C00/00352/02/00/00001/000/0009
Intervista a Ernesto S.
Nasce a Jesolo nel 1935 da una famiglia contadina. Nel 1938 parte per la Libia, dove resta fino al 1940. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale è rimpatriato in Italia insieme ai bambini dei coloni libici, i cosiddetti ragazzi della quarta sponda. Arrivato in Italia è affidato agli organi assistenziali del regime fascista, ed ospitato nelle colonie di Diramare, Bari e Bordighera. Nel 1944 ritorna in Veneto da alcuni zii. Al termine del conflitto cerca di ritornare in Libia per raggiungere la sua famiglia, ma viene bloccato dalla polizia militare inglese, prima nel centro raccolta profughi di Bologna e, successivamente, in quello romano di Cinecittà. Nel 1947 riesce a riabbracciare la sua famiglia, rientrata in Italia e ospitata prima al centro raccolta profughi di Napoli e, successivamente alla Caserma Passalacqua di Tortona, dove si trasferisce e resta fino al 1953, anno che segna l'affidamento di un'abitazione INA Casas. E' stato intervistato il 31 maggio 2012. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?
R.: "Sono nato a Jesolo il 9 febbraio 1935."
2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...
R.: "La mia famiglia di origine è una famiglia di contadini: padre, madre e quando siamo andati in Africa eravamo nove figli. Poi lì ne è nato un altro, siamo diventati dieci figli."
3) Mi ha detto che siete andati in Africa. Posso chiederle quando e come mai?
R.: "Siamo andati quando Mussolini ha deciso di colonizzare la Libia e ha cercato delle famiglie di contadini da mandare in Libia. C'era una commissione che ha scelto le famiglie da mandare e tra queste è stata scelta anche la mia famiglia. Dico è stata scelta, perché le famiglie che hanno fatto domanda erano 6.000, mi sembra, più di 6.000, e hanno selezionato 2.000 famiglie, di cui 1.800 erano quelle che dovevano partire e altre 200 erano di riserva se qualcuna non dovesse partire. E [allora] nel 1938 siamo andati in Africa con la famosa trasferta dei 20.000, chiamati così perché avevano previsto di mandare 20.000 coloni per cinque anni in Libia, per colonizzare la Libia. E i primi 20.000 eran quelli, e c'era anche la mia famiglia, che è stata scelta. E' partita dal porto di Genova la sera del 28 ottobre, tanto per ricordare una data famosa e cioè la marcia su Roma, e dopo sei giorni circa sono sbarcati a Tripoli. A Tripoli c'è stato poi il discorso di Balbo con l'inaugurazione della statua equestre di Mussolini, per cui le famiglie che dovevano essere destinate alla Tripolitania sono scese dalle navi e avviate ai rispettivi villaggi, mentre quelli come la mia famiglia destinati in Cirenaica, si sono reimbarcate e sono scese a Bengasi. A Bengasi poi son state ospitate in un centro che raccoglieva queste famiglie a Barce e poi con un camion son stati ravviati ai vari villaggi e alle case che loro erano state assegnate. Erano poderi molto vasti, di trenta ettari ciascuno, e non tutta la terra era stata avvalorata, diciamo. Sarebbe stata avvalorata maggiormente in seguito se l'esperimento della colonizzazione fosse andato avanti. Invece poi la guerra, eccetera e altre vicissitudini lo hanno bloccato lì."
4) Mi ha detto che i suoi genitori son partiti. Posso chiederle come mai hanno deciso di partire? Lo hanno fatto sull'onda della propaganda?
R.: "Penso che la cosa principale fosse stata la crisi che c'era nelle campagne. I miei erano dei braccianti, dividevano la metà [del raccolto] con il proprietario della terra. Eravamo una famiglia numerosa e praticamente si lavorava per vivere e basta, altro non avanzavamo. Lì [in Libia] ci offrivano un podere di trenta ettari che poi dopo venticinque anni con il contratto - che poi il contratto bisogna esaminarlo bene, perché non è tutto rosa e fiori - si sarebbe potuto riscattare con i prodotti, che in parte si riscattavano e in parte servivano per vivere. Dopo venticinque anni sarebbe rimasto di proprietà della famiglia, e quindi c'era la prospettiva: da non essere padroni di niente, a essere padroni di qualcosa, c'era un vantaggio enorme. Infatti tante famiglie che son partite erano del Veneto, [proprio perchè] in quel periodo c'era una crisi molto grande della campagna."
5) Quindi sulla scelta la propaganda del regime secondo lei non ha influito. Comunque la propaganda c'è stata?
R.: "C'è stata, c'è stata, senz'altro. C'era una commissione che sceglieva le famiglie che dovevano però avere determinati requisiti: mio papà ad esempio ha fatto un corso di potatura, ha preso anche il diploma. [Erano corsi fatti per preparare] all'agricoltura coloniale. La campagna veneta era piena di questi coloni, l'agricoltura era la maggior risorsa [della zona]. E non è come adesso che hanno rovinato il paesaggio - secondo me -con tutte quelle fabbriche una dietro l'altra. Una volta il Veneto era migliore...Oltre tutto fabbriche lungo la strada, [costruite] dove c'erano degli alberi, e quindi la strada è già stretta, ti trovi fabbriche di qua e di là e - tanto per dire - non c'è stata neanche la possibilità di allargare la strada."
6) Arrivati in Libia, le vostre aspettative sono state disattese oppure no?
R.: "No, in principio no, perché i coloni erano assistiti dall'Ente per la colonizzazione della Libia, che aveva i suoi agronomi, il suo capo zona, il suo capo del villaggio che dava le disposizioni di come doveva essere trattata la terra, di cosa si doveva seminare eccetera. Venivano aiutati nella sussistenza da questo ente per i primi periodi. Solo che [sono arrivati alla] fine del '38, poi il '39 e poi nel '40 è scoppiata la guerra...[Quindi] non hanno avuto neanche il tempo di radicarsi un momento che poi han dovuto fare fagotto nel '42. Quelli della Cirenaica, specialmente la mia famiglia."
7) Mi ha detto che molti dei coloni arrivavano dal Veneto. Credo però che altri arrivassero anche dalle diverse regioni italiane. E' in grado, a grandi linee, di fornire una mappatura delle regioni rappresentate?
R.: "Si, io ho della documentazione...C'è un volume che è stato emesso dal governo della Libia sull'emigrazione del '38 che ho trovato a Trieste un po' di anni fa, e lì c'è proprio un resoconto, quanti ce n'erano e quanti non ce n'erano. Il 60% delle famiglie che sono andate nel '38 erano veneti. I lombardi erano pochi, c'erano tanti emiliani, perché Mussolini era di quelle parti. E poi meridionali anche, erano parecchi anche i meridionali. Comunque quello che spingeva ad andare via era principalmente il bisogno. Non era l'avventura, diciamo. [Non si partiva con l'idea di dire] vado lì e poi vediamo. Magari qualche famiglia ci sarà stata, ma dal Vento a far partire era proprio quello, il bisogno."
8) Mi diceva che c'era proprio un ente preposto all'assistenza dei coloni?
R.: "C'era l'ente di colonizzazione della Libia. Anzi, erano due gli enti: l'ente di colonizzazione della Libia e l'Istituto nazionale fascista della previdenza, che [però] aveva un ruolo minore rispetto all'Ente di colonizzazione della Libia. Questi due enti gestivano questi coloni nei vari villaggi attraverso organi propri e rispondevano al Ministero della colonie."
9) Perciò, appena arrivati, i coloni venivano indirizzati e assistiti...
R.: "Si, si, avevano il loro libretto nel quale c'erano i versamenti che facevano, quello che prelevavano, il prodotto che conferivano, eccetera. C'era un'assistenza e quelli dell'Ente della colonizzazione li assistevano anche nei lavori, dicevano come doveva essere impiantato anche il podere, quali prodotti si voleva ottenere anche secondo le zone. Che poi molto dipendeva anche dall'acqua: per esempio in certi villaggi c'era l'acqua, perché avevano trovato dei pozzi e hanno distribuito l'acqua, [mentre] dove c'era la mia famiglia l'acqua non c'era. Però nel '40 il fascismo ha progettato e stavano costruendo un acquedotto che avrebbe dovuto prendere l'acqua sopra Derna - una delle due città della Cirenaica - dove c'era una fonte. E quando l'acquedotto sarebbe stato costruito, avrebbe fornito l'acqua a tutti questi villaggi. Nel frattempo, dove mancava, la portavano con delle botti. E la cosa particolare di questo è che uno di quelli che aveva avuto l'appalto per trasportare l'acqua, era niente meno che colui che aveva assassinato Matteotti. Dumini, Ambrogio Dumini, che aveva avuto anni prima, nel '36, una concessione in Cirenaica, poi gliel'han tolta nel '39 perché l'han dato a delle famiglie del secondo viaggio che han fatto i coloni...C'è questa particolarità."
10) Lei ha usato il termine viaggio. Vista la sua giovane età credo che possa ricordarsi molto poco, però a me interesserebbe sapere com'è stato il viaggio della sua famiglia da Genova a Tripoli...
R.: "No, non mi hanno raccontato niente i miei, e io non mi ricordo, ero piccolissimo."
11) Torniamo per un attimo all'assistenza che, se non ho compreso male, era estesa a tutti i villaggi...
R.: "Si, si, ogni villaggio aveva la sua scuola, poi c'era il prete, l'ostetrica, il medico. Era proprio assistito, ogni villaggio aveva i suoi supporti logistici. Era tutto organizzato, no, no."
12) Prima mi diceva che però non si fa in tempo ad arrivare che nel '40 scoppia la guerra...
R.: "Mussolini vede che i tedeschi fanno fuoco e fiamme, che mettono a tacere la Francia e lui vuole sedersi al tavolo dei vincitori, come aveva fatto Cavour una volta. Cavour ha partecipato alla guerra di Crimea, e lo ha fatto con lo scopo di essere riconosciuto come Stato. Gli è andata bene perché han vinto e lui si è seduto [al tavolo dei vincitori], ha presentato il problema dell'Italia e poi dopo lo ha risolto. Mussolini voleva fare la stessa cosa: basta un migliaio di morti e io mi siedo al tavolo dei vincitori. Figuriamoci, i tedeschi! Noi eravamo impreparati a tutto quanto, si sa benissimo come è andata, ma questo è un problema degli storici...Comunque Mussolini ha pensato bene, due mesi prima di dichiarare [l'entrata in guerra dell'Italia], di rimandare addirittura in Italia tutte le famiglie, di evacuare la Libia. Li aveva mandati nel '38 e aveva speso un sacco di soldi, con un bordello di notizie e di propaganda, e poi voleva addirittura mandare via le famiglie. Invece quelli degli enti gli han detto ma come, mandate via le famiglie e tutta la roba noi la perdiamo. Poi ci ha ripensato, e ha detto che tutte le famiglie che restano lì producono e danno anche dei prodotti che non c'è bisogno di importare dall'Italia. Allora ha pensato di dire: mandiamo in Italia i bambini, dai quattro ai quattordici anni. Han pensato e poi a fine maggio del '40 - infatti le scuole sono finite a fine maggio - tutti i bambini dai quattro ai quattordici anni sono stati mandati in Italia."
13) Come avveniva il rimpatrio?
R.: "Ci venivano a prendere...Avevano dato delle disposizioni che a una certa data i bambini dovevano trovarsi o a Tripoli da dove partivano quelli della Tripolitania, oppure a Bengasi o a Derna. Dovevano trovarsi pronti, passavano i camion militari che li caricavano su a li portavano al porto. Poi in Italia venivano presi in consegna dalla Gioventù Italiana del Littorio,che era quella che gestiva la gioventù in Italia, che li ha sistemati in trentasette colonie lungo tutto l'Adriatico. Non tutte queste colonie erano della Gioventù Italiana del Littorio, qualcuna era di qualche ente come non so, la Croce Rossa o le Ferrovie che le hanno messe a disposizione. [In realtà] le han dovute mettere a disposizione, perché se no le portavano via. Molte però erano degli organi provinciali della Gioventù Italiana del Littorio che avevano la loro colonia lungo l'Adriatico."
14) Lei si ricorda quando è partito?
R.: "Si. Sono partito con una sorella. Guardi, l'unica cosa che mi ricordo della Libia è quando sono partito. Sono partito e niente, sono arrivati i camion e prima di caricarci un mio cugino che anche lui veniva con noi, mi ha detto: vieni qua che almeno ti insegno ad allacciarti le scarpe. Mi ha insegnato ad allacciarmi le scarpe, ho questo ricordo qui. E poi, diciamo, che siamo partiti. Ricordo quando ci hanno caricati sul camion militare. E poi i miei genitori parlavano del Ciglione di Derna, che era famoso perché la collina era tutta non di terra ma di roccia, e poi i ricordo quando ci siamo imbarcati. Ci hanno imbarcati, ma bisogna tenere presente questa questione, [e cioè] che il porto di Derna, da dove siamo partiti, non aveva l'attracco vicino alla terra perchè non c'era il ripescaggio delle acque e le navi dovevano stare un po'allargo. E allora ci caricavano a bordo della barche, le cosiddette maone, che servivano al trasporto delle merci. Mi ricordo solamente questo particolare, che io però non ho visto, perché probabilmente sono capitato in mezzo e piccolo com'ero, avevo cinque anni, non vedevo. Poi quando mi hanno caricato sulla nave mi ricordo molto bene - perché mi era rimasto impresso [facendo] la scalinata che portava sulla nave - guardando giù [in basso] la profondità del mare, quel colore verde e azzurro che mi era rimasto proprio impresso e che io non avevo mai visto. Del viaggio non mi ricordo proprio niente, e poi sono andato a finire in una colonia che era Miramare di Rimini."
15) Lei, mi diceva, è partito con sua sorella...
R.: "Una sorella e due fratelli, due cugini e una cugina."
16) Alle famiglie cosa veniva detto quando siete partiti?
R.: "Veniva detto che eravamo mandati per un periodo di tempo in Italia. Come motivazione [della partenza] dicevano che partivamo per rinfrancare lo spirito delle persone. Era una breve vacanza, doveva essere una breve vacanza, visto che saremmo dovuti ritornare dopo quaranta giorni. Invece han fatto questo perché sapevano già che il teatro di guerra quando l'Italia sarebbe stata in guerra era là, era l'Africa, la Cirenaica, perché lo scopo di Mussolini era quello di invadere l'Egitto e l'Inghilterra."
17) E di ciò le famiglie non sospettavano nulla?
R.: "Eh, le famiglie...Alle famiglie avevano detto una cosa, e cioè che non era proprio obbligatorio mandare i figli, però diciamo che tutti quelli dei contadini e dei coloni sono stati mandati tutti, mentre quelli delle città chi non ha voluto non li ha mandati. Però, dicevano, che chi li tiene a casa risponde lui delle conseguenze. Comunque si sapeva che la guerra sarebbe stata là, solo che si sperava in una guerra breve, in una guerra lampo e quindi poi saremmo ritornati."
18) Qual è stato il suo percorso?
R.: "Partiamo da Derna e attracchiamo a Bari. Di Bari non mi ricordo niente, però ho letto delle testimonianze di gente che era più grande di me che entrando nel porto di Bari siamo andati a finire in mezzo alle mine, perché avevano già minato il porto di Bari. E dovevamo essere sempre tutti pronti con il salvagente, perché non si sapeva mai [cosa potesse succedere]. Magari le mine [potevano] scoppiare...Per fortuna non è successo niente e all'indomani sono intervenuti i rimorchiatori che hanno tirato via la nave, che si chiamava Marco Polo ed era una nave ospedale. Ci hanno tirato fuori dal porto e poi siamo sbarcati e col treno siamo poi andati fino a Rimini."
19) A Bari avete ricevuto qualche tipo di assistenza?
R.: "Si, si. So da documentazione che ho trovato, che c'era i plotoni, cioè circa trenta bambini con un'assistente e c'erano anche alcune madri al seguito che magari non avevano altri figli [lì in Libia] e sono rientrate in Italia anche loro."
20) Da Bari dove siete poi andati?
R.: "Ci hanno messo su un treno, subito, abbiamo viaggiato la notte, e siamo arrivati a Rimini il 9 di giugno 1940. Il giorno dopo tutti a sentire la radio...E lascio immaginare le scene, specialmente dei più piccoli...Perché anche i più piccoli si sono subito resi conto che era difficile che noi saremmo rientrati in Libia, perché gli inglesi erano i padroni: avevano la flotta più potente del mondo e loro la guerra l'han vinta con la flotta."
21) Aleggiava quindi uno stato d'animo di preoccupazione tra di voi...
R.: "Nono lo so, perché io ero piccolo e non è che sappia. Lo stato d'animo è diventato brutto dopo, quando ci siamo resi conto che non saremmo più rientrati."
22) Lei dunque va a Miramare in una di queste colonie. Se la ricorda?
R.: "La colonia era bellissima. Era una colonia della Gil a cinquecento metri dal mare, che si trattava di oltrepassare la litoranea e poi si era subito [in spiaggia]. C'è ancora questa colonia, è tutta diroccata e adesso stanno decidendo che cosa vogliono farne, perché è passata in proprietà della regione Emilia e vogliono adibirla a qualcosa."
23) In colonia era da solo oppure c'erano anche i suoi fartelli?
R.: "Lì tenevano separati maschi e femmine, però eravamo nella stessa colonia, e ci siamo stati quattro mesi."
24) La vita in colonia come si svolgeva?
R.: "La vita era normale, era quella tipo militare: al mattino suonavano la sveglia, poi bisognava essere pronti e prepararsi per l'alzabandiera e poi colazione e marce. Si faceva quella vita, ogni giorno era così. C'erano le educatrici e non c'era però ancora la scuola perchè non ci avevano pensato, dal momento che avevano detto che entro tre mesi si doveva rientrare, e quindi il problema della scuola non si poneva. Il problema della scuola si è posto dopo, passati i tre o quattro mesi, cioè quando il regime ha dovuto anche riorganizzare il sistema delle colonie. Perché certe colonie - come ad esempio la mia - non avevano il riscaldamento e quindi dovevamo essere trasferiti. E infatti siamo stati trasferiti in Puglia: sono andato a finire in una colonia che questa si che era sul mare. Era fatta a metà rettangolo, che i due lati minori andavano a finire proprio sulla spiaggia."
25) Dov'era questa colonia?
R.: "Io pensavo che fosse proprio a Barletta, e invece ho saputo che la colonia si chiamava Giuseppe Barletta e si trovava alla Fesca, alla periferia di Bari, dove dopo hanno costruito la fiera di Bari, in quella zona lì. Tra parentesi, [quella colonia] alla fine della guerra è stata adibita anche come campo profughi. E siamo stati lì poco tempo, perché poi doveva essere più tranquillo, ma alla fine di ottobre Mussolini ha dichiarato guerra alla Grecia: spezzeremo le reni [all'Albania] diceva. E lì gli inglesi venivano a bombardare...Non era un obiettivo militare, ma se ci vedevano passare non è che distinguevano mica tanto, e ci mitragliavano, eh!"
26) Ha dei ricordi dei bombardamenti?
R.: "No, di quella colonia ricordo solo quel particolare che era sul mare e che c'era l'acqua che entrava nei sotterranei, ecco. Allora han deciso di spostarci in Liguria, e ci hanno mandati a Bordighera. A Bordighera - loro dicono che li hanno affittati, io dico che li han requisiti - ci han mandato in alberghi di lusso, dove andavano a soggiornare gli inglesi. Li hanno requisiti e hanno messo dentro questi ragazzi. E io a Bordighera ci sono poi stato quattro anni: ho fatto le elementari, ho fatto la comunione e la cresima."
27) In tutto questo periodo continuavate a mantenere rapporti con la vostra famiglia?
R.: "No, nessuno sapeva niente. Due volte - una volta a Rimini e una volta a Bordighera - ci hanno messo in comunicazione radio con la famiglia e noi mandavamo i saluti, ma non so se poi loro li avevano ricevuti. Loro [il regime] dicevano che la famiglia li aveva ricevuti, ma non lo sapevamo. Noi ci mettevamo in fila, ci presentavamo e mandavamo i saluti. [Questa scena] si vede anche in un documentario dove c'è una bambina bionda - che [tra l'altro] è di Torino - che saluta la famiglia. Poi le notizie erano quelle che dava il bollettino del partito."
28) A Bordighera lei inizia a fare una vita più normale, quindi...
R.: "Noi eravamo trattati come i prediletti. All'inizio come dei prediletti del regime. Cioè noi ricevevamo un'educazione fascista e militaresca, perché eravamo inquadrati come i militari: alzabandiera, marce e tutto quanto. Però poi abbiamo incominciato una vita normale con gli altri bambini. Ma a scuola andavamo solo noi, perché il regime aveva previsto che in ogni colonia ci fosse una scuola. Solo che a Bordighera è stato diverso, perché lì c'erano sei o sette alberghi che avevano questi bambini, eravamo 1.500 a Bordighera, 1.500 a Sanremo, un migliaio a Ospedaeltti, un migliaio anche a Mentone. E poi qualcosa anche in provincia di Savona, ma eravamo soprattutto concentrati lì. E quindi non potevano fare sei scuole in ogni albergo, e allora han preso un albergo e lo hanno utilizzato come scuola. E noi al mattino andavamo a piedi, incolonnati, in marcia, e andavamo lì, che non passava il bus a prenderci! E quando pioveva stavamo a casa, eravamo tutti contenti!"
29) Con la popolazione locale avevate dei rapporti?
R.: "No, no, come bambini no, eravamo controllati e isolati. Si, noi andavamo per la strada marcando eccetera, magari ci guardavano, ma come rapporti non ne avevamo, eravamo un po' isolati. Eravamo maschi e femmine divisi, e anche nella scuola, se potevano facevano la scuola maschile e femminile. Dove non c'erano tanti alunni facevano la scuola mista, ma se potevano facevano soprattutto quello."
30) Lei prima mi parlava di assistenza. Quindi ricevevate un po' di assistenza...
R.: "Assistenza si Avevamo la divisa da balilla che, tra parentesi, fino a che non ho compiuto otto anni ero figlio della lupa, con la banda davanti. Si, avevo quella divisa lì e bastra. Il mantello d'inverno, ma meno male che a Bordighera non faceva tanto freddo! Comunque si, avevamo quello e basta."
31) Mi rifaccio a un passaggio di un'intervista che ho fatto a un altro profugo arrivato dalla Libia con una storia simile alla sua. Un passaggio che mi ha molto colpito. Parlandomi della sua esperienza di bambino in una colonia dove era stato inviato subito dopo essere sbarcato a Bari, mi ha detto che ha fatto la comunione e la cresima, e in quell'occasione c'erano delle famiglie che si prestavano ad essere padrini e madrine. Lui aveva poi ricevuto un regalo - credo una statuetta - che però non ha mai più visto. E la cosa lo fece restare molto male. Lei ha vissuto simili esperienze
R.: "No, a me mi han detto che il mio padrino doveva essere addirittura il federale di Imperia. Poi questo qui non ha potuto e allora mi ha tenuto a cresima un maestro elementare che mi ha regalato il libro di Pinocchio. Il primo libro che ho ricevuto, è stato il libro di Pinocchio, che poi io me lo ero portato dietro quando sono andato a finire nel Veneto dai miei parenti ed è rimasto lì e non l'ho più visto. Ma è vera 'sta storia. [Mi ricordo] che molti della popolazione di Bordighera han tenuto a cresima questi bambini. Non eravamo mal visti, salvo gli ultimi periodi, perché questa banda di bambini e di ragazzi, affamati...Perché poi continuava a subentrare la fame: caduto il fascismo è cominciato a diventare dura, specialmente nel '43-'44, l'ultimo anno che siamo stati lì. Insomma, quando andavamo in giro andavamo nei campi e facevamo altro che le cavallette!"
32) Quando cade il fascismo cosa succede?
R.: "Lì era ancora territorio sotto il fascismo, Bordighera era ancora sotto il fascismo. Io ricordo che nella mia colonia il 25 luglio [1943] quando è caduto [il regime] c'erano della gente esagitati, erano i più vecchi, che dicevano: oh, adesso andiamo noi a liberarlo [riferendosi a Mussolini], era tutto così."
33) Quindi la propaganda di regime aveva fatto presa...
R.: "Eh si. Alcuni son poi andati nelle Brigate Nera a Salò, per intenderci. Erano convinti, erano di quell'idea e qualcuno è [anche] morto. Io ho visto un bollettino che dicevano che due o tre che erano del reparto libico son morti, che hanno costituito anche un reparto dei bambini della Libia, quelli più grandi però. I miei fratelli che erano più grandi di me, sono rimasti nelle campagne dell'Emilia, perché queste famiglie li ospitavano e intanto loro lavoravano e qu8este famiglie ricevano magari anche un sussidio."
34) Prima lei mi ha detto di essere andato nel Veneto dai suoi parenti...
R.: "Si, nel '44. Erano tornati i tedeschi. A noi [prima] ci gestiva la Gioventù Italiana del Littorio. Caduto il fascismo, è caduta anche la Gioventù Italiana del Littorio, ed è subentrato il Ministero dell'Africa Italiana per un certo periodo, ma per poco. Poi al Ministero dell'Africa Italiana è subentrato un altro ente fascista l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia, che ci ha getsito fino alla fine delle colonie. Chiaramente noi nel '44, tutte le colonie della Liguria sono state mandate nel bergamasco, perché c'era l'avanzata degli eserciti [nemici]. Quelli che erano nel litorale adriatico li han mandati nel bresciano, son tutti saliti. Però anche lì era diventata critica la situazione, perché mezzi per mantenere queste colonie non ce n'era, e allora succedeva? Che chi aveva dei parenti che erano disposti a tenerli, [i bambini] potevano essere mandati da questi aprenti, che poi magari ricevevano un piccolo sussidio. Quelli che non avevano parenti, specialmente quelli del meridione che i parenti erano oltre la linea gotica, le donne le mandavano nei collegi e gli uomini - come i miei fratelli- a lavorare nelle campagne dai contadini che li ospitavano. Qualcuno poi si è anche arruolato: venivano questi qua a cercare di arruolarli. Non era obbligatorio, però fame ce n'era tanta, lì avevano magari anche la possibilità di mangiare, l'età era giusta per arruolarsi e si sono arruolati. Non c'è niente da dire. Io poi...Nel '43 una mia sorella era stata ospitata da un mio zio nel Veneto. A me avevano chiesto se avevo dei parenti e io ho citato questa sorella, e loro senza avvisare questo mio zio che sarei arrivato, mi han preso e mi han mandato lì. Mi ricordo che durante il viaggio siamo stati anche mitragliati, perché eravamo su un camioncino scoperto. Ci hanno mitragliato dentro ai vigneti ma poi siamo arrivati. E sono arrivato lì, che neanche sapevano che sarei arrivato, ma siccome di aprenti ne avevo tanti nel Veneto, non è stato un problema."
35) Dove è andato a finire?
R.: "Sono andato a finire dalla nonna materna, dal fratello di quello zio [dove stava mia sorella]. Sono andato da quel fratello che ospitava la nonna e la nonna è stata lei che sicuramente mi ha voluto. Stavano in un paese che si chiamava Basalghelle ed era una frazione di Mansué, in provincia di Treviso. Lì ho fatto la quarta, la quarta classe [elementare]. Finita la guerra, abbiamo sentito voci che si poteva rientrare in Libia."
36) Nel frattempo la sua famiglia continuava a non sentirla...
R.: "Eh no, non sapevo niente io della famiglia. Poi la mia famiglia - e questa è la tragedia in un certo senso [forse sarebbe meglio dire] dramma, perché la tragedia [si usa] quando c'è qualche morto!- ha avuto un dramma e cioè che dopo El Alameinn tedeschi se la son filata prima degli altri e l'esercito italiano si è ritirato e non hanno voluto lasciarci in Pirenaica, perché quando ci son state le invasioni, ci son stati anche degli episodi di arabi che hanno assalito dei coloni."
37) In proposito, posso chiederle com'era il rapporto con gli arabi?
R.: "Ma, dipendeva anche un po' dagli italiani, a quelli che facevano i prepotenti e da quelli che non facevano i prepotenti. Quelli che non facevano i prepotenti avevano un rapporto buono. Certamente, noi eravamo sulla loro terra, però c'erano quelli che avevano avuto un rapporto non buono con gli arabi e appena han potuto gli arabi si son vendicati."
38) L'italiano, forse, era visto come il colonizzatore, l'invasore...
R.: "No, io penso non tanto colonizzatori. Loro non erano contadini, hanno ricevuto anche loro dei terreni da coltivare, ma loro erano pastori. Diciamo che l'altipiano cirenaico era abbastanza una fonte di produzione agricola, ma nei secoli, tanto che già Roma si serviva di quei prodotti lì."
39) Mi diceva prima che la sua famiglia è dovuta andare via...
R.: "E' dovuta andar via! Il dramma è stato quello. Sono andati via [a bordo di] camion militari che tornavano indietro, magari carichi di materiale bellico, e che caricavano le persone. Si presentavano e dicevano: via, via, bisogna andar via,. E si doveva lasciare tutto. Ma non tutta la famiglia a borda del camion, [venivano divisi], un po' qua e un po' là. E via verso la tripolitania. Son stati caricati così. Mia sorella mi ha detto che ha fatto 1.300 chilometri [sopra un camion] attaccata all'elica di un aereo, ha fatto 1.300 chilometri in quelle condizioni! E sono andati a finire in un altro villaggio della Tripolitania - Berliglieri si chiamava - e lì si sono fermati circa un anno e poi sono andati a Tripoli. Io poi nel '45 ho sentito che si poteva ritornare in Libia, [e allora] ci siamo incamminati [io e mia sorella] ma a Bologna ci hanno bloccati, perché anche lì, [Bologna] era sempre stato un centro di smistamento - come adesso del resto - anche perché i treni funzionavano solo sulla linea adriatica, di qua non funzionavano. E poi, dal Veneto, si andava a Bologna. Ci hanno bloccati per un certo periodo e poi ci hanno dato il foglio di via obbligatorio, perché si viaggiava con quello. La prefettura rilasciava il foglio di via obbligatorio, e noi andavamo sui treni non come quelli che circolano adesso, non Frecciarossa, sarà stata una Freccia nera! E poi siamo andati a finire a Roma, al campo profughi di Cinecittà."
40) Posso chiederle come mai siete arrivati fino a Cinecittà?
R.: "Io e mia sorella siamo partiti per tornare in Libia, per essere reimbarcati. Ma ci han detto che, come minimo, dovevamo arrivare fino a Roma, e a Roma ci hanno smistato a Cinecittà, che era un centro di raccolta profughi. E siamo stati lì in attesa di essere richiamati per l'imbarco. [La chiamata] doveva dipendere dal governo, però c'è stato il veto da parte della BMP - la British Militar Police - che ha deciso di [vietare gli imbarchi], perché tanti italiani potevano entrare, quanti ne uscivano, cioè testa contro testa: uno usciva e uno entrava. [A] loro non fregava niente del problema di questi ragazzi che dovevano ricongiungersi con la famiglia. Ed eravamo io e mia sorella ma c'erano anche altri profughi di altre categorie. Cioè non solo profughi, non solo i ragazzi della quarta sponda che dovevano rientrare, ma anche altri: a Roma in quel periodo lì c'erano sei campi profughi!"
41) Parlando di campi profughi, riesce a descrivermi quello di Cinecittà dove è stato anche lei?
R.: "Si, ci sono andato anche recentemente. L'anno scorso si poteva anche visitare Cinecittà: [l'iniziativa] era intitolata Cinecittà si mostra. Si andava e poi si visitava con la guida. Si faceva un giro e si visitava: io ho rivisto anche il Padiglione numero 5, quello più grande, dove Fiorello ha trasmesso il suo recital recentemente. Il campo era... Eravamo negli studi, che lì avevano tramezzato tutto quanto. C'erano tramezze di compensato e dentro questo campo c'erano oltre 1.000 persone, solo lì. Ma noi, complessivamente, saremo stati in 3.000, ecco. Ma poi c'era anche gente dell'Africa Orientale Italiana che era in attesa di essere chiamata, però non si sapeva ancora niente. Si stava lì e si aspettava di essere richiamati."
42) Quando arriva a Roma?
R.: "Nel '45, appena finita la guerra, sarà stato maggio. E sto lì dieci mesi, tanto! Sto lì in attesa di essere chiamato. Lì c'era l'assistenza di un campo profughi, [perché lì] era un campo profughi: c'era il rancio, ci davano il rancio come i militari, avevamo addirittura una gavetta, una gamella. Al mattino [ci davano] il latte in polvere, ci davano qualche formaggino o qualcosa di marmellata, ma insomma non era tanto sostanziosa la questione!"
43) Avevate anche un sussidio?
R.: "No, il sussidio no, non avevamo niente. Vivevamo con quello. Mia sorella ad esempio ha cercato di trovare un lavoro, [e poi lo ha trovato]: è andata a servire in una famiglia di Roma e mi aveva lasciato in campo profughi, siccome non poteva portarsi dietro [anche] me. Allora mi ha lasciato all'assistenza delle donne che erano nella mia camerata, eravamo in sei nella nostra camerata tramezzata. Però queste qui per un paio di giorni non hanno detto niente, poi sono andate alla direzione e hanno sollevato il caso, e allora la direzione ha mandato a chiamare un mio zio - quello dove si trovava mia sorella quando era giù in Veneto - e allora lui è venuto e l'ha riportata lì [in campo]. Poi ha trovato qualcosa dentro il campo. Poi siccome non ci chiamavano, ci hanno trasferito in un altro centro di ragazzi, ad Assisi. E lì c'erano solo ragazzi della quarta sponda. [Questo centro] era in un convitto nazionale che si chiamava Convitto Nazionale degli Orfani dei Maestri elementari, ed era libero durante quel periodo. E anche lì [siamo stati un po' di tempo] in attesa di essere mandati [in Libia]. Niente, siamo stati sei mesi ancora lì e poi questi zii del Veneto son venuti a prenderci e siamo andati lì in Veneto da parenti, ma da altri zii. Come ho detto prima, io di zii ne avevo un sacco...Le famiglie numerose venete! Poi un anno dopo, nel '47, abbiamo saputo che la nostra famiglia era rientrata dalla Libia e che si trovava nel campo profughi di Napoli, alla Canazanella. Nel frattempo, il mio fratello maggiore che era militare, è tornato dalla prigionia in Tunisia ed è stato ricoverato, e io e mia sorella ci siamo messi in viaggio per Napoli."
44) La sua famiglia a Napoli è arrivata come profuga?
R.: "Si, come profuga, non sapevano dove andare! Terra non ne avevano più...Sono stati lì in attesa del nostro rientro in Libia, ma noi non tornavamo perché c'era quel veto inglese. Poi le comunicazioni non arrivavano. Hanno resistito a Tripoli ancora due anni, ma poi hanno visto che noi non riuscivamo [a tornare] e allora [sono partiti]. Perché poi ho saputo che qualcuno riusciva a tornare, perché facevano rientrare quelli della Tripolitania che avevano avuto il podere prima, e loro potevano rientrare nei poderi. Invece quelli della Cirenaica che erano lì e che non avevano più il podere e il lavoro era quello di manovale, cioè non avevano un lavoro preciso, questi appena han potuto li hanno mandati in Italia. Poi c'era il problema di ricongiungersi con i figli: loro di là, noi di qua, metà famiglia di qua, metà di là...E allora son rientrati e son venuti qui al campo profughi di Tortona. Siamo andati a Napoli e non li abbiam trovati."
45) Quindi siete stati alla Panzanella...
R.: "Si, per una notte."
46) Com'era la Panzanella?
R.: "Non so in che zona era, era una caserma. Siamo stati una notte lì e poi siam partiti, perché ci han detto: sono ad Alessandria. Non han detto Tortona, han detto: sono ad Alessandria. E allora ci siamo rimessi in viaggio, abbiam fatto il viaggio a rovescio, sempre verso le Marche, e poi Bologna e alla sera siamo arrivati alla stazione di Alessandria e ci hanno detto non sono qui, sono a Tortona. Erano le otto di sera e allora ci siamo messi a dormire in stazione. E in stazione ci han rubato la valigia. E la cosa per me melodrammatica, è che dentro a questa valigia c'era una famosa torta, che la zia quando siamo partiti dal Veneto ci aveva dato, dicendoci: la mangerete tutti quanti insieme. E io rognavo, dicevo quando mangiamo sta torta? Quando la mangiamo? Se la sarà mangiata qualcun altro!"
47) Vorrei che capire una cosa. Mi ha detto che la sua famiglia dalla Libia è andata a Napoli. Perché proprio a Napoli? C'era un piano preordinato secondo il quale erano destinati a Napoli?
R.: "Non so, probabilmente quelli che rientravano li destinavano in varie parti. C'era un centinaio di campi profughi allora. E magari da Napoli gli han detto che c'era un posto qui a Tortona e gli han chiesto se volevano andare e i miei han detto si, meglio che ci avviciniamo più al nord che rimanere a Napoli. Han scelto loro di venire qui a Tortona."
48) Quindi anche lei arriva a Tortona...
R.: "Arrivo qui e ho rivisto la mia famiglia qui a Tortona nell'aprile del' 47."
49) Inutile dire che le abbia fatto un certo effetto...
R.: "Certo, un bambino di cinque anni che va via, e ne trovano uno quasi di dodici...Quadi da non conoscersi più..."
50) E a Tortona vi hanno sistemati dove?
R.: "In una camera della Caserma Passalacqua."
51) Che nel frattempo si era popolata di altri profughi...
R.: "Si, si...E' stata aperta dei mesi prima, nell'ottobre del '46, e c'era un andirivieni di persone: molti erano trasferiti, altri chiedevano di essere trasferiti...Comunque era sempre piena: 1.300 persone c'eran sempre, di media."
52) Riesce a descrivermi la vita nel campo?
R.: "C'era una direzione. [Il campo] era amministrato dalla prefettura di Alessandria, che aveva designato un direttore, aveva distaccato degli impiegati della prefettura e li aveva messi nei vari uffici che erano necessari per la gestione del campo. C'erano poi i servizi: c'era l'infermeria [con] due medici a disposizione, c'era la scuola. All'inizio c'era anche la scuola elementare, e infatti io dovevo fare la quinta - perché avevo perso due anni tribolando per l'Italia - e ho finito la quinta al campo profughi. Terza, quarta e quinta c'era là. Che le han tenuto tre o quattro anni e poi le hanno accentrate presso le scuole di Tortona. Sempre però divisi, i profughi da una parte e i tortonesi dall'altra, maschi da una parte e femmine dall'altra."
53) Osservando alcune fotografie del campo, ho notato come vi fossero le suore che guardavano i bambini...
R.: "Si, c'erano le suore, poi c'era un corso di taglio e cucito e poi c'era una cooperativa e delle persone che avevano delle bancarelle, che magari comperavano la roba all'ingrosso e poi la rivendevano."
54) Il campo era però regolamentato: cioè si usciva a ore precise...
R.: "Si, c'era la pubblica sicurezza. No, no, c'era, c'era."
55) Le stesse cose del campo di Tortona, lei le aveva trovate anche a Cinecittà?
R.: "Si, si. Anche lì c'era la direzione del campo, c'era una scuola - infatti avrei potuto fare la quinta - c'era una chiesa e c'era anche un cinematografo, però facevano pagare e io non andavo."
56) E invece nel campo a Tortona, come passavate il tempo libero?
R.: "C'era qualcosa, c'era il cinema anche se però l'han fatto dopo, parliamo degli anni Cinquanta già. C'era tre cucine diverse."
57) Me lo hanno detto e questa cosa delle cucine mi interessa molto...
R.: "Si, c'era tre cucine diverse. Una per i dalmati, una per i greci e per i libici, e un'altra mista. Perché magari c'erano abitudini diverse di mangiare e allora si andava lì con la famosa gavetta a farsi dare il cibo. Poi dopo l'han soppresso e ognuno si arrangiava. Poi qualcuno ha cominciato anche ad andare a lavorare."
58) Quindi dall'apertura del campo fino alla concessione del sussidio c'erano tre cucine diverse...
R.: "Si, tre cucine diverse. Diciamo che secondo chi le ha organizzate i greci e i libici dovevano mangiare allo stesso modo, non c'era un criterio culinario preciso. Perché poi alla fine fine non c'era. Non è che i libici facessero il cous cous... Adesso io non mi ricordo, perché ero piccolo, faccia conto che arrivo a Tortona nel '47, nell'aprile del '47."
59) Nel '47 arriva a Tortona. Se non sbaglio aveva dodici anni, quindi era poco più che un bambino. Io ho notato una cosa, e cioè che la percezione del campo per un bambino della sua età era radicalmente diversa da quella che poteva avere un adulto. E' d'accordo?
R.: "Io ero abituato a seguire una certa disciplina, perché ero stato nelle colonie e quindi una disciplina ce l'avevo. Quindi qui nel campo dovevo seguire più o meno una certa disciplina - anche se non ero vincolato alle marce - e quindi mi ero più o meno abituato a questo tipo di vita. Certo che uno più anziano ha trovato difficoltà. Le difficoltà maggiori non erano nostre che eravamo ragazzi, ma erano soprattutto dei genitori che dovevano adattarsi. Quelli abituati a coltivare la terra dovevano magari abituarsi a fare il manovale, a fare qualsiasi mestiere. Per noi il campo era una palestra, c'era l'incontro di tanti ragazzi e allora si prendevano i giochi dell'uno e dell'altro e si imparavano. Si socializzava di più, ecco. E poi eravamo tutti nello stesso ambiente. Per i giovani non era un problema, il problema era per le persone più grandi. E infatti i meno giovani di me, appena han potuto sono andati nelle grosse città. I miei fratelli, ad esempio, quando sono rientrati sono stati lì [a Tortona] un po' e poi sono andati a Torino, a lavorare alla Fiat. Poi uno si è stufato del lavoro alla Fiat e ha detto: sarà meglio che vada in Australia! E allora è andato in Australia."
60) Quindi in campo c'erano molti contatti tra i profughi libici, greci e istriani...
R.: "Eh, ci son stati, si. Specialmente i greci erano un po'...Bisticciavano...Erano così, erano più litigiosi. Ce n'era poi anche qualche d'uno della Libia che era litigiosa anche lui, eh!"
61) Dovessimo fare una proporzione delle presenze nel campo, credo che non si sbagli a dire che la comunità più numerosa fosse quella giuliano-dalmata...
R.: "Si, si il 60%. Poi c'erano i greci e i libici. Noi libici eravamo 508 persone, e queste 508 persone erano quelle che avevano cercato di ricongiunsi alla famiglia, se no non ci saremmo stati noi libici."
62) Lei prima mi ha detto che i profughi si dovevano adattare a fare qualsiasi lavoro. Posso chiederle, negli anni, qual è stato il percorso professionale dei profughi a Tortona?
R.: "Facevano le cose più umili, quelle che adesso fanno gli immigrati. Eravamo noi gli immigrati, anche se eravamo italiani!"
63) Come siete stati accolti dalla popolazione tortonese? Ad esempio - e parlo soprattutto dei giuliano-dalmati - credo che inizialmente l'accoglienza non sia stata buonissima...
R.: "In parte c'era la cosa del rubare il lavoro, come adesso con gli immigrati che fanno magari i lavori più umili e si sente dire: ma quelli, cosa fanno...Eh, ma lo fai te italiano adesso quel lavoro? No, lo fanno loro e lascialo fare a loro. La questione era che noi eravamo in una caserma, uscire non uscivamo tanto e quindi i rapporti con la gente fuori non c'erano. I rapporti sono cominciati quando abbiamo cominciato ad andare a scuola, quando abbiamo cominciato a giocare. Io per esempio ho fatto la quinta [elementare] in campo, però già alla prima avviamento sono andato con gli altri, e quindi ho incominciato a socializzare. Poi ho cominciato a frequentare gli oratori della città, ho cominciato a giocare agli sport che si giocavano negli oratori, e molti di noi eccellevano in questi sport. Tipo la pallacanestro: i giuliano-dalmati erano famosissimi, [giocavano bene]. E ancora adesso, quelli che sono stati a contatto con gli slavi sono i più bravi a pallacanestro. Io a scuola me la cavavo bene, a giocare a pallone me la cavavo bene, ero cercato e ho incominciato ad avere rapporti. All'inizio è stato diverso, ma questo anche perché noi eravamo chiusi. Come scrive molto bene nel libro l'amico Porta, noi eravamo chiusi, eravamo un villaggio nella città, con tutte le regole del villaggio che esulavano da quelle della città."
64) Qualche anno fa intervistai una signora di Spalato arrivata a Tortona. Mi rimase molto impressa una sua frase relativamente all'accoglienza ricevuta. Una frase che altre testimonianze mi hanno poi ripetuto, e cioè che le mamme tortonesi erano solite dire ai loro bambini, quando facevano i capricci, stai bravo se no ti faccio mangiare dai profughi. A detta delle testimonianze questa sembrava una pratica piuttosto diffusa...
R.: "E' un mito, è un mito! Si, qualcuno l'avrà detto, però poi piano, piano ci siamo integrati. [Un'integrazione avvenuta] attraverso la scuola, attraverso lo sport e attraverso gli oratori che hanno svolto questa funzione di collegamento grazie alla quale ci siamo conosciuti veramente. A parte il fatto che c'è stato qualche episodio...Che ad esempio avevan trovato uno morto dopo una discussione con i profughi, ma poi era morto per altri motivi e loro son stati assolti."
65) Torniamo un attimo al rapporto tra i profughi e il lavoro. So che a Tortona all'epoca c'erano parecchia aziende - su tutte la Liebig -. Aziende che costituiscono un'opportunità lavorativa, credo...
R.: "Diciamo che qualcuno si è lamentato perché avevamo la possibilità di entrare per quella legge famosa. Mia moglie [ad esempio], è entrata a scuola con quella cosa lì. Cioè lei ha fatto il concorso da maestra tra la riserva dei posti, però si, si. Ma quella cosa lì non c'era solo per i profughi, c'era anche per gli invalidi. Ma lo rinfacciavano, perché a parità di punteggio chi era profugo passava avanti. Ma non rinfacciavano però il fatto che loro stavano bene, perché sono sempre stati bene."
66) La popolazione locale - ma più in generale direi l'intera popolazione italiana - aveva secondo lei un'idea di quanto vi era successo?
R.: "No, no. Tanto per dire: quelli che venivano dell'Istria e dalla Dalmazia erano fascisti, cioè erano considerati fascisti. E invece tutti avevano la tessera, anche noi per andare in Africa avevamo la tessera: una delle condizioni era quella di essere iscritto al partito fascista. Comunque credo che non avessero idea [della nostra situazione] e penso anche che non gli interessava saperlo. C'era il fatto che noi gli portavamo via il lavoro e cose del genere. Però poi quando hanno iniziato a conoscere, han cominciato anche ad apprezzare, ecco."
67) Lei resta alla Passalacqau fino a che anno?
R.: "1953, alla fine del '53. [Restiamo] sei anni e mezzo. Poi ci hanno assegnato una casa popolare qui a Tortona e siamo usciti. Erano le INA case."
68) Dopo tanti anni di campo, che effetto le ha fatto avere finalmente una casa?
R.: "Effetto...Non ero abituato a stare in una stanza chiusa: ero sempre abituato a stare con dei soffitti altissimi e degli spazi bassi...In caserma avevano fatto le camerate, ma le famiglie numerose avevano una camerata da sole, gli altri erano ancora suddivisi con le coperte...E magari in una stessa camerata c'erano tre famiglie. E la durezza della vita in campo era quella, la mancanza di privacy, specialmente per quelli che condividevano la stessa stanza. E poi i servizi erano fuori, erano in comune. Doccia potevi farla ogni tanto, ma noi andavamo fuori Tortona dove c'erano i bagni pubblici e andavamo lì."
69) In casa, mi diceva, si sentiva quindi un po' chiuso...
R.: "Non ero più abituato a stare in una casa piccola, in un appartamento. Ma i primi tempi, poi ci si abitua a tutto!".
31/05/2012;
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