine a Torino dove lavora come operaio. Vive a Torino, dove è stato intervistato il 30 settembre 2010. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Sono nato a Ceppi di Portole, provincia di Pola, il 31 gennaio 1937."

2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...

R.: "Ah, eravamo per la più parte tutti contadini, si lavorava la terra. Eravamo in quindici in famiglia!"

3) Mamma mia, così tanti?

R.: "Erano due fratelli, mio papà e mio zio e allora c'erano le due famiglie che lavoravano assieme, fino al 1945. Dopo, nel 1945, si son divisi: avevano della terra, tanta, che hanno comprato, e si è intestato tutto mio zio a nome suo! Capito? E ancora adesso siamo in causa con questi cugini!"

4) Mi descrive com'era il suo paese? Credo fosse contadino...

R.: "Si, si, solo contadino, per la più parte [contadino], di altro non c'era niente. Contadini e basta."

5) Avevate rapporti frequenti con Pola?

R.: "Eh, con Pola è lontano da noi... Era provincia ma era lontana... Andavamo pochissimo a Pola, perché tutto quanto serviva era Portole. E la gente lì era contadina, come la maggior parte dell'interno dell'Istria, perché lì non è vicino al mare."

6) Dal punto di vista demografico, cioè della composizione della popolazione, com'era la situazione a Portole?

R.: "Comunque, Portole... Cioè, lì era proprio roba italiana, diciamo, però nei paesi fuori erano più misti, diciamo. Si parlava slavo, due dialetti, bilingue, cioè non era né croato né italiano, era una lingua... Il dialetto slavo non era né sloveno né croato, era una roba mista, e come c'era anche il dialetto italiano, che era veneto, insomma, più o meno veneto."

7) Posso chiederle com'erano i rapporti tra la componente italiana e quella slava?

R.: "Con ste popolazioni... Si parlava anche in famiglia, cioè mettiamo che in famiglia con un figlio si parlava italiano e con un altro figlio si parlava slavo. C'era ad esempio mio fratello, che con un cugino parlava slavo e con un altro e con me e altre mie sorelle parlava italiano. E questo perché c'era un miscuglio, una mescolanza."

8) Ecco, ma i rapporti tra la componente italiana e quella slava com'erano? Erano buoni?

R.: "Eh, io direi di no, no! Quei che erano di Portole, Umago, Buie, Rovigno - Pola non lo so - quei che erano di ste paesi de fori, li ciamavano schiavi. Quindi no, i rapporti non erano buoni... Si, si viveva insieme però... Insomma, se diceva s'ciavo. A Trieste, se vai adesso a Trieste, quei che sono de Buie, de Rovigno, de Umago, ancora adesso ei disi s'ciavi! Quando che venivano, ai tempi di Tito, che venivano a Trieste a fare la spesa - che li mantenevano, che la Jugoslavia teneva su Trieste quella volta - gli gridavano dietro s'ciavi. Capisci com'è? No, per me no, non erano buoni rapporti."

9) Ma lei ha degli esempi per descrivermi questa incrinatura?

R.: "No, no, non i'era nessun litighe, però... S'ciavo! Venivan dentro e... s'ciavo, bom."

10) E su questo, secondo lei, incide anche la politica del fascismo voluta da Mussolini?

R.: "Lui g'ha portà tante cose! Più di tanto non lo so perché ero ancora piccolo, però certo che ha fatto tante cose: ha fatto la prima casa asfaltata Trieste- Pola, la via Flavia, poi ha fatto l'acquedotto, che prima non c'era l'acqua... Non dappertutto, ma comunque ha fatto... Poi, cos'altro? Beh, dittatura... I'era dittatura, pero dopo che è venuti Tito, tutti quanti volevano Mussolini. Però sa cosa c'era? Anche i vecchi - e lo capivo quando parlavo con mio padre - quello che avevano nel cuore era l'Austria. L'Austria loro l'avevano sempre nel cuore."

11) E secondo lei come mai rimpiangevano l'Austria?

R.: "Eh, perché non i'era tante tasse con l'Austria. Poi erano più liberi, potevano parlare più lingue, potevano parlare la lingua che volevano, c'era la scuola, c'era la scuola tedesca, slava e italiana. E l'Austria era più ben voluta degli altri. E invece Mussolini ha portato subito la dittatura, però ha portato [anche] delle buone cose."

12) Una dittatura che cancella la lingua slava...

R.: "Eh beh, negli uffici era scritto: qui non si parla lo slavo. Si parlava solo italiano, questo mi ricordo che dicevano. E altro... non ricordo... "

13) Lei è del 1937, quindi ha vissuto gli ultimi fuochi della propaganda fascista che, sovente, veniva praticata anche a scuola...

R.: "Uh, la scuola! Mi ricordo che in tempo di guerra la scuola l'hanno completamente chiusa, non c'era scuola e ho perso anche io un anno di scuola. Poi dopo, appena è venuto Tito, in un primo tempo c'erano insegnanti che parlavano un po' italiano: c'era qualcuno che è rimasto, perché son scappati via tutti, avevano già paura del comunismo. C'era qualcuno che era rimasto, e mi ricordo che il primo anno che sono andato a scuola era che si parlava ancora italiano, e allora si traduceva dall'italiano al croato. Però noi tutti giovani, il croato non lo sapevamo, perché, come dire, noi eravamo i figli del fascismo, perché sono arrivati nel 1921 e noi eravamo i primi bambini dell'Italia e allora si parlava italiano. Poi a Portole è andata avanti [ancora] per un po'di tempo la scuola italiana, per tre o quattro anni c'era ancora l'insegnante italiano, ma dopo lo han mandato via anche quello. Che c'è qua a Torino una mia paesana che andava a scuola a Portole - perché lei è proprio di Portole - e dopo che è venuta la scuola croata non voleva andare più."

14) Prima mi parlava della scuola chiusa durante la guerra. Della guerra, che ricordi ha?

R.: "Ricordo, ricordo... Non lo so se le interessa questa roba qua, comunque gliela dico... Perché lì c'era i fascisti e i partigiani. Fascisti e partigiani... E i partigiani venivano di notte e dovevi dargli da mangiare quello che c'era. Dovevi darle da mangiare e dopo [loro] facevano le conferenze, parlavano contro il fascismo e [spiegavano] come che sarà il nuovo comunismo, che non ci sarà tasse, che non occorrerà pagare le tasse...

Gilda: "Scusi eh, una battuta [su questo]. Dicevano questo: prima mangiavano loro, mentre adesso sarà per noi. Ma mentre dicevano noi, si batteva il suoi petto, capito?"

R.: "Perché poi dopo anche questa politica... Tra che c'era tante, tante, tasse da pagare sotto l'Italia, la gente non solo nei paesi, ma anche nelle cittadelle piccole come [ad esempio] Rovigno, Parenzo, Umago, la gente diventava più comunismo. Diciamo che c'era più per il comunismo che per il fascismo. Perché Rovigno eran tutti rossi, eh!"

15) Se non sbaglio, Rovigno la rossa...

R.: "Eh si, la ciamavan Rovigno la rossa. Ma poi il comunismo i'era da tante parti, anche a Pola i'eran tanti. Perché se infiltravan, se infiltravan là dentro sti partigiani... Se infiltrava questa politica sua, questa religione, questa dottrina."

16) Mi diceva che di notte arrivavano i partigiani, mentre di giorno?

R.: "Beh si, di giorno qualche volta venivano anche i fascisti e i tedeschi, quando che venivano a far i rastrellamenti".

17) E i tedeschi li ricorda?

R.: "Eh, mi ricordo si!"

18) Mi dica...

R.: "Che per poco non mi hanno ucciso il padre... Era già in fila, tutti quanti, non solo mio padre... Quando hanno invaso, cioè quando che c'è stato l'armistizio che Mussolini e l'Italia sono andati via e hanno cambiato, i tedeschi hanno invaso tutta l'Istria fino alla Jugoslavia. E allora dove venivano e dove trovavano uomini, rastrellavano e portavano tutti ad ammazzare. Invece lì in questo paese c'era un tedesco, un ufficiale, che veniva tante volte nel nostro paese. Che a Portoroze [i tedeschi] avevano il posto [il comando], che sarebbe venticinque chilometri via [lontano da noi]. E lui veniva da noi, e non so come, aveva fatto conoscenza con qualcuno di noi in paese e oramai da noi conoscia tutti quanti, tutti gli uomini. Capitano Smutz, si chiamava. E allora proprio in quel momento che tutti [gli uomini] erano in fila proprio sulla strada maestra - che noi avevamo una strada - con sta mitragliatrice puntata, viene in moto - lui andava in triciclo - e dice in tedesco [all'ufficiale]: che cosa fa con quella gente? E gli rispondono: come dalle altre parti, rastrelliamo e li ammazziamo tutti, perché qui sono tutti comunisti, sono tutti partigiani. [Allora] lui dice: no, questa gente la conosco io, sono tutti bene, uno per uno li mandi ognuno in casa propria. E allora quella volta lì li han mandati tutti a casa. Se no, solo dieci minuti, se ritardava, più di venti persone le ammazzavano. Gli altri paesi di dietro che erano, li hanno portati via in una valle, e dopo li hanno uccisi tutti, venticinque o ventisei ragazzi. Perché pensavano che sono partigiani. E invece era tutta gente che venivano a casa. O che venivano a casa da militare - dopo che l'Italia era tutta sfasciata - perché chi poteva scappavano via. E allora li trovavano a casa, li portavano via e li ammazzavano. E anche a un mio paesano, che lo hanno trovato che aveva ancora la camicia da militare... Perché prima del rastrellamento, passava davanti un ufficiale e gli ha detto: vai a cambiarti la camicia, perché può darsi che verranno altri ufficiali SS, gli aveva detto. [E lui ha detto]: si, si, andrò. Non è andato e sono arrivati altri ufficiali, prima che è andato, e lo hanno portato via ed è andato a finire in Germania, deportato. Però da noi, solo quella volta, se no non han fatto niente. Passavano, e se non che li toccavi i tedeschi erano bravi, non facevano niente, ma se li attaccavano i partigiani, se venivano attaccati, si vendicavano. Una volta avevano attaccato un camion i partigiani ai tedeschi, proprio là sotto la strada, e quella volta si sentiva proprio sparare dalle case. E i tedeschi [quella volta] venivano a prendere i buoi o i maiali, li portavano via. E allora là [i partigiani] gli hanno dato questo attacco e i tedeschi sono però riusciti a scappare... Pensavano di poter girare col camion, ma erano in un posto che non potevano girare, e come che hanno fatto la manovra il camion è andato in un burrone. E allora li hanno dovuto scappare: si sono portati via la mitragliatrice e ogni quel tanto davano una mitragliata verso questo paese, e sono riusciti a scappare. Sono venuti il giorno dopo, e hanno bruciato subito una casa là vicino. Hanno detto: da qui è partito il primo colpo verso il camion e questa casa bisogna bruciarla e le hanno dato fuoco. Dopo, il terzo giorno, sono arrivati con più camion e hanno bruciato tutto [il paese] e hanno [anche] portato via delle roba, ma roba di poco come granoturco, grano e quello che i'era. Hanno buttato la benzina dappertutto e hanno dato fuoco. E dopo i fascisti... Te conterò anche dei fascisti come che viene [come venivano a rastrellare]."

19) Me lo racconti...

R.: "Questo mi ricordo, ero ancora piccolo. La sera prima da noi c'era dei partigiani, una decina, e [tra di loro] i'era proprio anche el fratel de mio cognato, ma si è sposato dopo, alla fine delle guerra. E allora io questo qui lo conoscevo, era di un altro paese, perché i partigiani ti prendevano e te dovevi andar con loro. E lui lo hanno preso ed è andato con loro. Comunque, erano lì e hanno cenato là da noi e dopo sono andati in un altro paese più avanti. Ma i'era [una] spia... In questo paese si sono messi a dormire in un fienile e c'è stata una spia che di notte è andata dai fascisti a Portole a dire che i partigiani sono in questo villaggio, in questa casa e in questo fienile. E allora [i fascisti] sono andati al fienile e li hanno chiamati fuori tutti: [gli han detto] o che vengono fuori o se no li bruciano. E loro sono venuti fuori, si sono fatti prigionieri e li hanno portati a Portole. Però, cosa c'era tra di loro? C'era un politico, un partigiano politico, che aveva registrato [su dei documenti che aveva addosso] tutti i nominativi di chi era nel comitato, di chi era assistente... E in questi documenti c'erano due ragazze, mio cugino, un altro mio paesano, che erano più vecchi [di me]. Ed erano scritti, perché dovevano essere del comitato dei partigiani, ed era mio cugino. E poi c'era ste due ragazze che era scritto che erano partigiane. E allora cosa è successo dopo? Li hanno portati dentro e poi li hanno spediti in Germania, in lager. Dopo sono venuti fuori i fascisti, di notte, e sono venuti direttamente da noi, mi ricordo quando che c'erano, era di notte, le due o le tre di notte. Sono venuti, bussano forte alla porta e mio padre ha detto: chi è? Siamo noi, i fascisti, venite giù o facciamo fuoco! Allora mio padre va giù [ad aprire], loro sono entrati, e questi qui, come che mio padre veniva giù per la scala, gli hanno puntato il fucile contro de lui. E lui gli dice: piano, cosa è successo? E loro gli han detto: come, non è lei C. Vincenzo? No, non sono io, è mio nipote. Bene, fanno loro, lo chiami giù. E allora mio padre è andato sopra - perché la casa era tutta camerini - e gli dice: varda che te vol, te vogliono a te. E allora l'è ch'è girà la testa de paura, caro mio, ma comunque alla fine scende giù. E allora, dopo, lo hanno interrogato... Però [il discorso] è questo, fio mio... E cioè che mio zio, il padre di questo [mio cugino] qua, i'era capo villa dei fascisti! Capisci? Il figlio era capo dei partigiani, stava coi partigiani e il padre coi fascisti. Un dramma, ma si capisce che si... E poi si conosceva, perché mio zio andava sempre a fare il sabato fascista, si conosceva con quelli di Portole. E allora dopo, insomma, li hanno portati via, li hanno rastrellati tutti quelli che erano scritti [sui documenti] e li hanno portati a Portole. Poi [da] lì li hanno mandati di nuovo a casa. Capisci come che i'era la faccenda?"

20) A Portole invece non ci sono stati bombardamenti, vero?

R.: "Ah no, bombardamenti no, ma a Portole i partigiani attaccavano a tutta forza! Oh, si, si. C'erano tanti partigiani che erano anche a Ceppi [di Portole], e ogni quel tanto c'era l'attacco a Portole per portare via il presidio fascista, ma non gli è mai riuscito."

21) E i partigiani erano misti, cioè italiani e slavi insieme...

R.: "Oh, i'era quei de Fiume che parlavano italiano, si, si. Erano misti, si, si."

22) Come erano visti dalla popolazione civile?

R.: "La popolazione diciamo che non li vedevano bene, perché dovevi darle de magnar quando venivano e dove che venivano ti impienivano de pidocchi, perché eran pieni de pidocchi i partigiani. [Erano] sporchi, luridi, affamadi e non dovevano chiedere. C'era un fratello di mio cognato che lo hanno ucciso perché ha rubato una patata. Lo hanno ucciso perché ha rubato per mangiare, su in Croazia. Così mi dicevano."

23) Le chiedo solo più una cosa sulla guerra. Si ricorda se in quegli anni c'era la borsa nera? Come funzionava?

R.: "La borsa nera... Il sale mancava sempre, e allora venivano. Però non era facile venire, perché si rischiava. Perché andare da noi fino a Sicciole [alla saline] che si andava a prendere il sale nelle saline, non era facile. E allora venivano loro, perché loro non avevano il grano, non avevano di cosa mangiare e sapevano che se portavano il sale si faceva il cambio. C'era il cambio, così. Però roba de poco, che si andava con le biciclette."

24) Non c'era invece chi in cambio del cibo dava oro, lenzuola, vestiti?

R.: "No, no, questa roba qui era più in città grandi. Da noi prendeva il grano e ti davano il sale. Poi sai cosa c'era? Avevi la tessera, e tanto ti lasciavano per persona - per famiglia - di grano, di frumento e tanto di questo. E il resto all'ammasso. Però sempre si nascondeva qualcosa: il maiale [ad esempio] si notava [dichiarava] uno e se ne ammazzava due o tre, capisci? Veniva anche il controllo, eh! Veniva la finanza a controllare, e una volta sono venuti anche da noi a controllare, ah, ah! Quella volta sono venuti a controllare e hanno trovato tutte le cose che non erano dichiarate: hanno trovato dei maiali, del grano e tutte le cose. Le hanno prese e le hanno portate via, e mi ricordo che - mamma mia - in quell'anno ho mangiato il pane di orzo, perché avevano portato via il grano. Lo hanno portato via il grano."

25) Parliamo ora di una pagine triste per l'Istria, quella delle foibe. Voi ne eravate a conoscenza della loro esistenza, ne avevate sentito parlare?

R.: "Sa come funzionava le foibe? Per esempio, venivano e qualcuno aveva magari un sospetto che uno era fascista o cosa. O magari prima era fascista, aveva le idee fasciste, però aveva già dovuto fare abbastanza cose per vendicarsi. Ma in questo paese, nel mio paese, non c'era, ma in altri paesi come Visinada lì erano più accaniti per sti partiti, mentre nel mio paese no. Però si, bastava solo che dicevi qualcosa contro il comunismo o ti ungevano bene, ti picchiavano bene, o sparivi. Venivano di notte, andavi via e non sapevi più. C'era un ragazzo giovane, che mi ricordo che parlava mio padre con suo padre, e mio padre gli aveva chiesto: sai qualcosa di tuo figlio? Gli ha detto: no. E gli sono venute le lacrime a questo pover'uomo."

26) Quindi è una cosa che si sapeva...

R.: "Si, certamente, lo si sapeva che venivano. Si sapeva e si guardava di stare zitti, si guardava di parlare contro. Era proprio una dittatura. Venivano, lo prendevano via de casa e spariva, non si sapeva più niente. Si, si, c'era che si sentiva... C'era un'altra signora, era già sposata, era del mio paese, che aveva parlato... Lei era piuttosto più per il re Pietro, perché vivevano su a Maribor e qualcosa avevano detto e, insomma, per poco che non l'hanno buttata in foiba. L'hanno salvata."

27) Posso chiederle se ricorda l'arrivo dei titini a Portole?

R.: "Ma, dopo la guerra... I titini no, perché non c'era quell'invasione... Mi ricordo solo quella dimostrazione ch'ei facevan. Loro venivano per fare vedere che sono tutti a favore di Tito: andavano con gli striscioni a Buie e Umago, la da noi, [mentre] a Parenzo e Rovigno non so com'era, ma credo che era uguale. E allora si andava con queste manifestazioni che facevano: vogliamo Tito, viva Jugoslavia, l'Istria è croata, vogliamo l'Istria, viva Lenin, viva Stalin. C'erano tutte queste scritte, si doveva scrivere sui muri e ancora adesso si trovano in certe parti queste scritte. Viva la Jugoslavia, viva Stalin, che quella volta c'era Stalin appena uscito. Poi dopo, nel '48, c'è stato l'Inform Bureau per farlo cadere, per andare contro il regime e quella volta Tito si era messo un po' staccato."

28) Lei passa, di colpo, dall'Italia alla Jugoslavia, vivendo in un mondo nuovo. Posso chiederle cosa cambia? Credo tutto...

R.: "Da noi, in campagna cambia poco... "

29) In che senso cambia poco...

R.: "Non cambia niente, però manca tutto... Manca zucchero, manca farina... Non potevi avere niente! Non c'era niente, figlio mio! Se avevi casa tua bene,si mangiava, [altrimenti] il caffè non te lo mangiavi perché non c'era zucchero, non c'era caffè, non c'era niente, i primi anni. Ei dava zucchero solo a chi lavorava, ma mi capisci quello che dico? Gli davan zucchero solo a chi lavorava, però non davano i soldi, dovevano essere i timbri con tutti i numeri, i coupon li chiamavano, cioè i buoni. Ogni buono valeva, mettiamo, un dinaro, perché da noi non i'era ancora i dinari. Quella volta, appena arrivati, i'era le lire, poi han messo le jugolire e dopo s'è arivà el dinaro. E allora, con quella roba là, a chi lavorava gli dava un chilo o due di zucchero. Però noi come contadini, dovevamo dare ancora all'ammasso, alla Jugoslavia, alla cooperativa: si doveva dare il grano, si doveva dare tutto quanto, tutto l'anno. Perché venivano sulla trebbiatrice, quando si trebbiava: c'era il controllore, segnava quanti quintali di grano avevi fatto e tanto per persona ti spettava e tanto dovevi dare all'ammasso, alla cooperativa. Poi tante bestie avevi, tante le dovevi dare lì ogni anno. Poi cosa c'era ancora? Poi venivano per casa a controllare il vino, tutto dove che c'era il vino. E questo era [succedeva] il tempo dei primi anni di Tito, e allora la gente hanno incominciato a parlare, a dire che qua siamo peggio che il fascismo. Perché prima si, il raduno - lo chiamavano raduno - c'era, cioè il raduno delle bestie che si davano all'ammasso, ma però in questa maniera non c'era, e la gente cominciava a parlare. Ma non si doveva parlare perché c'era pericolo di sparire. E dopo, nel '45 o nel '46, si sono aperte le votazioni [opzioni], e allora lì la gente sono andati tutti a votare per andare via, quasi, quasi tutti. Mio padre non è andato perché non stava tanto [bene], non aveva tanta salute e aveva detto: io in giro per il mondo non vado più. E allora, dopo... Però respingevano le domande, subito non le davano a nessuno, [le davano] solo a chi volevano loro, solo a chi non gli interessava, più di tutto. Lì nel mio paese in quegli anni, nei primi anni, l'avevano data a un italiano che in tempo di guerra era militare lì e si era sposata con una del paese, e poi c'era un altro, un vedovo, che aveva i figli a Trieste. Solo questi due sono andati via dal mio paese, in quei primi anni. E invece dopo, piano, piano, hanno incominciato a lasciare, a lasciare sempre più, ma già si parla del 1959-1960. Tanto dopo, tanto dopo sono venuti via da noi. Coca che c'era a Rovigno, Pola, beh, quei là s'è andai via subito, nel '47. Son andai via con le navi, con ste robe lì. Ma tuti quanti lo sapevamo che andavo via, saremo. Speremo che cambia, dicevamo, speremo che cambia, speremo che vanno via , speremo che torni [l'Italia], perché ogni tanto se leggeva sul giornale de Italia, che forse passerà sotto l'Italia."

30) Quindi c'era sempre la speranza di un ritorno dell'Italia...

R.: "Si, si, ma sempre! Mio cognato, lui era del '19 ora è morto, ha detto: io ho sempre speranza che tornerà Italia. Si pensava quello. Quando sono andati a optare, si pensava che basterebbe optare e che percentuale, si vince percentuale e che vince e ritorna di nuovo l'Italia. E invece no."

31) Prima parlando della Jugoslavia mi diceva che non c'era niente, che mancava tutto, che i negozi erano vuoti...

R.: "Si, si, tutti vuoti, tutti vuoti. I'era solo la foto de Tito dentro! Quella i'era sempre! Ma non c'era niente, i'era solo per chi che lavorava. I'era per quei che lavorava in cooperativa, perché dopo hanno fatto la cooperativa... Hanno fatto la cooperativa e volevano che entrano tutti in cooperativa i contadini, quello volevano. E invece non volevano andare la gente, Cioè [entrare in cooperativa] comunque non era forzato, però per una migliore vita - e lo dicevano quando che facevano le conferenze [gli esponenti del partito]- dicevano che sarebbe da andare in cooperativa. E invece [la maggioranza] non è voluta andare, e dopo pochi anni la cooperativa è andata completamente dimessa."

32) Parlando sempre della Jugoslavia, molti testimoni da me intervistati ricordano l'esistenza di una pratica chiamata lavoro volontario. Lei se la ricorda?

R.: "Uh, si, si, si, altrochè! Era volontario, però i'era forzato! [Se non partecipavi] i'eri mal visto che non vuoi andare ad aiutare!Rifacevano il palazzo grande, dove che pensavano che doveva venire l'ammasso [che doveva essere sede dell'ammasso] e c'era un magazzino e allora sto magazzino bisognava farlo. E all'epoca soldi non c'era e allora loro venivano per la case a domandare chi voleva andare a fare il volontariato. Si, questo si, c'era. E uno era spinto ad andare, perché [ti dicevano]: perché ti non te vole andar? Allora sei contrario, allora sei contrario a questo regime e quindi si andava. Si andava un giorno, la domenica o il sabato mattina fino a mezzogiorno. Poi, per andare ai lavori... Se doveva4no fare una ferrovia da Luculliano ad Albona, sii doveva fare una ferrovia perché ad Albona c'era una miniera di carbone e volevano fare sta ferrovia, portarla sulla linea principale del treno. E allora là portavano via gente, li venivano a prendere e li portavano lì che lavorano a gratis. Ha visto?"

33) Qualcuno mi ha parlato di assistenza subito dopo la guerra, di pacchi...

R.: "Ah, arrivavano, però anche lì c'era chi i'era più povero. Però si, si, questo c'era, venivano [arrivavano] i pacchi di roba, vestiario e queste cose qui. Anche di mangiare... I pacchi dell'UNRRA. Però, cosa succedeva? Secondo me quella roba là, restava per i militari, perché quando che io ero militare, avevo aperto i pacchi che erano ancora dell'UNRRA americana! Che c'era scritto su: urgente al popolo jugoslavo, era scritto sopra. Pensi lei quanti anni dopo! Io ero militare... I'era [dentro] il formaggio, formaggio giallo, che buono! Quando ero militare, nel '57, me lo mangiavo, andavo in magazzino a prelevarlo... Che sui sacchi dei pacchi scrivevano urgente al popolo jugoslavo, in aiuto al popolo jugoslavo."

34) L'ultima cosa che le chiedo sulla Jugoslavia riguarda la religione. Sono molti i testimoni che raccontano di come fosse proibito andare in chiesa. Lei in proposito cosa mi dice?
R.: "Ah, la religione... Chi era in partito comunista, non doveva andare a messa, prima di tutto: né preti, né niente. Ma anche chi che non era iscritto, chi lavorava, chi era direttore e queste cose qui, senza che gli dice nessuno niente lui non andava a messa, non parlava coi preti, non doveva andare. C'era un nostro parente, un cugino di mio cognato, che era direttore di un supermercato. E una volta mio cognato era andato a trovarlo e loro ascoltavano il telegiornale. Però questo signore ha detto: mi non capisco niente, provo a mettere sull'Italia [sul canale italiano], perché prendeva anche la stazione italiana. E allora c'era il giornale radio e si è presentato un prete sulla televisione e allora cosa ha fatto questo cugino di mio cognato? Ha chiuso la porta e ha detto: silenzio, che non si dica che qui dentro guardo la televisione italiana, coi preti poi! Questo era! Dopo mio cognato si meravigliava, diceva ma come mai fa così? Come mai, domandava, devi stare via dalla chiesa e tutto quanto? Oh, ma c'era anche tanti che... Ad esempio, se un ragazzo chiamava altri ragazzi per andare a messa, tante volte lo chiamavano su alla polizia e lo mettevano anche dentro, si. C'è un mio paesano che abita a Torino anche lui, che lui era un po' più di chiesa [di me] e gli avevano detto: tu non devi tanto chiamare gli altri per venire a messa. Chi vuole va. Ma solo chi vuole. E lui gli ha detto: io vado sempre da solo e non chiamo nessuno."

35) Parlando, prima, ha accennato alla rottura tra Stalin e Tito del 1948. E' il periodo, quello, della persecuzione verso gli stalinisti tra i quali vi erano anche i cosiddetti monfalconesi. Lei ricorda se queste persone sono arrivate anche nel suo paese?

R.: "Ah, quei de Monfalcone, si, si, ho inteso. Però quei là sono andati a finire ad Albona oppure nelle fabbriche, ma nel mio paese no, no. Però ad Albona in miniera sono arrivati certi di loro. Perché poi anche in miniera ti forzavano ad andare a lavorare: mio fratello, ad esempio, ha dovuto andare a lavorare ad Albona in miniera forzatamente. Perché ti mandavano l'avviso, dopo ti chiamavano in ufficio la polizia e dopo ti facevano firmare davanti a loro [un documento] che dovevi andare in miniera. E tu dovevi firmare se no restavi dentro. E lì, mi ha detto mio fratello, sono venuti [anche] questi di Monfalcone, che mi contavano che loro si lamentavano tanto, sia sul cibo, sia sulla paga, sia sul trattamento. Insomma, su tutto! Dicevano: avemo lasciato questa roba qua e adesso guarda che roba! Poi in Jugoslavia non i'era cosa mangiare i primi anni, niente! Ti davano invece del pane... Invece del pane ti davano la polenta!"

36) Parliamo ora dell'esodo. Mi accennava prima di come il suo paese si sia svuotato...

R.: "Ah, si, si, piano pianino si è svuotato."

37) Come mai secondo lei la gente ha deciso di andare via?

R.: "Perché andavano meglio, [andavano in cerca di un] miglioramento. Appena che si andava via... Noi eravamo giovani ancora e già prima avevamo tentato di andare oltre il confine... "

38) Sono stati tanti i tentativi di fuga...

R.:"Oh, si capisce! Un mio parente, lui è scappato, proprio."

39) E come si scappava?

R.: "Eh, di notte si andava oltre il confine a piedi. Poi se ti prendevano facevi il giro: andavi a Capodistria, poi da Capodistria si andava a Sesana, da Sesana si andava a Pola e poi da Pola ti mandavano a casa. Facevi un quindici venti giorni di questo qua [di questa trafila]. La prima volta, seconda volta no, ei te mettevan dentro per un mese o due. Una volta quando che c'era il confine, il Territorio Libero, c'era tanti ragazzi che andavano a prendere [delle cose], perché in Territorio Libero c'era di tutto. C'era zucchero, farina, riso, come qui in Italia. Andavano e venivano di qua, perché oltre il confine non era difficile andare, perché noi vedevamo come che passavano i militari, avevamo il bosco proprio sul confine e io vedevo benissimo come che passavano. Non era difficile andare oltre e tornare. Si andava a prendere [delle cose] e portavi. Poi proprio in paese, avevamo dei terreni oltre, oltre il confine, e allora cosa succedeva? Che andavi in campagna e portavi la roba in Jugoslavia, però c'era un controllo enorme! Pensa che... Allora, da noi si lavorava in campagna e c'era l'abitudine, quelli che lavoravano nei campi, di portarsi il pranzo in campo. E per andare a lavorare passavi sul blocco [davanti al posto di blocco] della finanza. [Quando passavano davanti] dovevano mettere giù la cesta [con la roba da mangiare] e lo sai che [la finanza] passavano con la forchetta sotto la pasta e la alzavano su per vedere se sotto nascondevi qualcosa?"

40) Qualcuno, comunque, riusciva a scappare?

R.: "Si, si, ma gliene son stati tanti di morti però, eh! Tanti sono morti scappando. Gli sparavano. Perché credo che è stata una spia. Una volta c'erano dei ragazzi che erano tutti quanti di Pisino, di Albona, erano in diciotto, e qualcuno - credo proprio quello che li portava oltre [confine] - ha fatto la spia. E allora sono arrivati vicino a Piemonte, un paese, e sul confine li aspettavano e li hanno ammazzati tutti. Poi te voglio dire de mia sorella, che anche lei andava in Territorio Libero, in Zona B. Che Zona B era de Trieste fino all'Isonzo. E ste due zone facevano da cuscinetto tra Italia e Jugoslavia. E allora questa mia sorella è andata giù a Buie dove avevo un'altra sorella là. E [mentre andava] la polizia l'hanno vista e le hanno domandato i documenti. Lei ha detto che non li aveva e allora l'hanno portata dentro e da lì l'hanno presa, l'hanno portata da Buie in Jugoslavia. E le hanno dato due mesi di carcere. Allora le han domandato se vuole fare la cuoca e le pulizie - perché avevano bisogno di una che facesse la cuoca e le pulizie - e lei ha fatto la cuoca e le pulizie due mesi. Dopo che ha finito i due mesi, ha dovuto andare sulla ferrovia Albona-Luppulliano a lavorare a gratis!"

41) Il suo paese si è svuotato tardi, dicevamo. Ma come mai la gente andava via?

R.: "Ma, io quello che vedo è che italiano là oramai non era calcolato più nessuno, perché tutti quanti, automaticamente, abbiamo perso la cittadinanza. E allora là italiano non era nessuno. Però per le carte sì, quelli che avevano optato avevano sempre diritto della cittadinanza italiana. E allora dopo, questi che avevano optato prima hanno fatto il ricorso di andare intere famiglie, però tra intere famiglie non c'erano tanti che andavano via. [Ad andare via] era più la gioventù. E dopo che è andata via la gioventù, la vecchiaia [gli anziani] sono morti e adesso c'è tutte le case che cadono giù!"

42) Lei quando è andato via?

R.: "Io sono andato via nel 1961."

43) E qual è stato il motivo che l'ha fatta partire?

R.: "Eh, il motivo, il motivo... L'Italia era il motivo, sempre! La guardavamo sempre come la nostra patria, è inutile star lì [a discutere]! Che anche prima di andare via, noi abbiamo cercato di collegarci per scappare, ma non abbiamo [siamo] riusciti... Non siamo riusciti a trovare la guida che ci portasse oltre, perché il confine era a Skofije. Perché se fosse rimasto il confine che c'era prima [vicino] al Territorio Libero, allora lì andavamo come niente perché lo conoscevo, però l'altro si doveva passare tutto... Si doveva andare a piedi, poi lì c'era la polizia. E la polizia c'era sempre... Anche sul pullman che si andava, perché c'era il pullman che da Zona B andava a Trieste, però i poliziotti - in borghese - loro già conoscevano tutta la gente che va dalla Zona B alla Zona A e quando ti riconoscevano - subito - ti domandavano le carte. Poi [soprattutto se eri] giovane ti vedevano e ti domandavano le carte, sapevano che tutti andavano via... Quando è andato via lo zio di mia moglie... Quella volta sono andati via de Umago una decina di persone... Noi comunque siamo andati via per l'Italia... E poi [siamo andati via] perché vedevamo che in Italia il vitto era migliore, vedevamo quei ragazzi che appena andavano via si compravano le Vespe, venivano con le Vespe ben vestiti e ben sistemati. Poi il lavoro c'era, c'era lavoro [in Italia] tanto che volevi e noi eravamo abituati a lavorare, lavorare pesante in campagna e non ci dava fastidio lavorare nelle fognature o negli scavi dove che c'era da lavorare. Fare i muratori, i manovali, su quello non avevamo paura! E poi anche lavorare in fabbrica: quello per noi era un gioco!"

44) Lei va via nel '61...

R.: "Si, vado col passaporto turistico, quella volta."

45) Va via con la famiglia?

R.: "No, solo io, col visto turistico. Da Portole vado fino a Trieste, perché a Trieste avevo tutti i parenti. Son venuto a Trieste [dove c'era] mio cugino che veniva sempre in Istria [e mi diceva] vieni lì che poi faremo, che poi vedremo."

46) Quindi qualcuno della sua famiglia era già partito...

R.: "No, della mia famiglia nessuno, però mio zio - lui era del '04 - è andato prima. I miei zii sono andati via prima, poi anche due sorelle sono andate prima. E allora io sono andato prima da mio cugino a Trieste e lì sono stato un po' di giorni, mi sono annunciato come turista a Trieste e dopo sono andato a Torino [dove c'era mia sorella]."

47) E a Trieste dov'è stato? Al Silos?

R.: "No, dopo, dopo... Quella volta sono venuto come turista, due mesi. Ho fatto un po' come turista e ho girato: son venuto a Torino da mia sorella che era qui. E allora mio cognato mi ha detto che se volevo restare lui mi faceva la garanzia. E quando che uno aveva la garanzia di un genitore, o di un fratello o della sorella allora poteva rimanere. E allora, dopo, son tornato a Trieste, sono andato in questura a denunciare [che ero in Italia] e a chiedere asilo politico. E me lo han fatto subito. Mi hanno dato i documenti e mi han detto: va bene, resti qui. E poi, allora, da là sono andato in campo straniero."

48) In che campo è andato?

R.: "Campo straniero di San Sabba."

49) Ah, alla Risiera...

R.: "La Risiera, proprio là. E là c'era tanta gente. Erano tutti quanti... Oramai non eravamo più cittadini italiani, eravamo tutti croati: jugocroati avevamo scritto sulla carta d'identità."

50) Riesce a descrivermelo questo campo?

R.: "Eh, sto campo era... Per noi andava bene... C'erano delle stanze grandi dove dormivano dieci persone, dieci ragazzi e anche più. Le celle erano da un'altra parte [del campo], noi stavamo dove c'era la caserma. Dove che c'era il forno, ma adesso han buttato giù tutto, ma mi sembra che dove stavo io c'era la caserma in tempo di guerra. E noi dormivamo lì, eravamo tanti. Famiglie poche, poche famiglie. Di famiglie molte venivano dal Sansego, un'isola vicino a Lussimpiccolo, ma loro andavano per la più parte a finire negli Stati Uniti. Loro avevano i suoi parenti là e andavano negli Stati Uniti: [a Trieste] stavano due mesi, finché non trovavano i documenti [non erano pronti i documenti]... [Stavano lì a San Sabba] fino a che non passava l'Interpol, perché passava l'Inerpol per farti prendere l'asilo politico, che ti chiedevano se veramente eri contro quel regime lì, perché non a tutti gli davano asilo politico. A certi davano solo la possibilità di lavorare."

51) A San Sabba quanto è rimasto?

R.: "Due o tre mesi, il tempo delle carte. Poi di là sono andato a Capua in un altro campo. Perché San Sabba era un campo di smistamento. A San Sabba c'era da aspettare, nessuno andava fuori da Trieste, libero da andare in un altro paese. E a Capua si poteva emigrare in altri paesi: Canada, Stati Uniti, Australia, Svezia, Norvegia e tutti sti paesi qua. [Il campo] era una caserma di militari, che cè ancora adesso, ci sono i polacchi: fino a dieci anni fa, mi aveva detto uno di Capua che dentro c'erano i polacchi. Erano delle caserme, [dove] noi stavamo dentro ad aspettare che arrivasse la commissione. Chi era destinato ad andare in Australia [ad esempio] veniva la commissione australiana a prendere tante persone, [poi] venivano quelli del Canada e facevano altrettanto e si aspettava in campo e poi si andava via. Chi andava in Australia andava poi a Latina [nel campo di Latina], mentre chi andava da qualche parte in Italia restava [ad aspettare] a Capua. E allora, dopo che sono stati fatti i documenti mi han mandato via, mi han mandato qua [a Torino] e mi han detto di andare in questura a Torino dove mi avrebbero dato il foglio di soggiorno. E qui c'era mia sorella, che stava al Villaggio [di Santa Caterina]."

52) Se lo ricorda com'era Santa Caterina all'epoca del suo arrivo?

R.: "Io arrivo nel 1962. Era tutto campi, si capisce! Strada Altessano erano tutti campi, dove che [adesso] c'è quella pasticceria [la pasticceria Rosario in via Sansovino] era tutti campi, dietro la chiesa era tutto campi, anche. Non c'era niente!"

53) Qui a Torino ha lavorato?

R.: "Appena che sono arrivato, dopo otto giorni sono andato a lavorare subito. [Sarei dovuto] andare alla RIV, perché c'era mio cognato che lavorava là ed era andato a parlare con l'ufficio dell'assunzione [ufficio del personale] che gli avevano detto che per loro andava bene. Allora ho fatto la domanda, vado là tutto contento di andare a lavorare alla RIV, mi hanno dato il foglio di assunzione e mi hanno detto di andare all'Ufficio di collocamento dove mi avrebbero dato il nullaosta e poi sarei dovuto ritornare lì. Allora io vado - tutto contento - all'Ufficio di collocamento, gli do il foglio e l'impiegato mi dice: ma tu sei profugo, sei fratello della signora M.. Ho detto: si! Eh, caro mio, lo sai [mi dice l'impiegato] che io non posso darti il foglio per lavoro perché tu non hai la cittadinanza italiana? Io so che tu sei italiano, però qui c'è una legge che vale solo per i nostri italiani, non dipende da noi. Perché ci sono tanti italiani che vanno fuori a cercare lavoro... Se io avessi avuto un mestiere in mano come un elettricista o un meccanico si sarebbe potuto fare qualcosa, ma così come manovale l'impiegato ha detto di no."

54) E quindi cosa ha fatto?

R.: "Quindi sono stato annullato dalla RIV, ma ho lavorato comunque sotto l'impresa, sotto un'impresa che lavorava per la RIV. E dopo son tornato di nuovo all'impresa e ho lavorato fino a che non ho preso la cittadinanza, perché dopo per fortuna è venuta fuori una legge. Perché come c'era talmente tanta gente che erano jugoslavi, cioè che automaticamente erano diventati cittadini jugoslavi, che hanno fatto una legge che chi era già cittadino italiano, gli dovevano dare la cittadinanza, E allora con quella legge là, abbiamo avuto la cittadinanza e dopo sono andato alla Fiat. Alla Fiat Ferriere, in fonderia."

55) Come ha fatto a trovare lavoro alla Fiat?

R.: "Ma, quella volta... Fiat avevo fatto la domanda, perché prima mi son fatto due mesi a Milano, ma poi ho fatto la domanda... "

56) Ma non ha avuto raccomandazioni? Che so, ad esempio da don Giuseppe come molti suoi compaesani...

R.: "Uh, don Giuseppe! C'era, c'era... Don Giuseppe aiutava, si, si. Io penso però che aiutava chi diceva lui, penso di si... Poi c'era anche un altro dottore... Però il prete aiutava, mandava la lettera e se andavi in ufficio con la sua lettera eri già assunto!"

57) Posso chiederle come è stato accolto al suo arrivo in Italia?

R.: "Mah, qua a Torino hanno accolto abbastanza bene i profughi: non rompere le scatole e neanche io te le rompo a te. I piemontesi sono così. Ma invece a Milano no."

58) In che senso a Milano no?

R.: "Eravamo più malvisti. [Ad esempio] io a Milano sono andato a lavorare alla Triplex , facevo il camionista, e già uno [mi diceva]: ah, quello lì viene dalla Jugoslavia! Voleva dire che siamo raccomandati, che il governo italiano ci dava tutto quello che chiedevamo. E poi - i primi tempi - dicevano anche che gli portavamo via il lavoro. E poi a Bologna... "

59) Ecco, Bologna... C'era lo stereotipo che foste dei fascisti... Le è mai capitato?

R.: "No, no, a me no, perché dopo avevano già capito che non era vero, però i primi si, i primi che arrivavano si. A Bologna non volevano darle neanche l'acqua! Ma questo lo avrà già saputo."

60) Qui a Torino posso chiederle come passava il suo tempo libero?

R.: "Eh, caro mio! Ero come un pesce fuori dell'acqua! Andavo via alle sei e entravo a casa alle undici la sera, dalla mattina alla sera. Lavoravo con l'impresa che guadagnavano metà soldi di quelli che lavoravano alla RIV. Facevo l'operaio. Anche perché per andare a lavorare nell'impresa, siccome non avevo la cittadinanza, ci doveva essere una persona di fiducia che garantiva per me. E allora io ho fatto la richiesta e l'ufficio di collocamento mi aveva dato il nullaosta."

61) Lavorava sempre, quindi non aveva tempo per il cinema...

R.: "Il cinema non mi è mai piaciuto."

62) E a ballare andava?

R.: "Ballare... Qui era diverso, c'era già il twist e tutte quelle cose che da noi non si ballava. Da noi c'erano le mazurke, le polke, i valzer, era tutto diverso. Qui invece c'era il twist, il mambo e non ero capace."

63) Posso chiederle che effetto le ha fatto passare dalla Jugoslavia a Torino?

R.: "Eh, dalla Jugoslavia venire a Trieste si, mi ha fatto effetto. Io in Jugoslavia ho fatto il militare a Spalato, che Spalato è una città [tre le] migliori della Jugoslavia, però quando sono venuto in Italia son rimasto con la bocca aperta. A Trieste vedere tutte queste vetrine, sti negozi, tutta sta roba che c'era, mamma mia! Mai più torno indietro! Trovarsi le scarpe che volevi, gli stivali per lavorare, mamma mia! Mai più vado là [in Jugoslavia] dicevo!"

64) Lei quindi non ha nostalgia del suo paese?

R.: "Beh, nostalgia di dove si nasce si sente un po'. Io ritorno, ho una casetta anche. Nostalgia ne ho, nostalgia del paese si, ce l'ho. Solo che è un'altra cosa. Quando sono arrivato a Trieste era meglio. Torino è troppo grande, invece Trieste te la puoi girare a piedi. A Torino giravo di meno, potevi girare di meno a piedi. Dopo tanto tempo, però non penso a tutta questa nostalgia, però ritorno ogni anno. Ho la casa, ho un orto, ho mia cognata là vicino. Però non è il mio paese, è più vicino al mare e allora - anche perché ai figli gli piaceva andare al mare - abbiamo preso una casa al mare, anche perché dopo la guerra in Jugoslavia si poteva comprare. Per comprare dovevi fare la cittadinanza croata, ma adesso si può comprare anche come cittadino italiano. Eh, no, no, quando che l'ho vista per la prima volta, Trieste era... mamma mia!"

Gilda: "Guardi, le voglio raccontare una cosa: lui parla di Trieste, ma io son venuta da Pola a Milano. E la mia padrona, la persona dove sono andata a lavorare, mi ha portato al duomo, nelle piazze e poi in un magazzino: la Rinascente! Ma io soffrivo per la mamma, piangevo dentro, ma mi dicevo: cara mamma, con così tante belle robe non ritorno! Al primo stipendio che ho preso, l'ho speso in sta roba di biancheria intima, camicie e gli ho spedito felicemente, ma non sono più ritornata. E lei mi scriveva - non sapeva neanche scrivere, scriveva una sua vicina - che se io dovessi avere bisogno, lei mi spedirà tutto perché non avessi fame o cosa. Ma con tutta quella roba!"

R.: "Le dico ancora una cosa... Che non si doveva scappare via, perché se tu scappavi, ti mettevano in galera i genitori. Ah, si, si."
30/09/2010;


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Esodo in Piemonte, 2011


Miletto Enrico 25/11/2010
Pischedda Carlo 31/12/2010
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Come citare questa fonte. Intervista a Guido C.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD14594]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019