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Intervista a Luigi B. ed Elisabetta D.
Luigi B. nasce a Patrasso nel 1936, da una famiglia di origine laziale emigrata in Grecia. Espulso nel 1946, arriva in Italia dove, dopo un breve soggiorno nel centro di raccolta profughi di Bari, è osiptato nei CRP di Bologna e Novara. Nel marzo del 1946 si trasferisce presso la Caserma Passalacqua di Tortona, dove resta fino al 1959, anno in cui è assegnata alla sua famiglia una casa popolare in via Saccagi a Tortona. Elisabetta D., nasce a Patrasso da genitori di origine marchigiana, emigrati in Grecia per motivi lavorativi. Moglie di Luigi, è espulsa anch'essa nel 1946. Dopo un breve sosta al centro di raccolta Regina Elena di Bari, è trasferita presso la Manfattura Tabacchi di Verona (luogo deputato a ospitare i profughi giunti dalle ex colonie greche) e da qui nel campo profughi di Aversa. Resta in Campania fino al 1956, anno che segna il suo trasferimento nel centro di raccolta di Tortona. Nel 1959 si trasferisce con la famiglia in una casa popolare di via Saccagi. Sono stati intervistati a Tortona il 31 maggio 2012. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?
R.: "[Mi chiamo] B. Luigi, e sono nato a Patrasso il 20 ottobre 1936."
2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori...
R.: "Dunque, noi eravamo in Grecia come cittadini italiani. Allora c'erano le scuole italiane, e i miei fratelli che erano più grandi le hanno frequentate, e Mussolini li mandava anche a fare le vacanze a Rimini e a Riccione. Invece io a scuola sono andato qui in Italia, perché - logicamente - nel '45 bombardavano. Bombardavano, cioè arrivavano gli apparecchi [a sganciare le bombe]. Nel primo bombardamento che han fatto a Patrasso, in Grecia, hanno bombardato le scuole italiane. Io non so che mire avevano questa gente! Mia cugina - che adesso è in Toscana - e che all'epoca andava a scuola, era in vacanza quel giorno lì [altrimenti sarebbero morti]. Le mie origini...Mio nonno, prima del Novecento, abitava nel Lazio a Poli, un paese vicino Roma, che io non son riuscito ancora ad andarci. [Un giorno] ha preso i cinque figli ed è andato in Grecia, lavorando sotto lo Stato. Lui faceva l'agricoltore - innesti e queste cose qui - e lavorava in campagna. Aveva cinque figli, ed erano tutti piccoli, più o meno. E poi noi siamo stati là, in Grecia: mio papà si è preso un appezzamento di terreno e abbiamo sempre vissuto là fino al '46. Siccome noi però eravamo cittadini italiani, [perché] a Patrasso c'era una colonia di italiani fortissima, forse 10 o 15.000 italiani, perché tra Brindisi e Patrasso c'è poco, il tratto è breve. Noi andavamo lì a lavorare, ci han dato sta terra e nel '46 però ci hanno espulso perché avevamo la cittadinanza italiana."
3) Patrasso che tipo di città era? Riesce a descrivermela?
R.: "Dunque, era una città portuale. Quando c'eravamo noi era piccola, adesso 200.000 e passa abitanti, ma quando c'eravamo noi era una cittadina, era piccolina. Io abitavo in campagna. Era una cittadina sul mare, infatti tutti i traghetti che partono da Ancona, quasi tutti fanno scalo a Patrasso. Io abitavo in campagna, un po' fuori, ma adesso si è sviluppata."
Elisabetta D.: "Patrasso era un paesino!
4) Gli italiani avevano un quartiere oppure erano distribuiti in tutta la città?
Elisabetta D.: "Gli italiani avevano messo questi soprannomi [alle vie] per distinguerle dai greci."
R.: "C'era via Gabetta, in quartiere Santa Rosa, che abitavano tutti italiani. C'era proprio una via, e a Patrasso c'era e c'è ancora - anche se son rimasti pochi - una chiesa cattolica, perché lei sa benissimo che la maggioranza dei greci son di religione ortodossa. E infatti quando sono arrivati gli italiani in tempo di guerra, che lì c'è un mucchio di fossi, gli italiani mangiavano le rane. E i greci - ma anche noi - [dicevamo]: ma come, questi qua sono quelli che ci vogliono insegnare a vivere!? Questi che mangiano le rane! Perché lì le rane guai a toccarle...Carne di cavallo non ne parliamo: lei se vuole fallire non deve che aprire un negozio di carne di cavallo! Non la toccano neanche. Il cavallo è l'animale sacro. A noi, siccome mio papà [li conosceva], venivano due soldati italiani e ci portavano qualche volta dei pezzi di carne di cavallo: io la mangiavo, facevamo lo stufato, perché nel '41 [le persone] morivano per strada, però i greci la carne di cavallo non la toccano. Un po' come gli arabi..."
5) La sua famiglia mi ha detto che è di origine laziale.
R.: "Si, ma mia madre invece è delle Marche."
6) Ho capito. Posso però chiederle di dove fossero originari gli italiani di Patrasso?
R.: "La maggioranza era tutta delle Puglie. Erano quasi tutti di Bitonto, Bari, Molfetta, Trani. Mi diceva mio padre che nel suo paese in quegli anni lì [che la sua famiglia è partita], nel suo paese non ci stava bene neanche da morti. I pugliesi erano quasi tutti pescatori, anche perché i greci sono un po' levantini, cioè sono più commercianti. Difatti mio papà questo suo grande appezzamento di terra dove lavorava, lo ha comprato dallo Stato, capisce? E i terreni più in ordine che c'erano a Patrasso erano degli italiani, perché i greci non è che siano tanto coltivatori. Loro come indole son mica tanto da lavorare! I terreni...Ad esempio c'erano i fratelli D., che avevo due appezzamenti grossi, che poi glieli han requisiti e adesso ci han fatto l'ospedale nuovo. Che i greci sono un po' commercianti, vanno a lavorare quando vogliono! Erano carichi di figli, minimo quattro o cinque: mio padre ne aveva solo tre, [però] poi sono morti i suoi fratelli, e ha preso tre nipoti, che son stati con noi sempre."
7) La sua è stata quindi sempre una famiglia di contadini...
R.: "Si, in agricoltura. Io ero piccolo, ma gli altri [miei fratelli] andavano a scuola, e mio papà finito il lavoro sotto lo Stato, coltivava sta poca terra e quindi anche in tempo di guerra qualche cosa [da mangiare] c'era. Che poi adesso hanno costruito anche lì [su quei terreni], perché da 30.000 abitanti, Patrasso adesso ne ha 100.000. E io, quando [ci] sono andato dopo trent'anni non l'ho riconosciuta. Perché la Grecia è piccola, ha undici o dodici milioni di abitanti, e tolte quelle due o tre città grosse, poi fuori c'è poco."
8) Torniamo a parlare ancora di Patrasso. MI riesce a spiegare qual era la situazione governativa? Cioè che rapporto aveva con l'Italia?
R.: "Era una cittadina della Grecia sul mare, ed era al massimo amica con l'Italia. Perché in Grecia sa cosa dicono? Italiani e greci, una faccia, una razza! C'erano buoni rapporti tra noi. Mio papà non ha mai avuto nessun fastidio. Solo che in tempo di guerra - cosa vuole - li han presi e li han messi in un'isola, cioè li hanno internati per paura. Il governo greco, essendo che l'Italia ha attaccato la Grecia - che prima erano amici, perché come le ho detto una faccia, una razza!- , ha internato gli italiani per paura che facessero qualche atto di sabotaggio, perché erano cittadini italiani. Nel 1936 - secondo quanto mi dice mia cugina che ha otto anni più di me, è del 1928 - a mio papà ci avevano proposto di diventare cittadino greco, ma lui non ha voluto, cosa vuole che le dica io! Patrasso era una città della Grecia e l'Italia forse voleva fare vedere ai tedeschi che era forte, e allora cosa ha fatto? Se l'è presa con gli albanesi e coi greci, però se non arrivavano i tedeschi, gli italiani erano ancora in Albania, perché strade non c'erano e si impantanavano, capisce? Sono entrati dentro in Grecia, portati dai tedeschi perché da soli [non ci sarebbero riusciti]. Perché sa, Mussolini faceva vedere lucciole per lanterne, eh! L'Italia ha attaccato la Grecia, come a far vedere che anche noi eravamo forti."
9) La comunità italiana di Patrasso, che rapporti aveva con l'Italia?
R.: "Erano ottimi, ottimi. Mussolini una volta al mese a noi cittadini italiani ci dava un pacco [contenente] lo zucchero e la pasta. Ci dava gli spaghetti! Noi eravamo in otto in famiglia e i miei fratelli - questo mi è rimasto - quando c'erano gli spaghetti, per mangiarne meno io, mi dicevano che erano dei serpenti! Io li mangio adesso, per carità, però all'epoca ero piccolo, avevo sette o otto anni, per cui si figuri...No, comunque noi eravamo visti bene dai greci: dopo l'8 settembre, perché i tedeschi erano tremendi. Mi ricordo che avevano dei convogli dei treni, che davanti al treno c'era un vagone aperto, tutto col filo spinato intorno e la gente - i prigionieri - dentro, così se saltava qualche ferrovia [morivano anche i prigionieri]. Perché loro ferrovie ne avevano poco o niente, non era sviluppata la ferrovia greca. Erano buonissimi i rapporti, che si sono guastati quando l'Italia ha dichiarato guerra alla Grecia, se no noi eravamo ben visti. Poi dopo la faccenda della guerra a noi i greci ci chiamavano cani italiani, ma noi non avevamo fatto male a nessuno. E dopo la guerra ci hanno proprio espulso!"
10) Prima mi ha parlato di Mussolini. Cosa ricorda del periodo fascista?
R.: "Allora, il fascismo là...C'erano anche, per esempio, delle parate nelle città. A Patrasso no [erano pochi], ma ad Atene qualcuno che si dava da fare col fascismo c'era. Perché ad esempio, c'era [una famiglia con due] fratelli, che un fratello lo hanno mandato via [lo hanno espulso] e l'altro invece no. E come mai? Perché quello si interessava, faceva delle sfilate e cose là. Ma a Patrasso di fascismo non c'era. Guardi che là [all'epoca] c'era una miseria nera, eh! Io abitavo fuori e non avevamo la corrente elettrica, [tanto che] mio padre aveva tirato due fili sugli olivi per attaccare la corrente. C'era una miseria nera, il paese era poverissimo. Propaganda fascista non c'era tanto, cioè si c'erano le divise da balilla, giovani lupi e ste cose qua, però io ero piccolo. So che bombardavano, questo si. Però poi gli italiani dopo l'8 settembre, anche se andavano con le donne le convincevano, magari le davano la pagnotta, perché guardi che la cosa più brutta è la fame!Poi tutto il resto..."
11) Ha fatto molti riferimenti alla fame. Ne deduco che fosse un problema grave...
R.: "Eh, nel '41 morivano per strada. Noi eravamo in campagna, e magari un po' di grano e un po' di olive l'avevamo, ma in città morivano da matti. Invece i tedeschi quando facevano l'attentato [i partigiani], venivano in paese col lanciafiamme e lo rasavano. Pensi che da noi a Patrasso - dove c'era il coprifuoco alle sei - c'era un tedesco che girava con la moto e [guardava che non ci fosse] nessuno [che] girava [per le strade]. Guardi che i tedeschi sono una razza cattiva!"
12) E dei tedeschi cosa ricorda?
R.: "Ero piccolo...Dopo l'8 settembre han preso in mano loro il potere...Ma dopo l'8 settembre, tanti italiani i greci li nascondevano, capisce? Perché si erano comportati bene, poi quando siamo andati contro i tedeschi è cambiato. Perché i tedeschi sono brava gente, ma non bisogna armarli!"
13) Prima mi parlava dei bombardamenti...
R.: "Dei bombardamenti mi ricordo che il primo bombardamento è stato sulla scuola italiana. Ma non ci son stati tanti bombardamenti, perché Patrasso era una città che non c'era quasi niente, perché d'industria lei sa benissimo che in Grecia c'è quasi niente. Io so che c'era una specie di avvallamento di dieci metri - scavato dai greci - per fermare i carri armati quando sarebbero arrivati. Allora minavano i ponti e i porti, e i greci andavano a prendere le mine per buttarle nel mare e prendere i pesci, e ogni tanto dicevano: ah, è saltato uno! E allora andavano in giro coi ceti a raccogliere qualche pezzo."
14) Chi è che minava?
R.: "I tedeschi. Loro li prendevano le mine per adoperarle, però poi magari muovendole, qualcosa saltava. Io della guerra mi ricordo poco perché avevo dieci anni, ma se ci penso ricordo anche che noi avevamo un tedesco che era nostro amico, e che c'erano [anche] due [soldati] italiani che venivano a casa nostra. E una volta mio padre - che quel tedesco doveva essere di licenza - è andato per aprire i fossi, perché dentro avevamo u po' di roba da mangiare. Ma si vede arrivare un altro tedesco - al posto dell'altro - e quasi, quasi lo ammazza. Poi dopo l'8 settembre, quando son venuti giù i partigiani - che sono arrivati con delle barbe!- mia mamma si è messa per terra, perché son venuti e ci han messo in fila che volevano fucilarci tutti. I partigiani greci questo, quando son venuti giù."
15) Come mai volevano fucilarvi?
R.: "Perché eravamo italiani! Dopo l'8 settembre c'è stata la rottura, dopo che i tedeschi han cominciato a scappare, sono arrivati questi partigiani. Ci han messo in fila, ci han detto: siete italiani! E bum, bum volevano [fucilarci], ma noi non avevamo fatto niente di male. Diciamo che sono stati rovinati i rapporti col fascismo, perché le ho detto, dicono [italiani e greci] una faccia una razza!"
16) Quando Mussolini ha dichiarato guerra alla Grecia, che reazione hanno avuto gli italiani?
R.: "Eh, si, qualcuno...Perché come le ho detto, in Atene c'è stato anche qualche movimento di più, però dov'ero io era una cittadina molto piccola, che oggi si può dire che si è sviluppata tre volte rispetto a quello che era, [visto che prima] vivevano di pesca, agricoltura...Non c'er aindustria e non c'era niente, lì vivono di turismo."
17) Quindi, secondo lei, i rapporti tra italiani e greci si rovinano dopo l'invasione fascista...
R.: "Eh, si son rovinati si, perché noi eravamo stati sempre in pace. Tra greci e italiani non è che c'era attrito, cosa vuole che ci fosse attrito, eravamo tutti uguali. Sa, in tempo di guerra...Noi eravamo un po' fuori e quindi c'era qualcosina in più, però eravamo tutti uguali. Poi a noi quando ci han requisito la casa, ci han messo dentro una famiglia greca. E' stato per poco tempo, però noi non eravamo più padroni delle cose nostre."
18) Mi parlava prima della fame nel '41...
R.: "L'Italia invade la Grecia nel '41, e c'è stata gente che moriva di fame, ma letteralmente, perché non c'era niente, c'era miseria nera. Cioè si stentava proprio a vivere. Come dico, noi eravamo fuori, però non c'era niente, si tirava avanti alla giornata. Poi i greci nascondevano gli italiani, perché si erano comportati bene, pur essendo invasori. Perché paragonare il soldato italiano al soldato tedesco, non ne parliamo. Scusi, eh, la storia è quella che è. Che l'altra volta - io le ripeto, ero piccolo, avevo dieci anni - han fatto vedere un documentario [in televisione] che dopo un attentato [partigiano] gli italiani hanno spianato un paese [non ricordo dove], l'hanno proprio spianato eh! Questo per dire che anche gli italiani qualcosa lo han fatto eh!"
19) Prima ha accennato a quando siete stati espulsi. Ora vorrei approfondire l'argomento. Mi racconta com'è andata la vicenda?
R.: "Finita la guerra, nel '45, i greci erano alleati con gli inglesi e i francesi, che gli inglesi sono una brutta razza! Perché gli inglesi, guardi...Io avevo un amico che era stato prigioniero degli inglesi, e quelli non scherzavano mica eh! Invece uno che è andato prigioniero in America, gli pagavano le giornate gli americani! E c'è una bella differenza. Comunque, alla fine della guerra, ci hanno detto: giovedì voi dovete prendere la nave. E io l'unica volta che ho avuto paura è [stata] quando ci hanno imbarcato sulla nave da guerra, perché prendevamo dei colpi che dicevo: qui va a finire che andiamo tutti giù! Ci hanno espulso, son venute le autorità greche, [che rappresentavano] il Governo provvisorio di Atene, che aveva detto che dovevamo andare via."
20) Qual è stato però il motivo che ha portato il governo greco ad espellervi?
Elisabetta D.: "Perché eravamo italiani!"
R.: "Perché eravamo cittadini italiani, e gli italiani avevano attaccato la Grecia, erano diventati nemici. Perché mio padre ad esempio non si sognava mai più che sarebbe successa una cosa così, altrimenti nel '36 [avrebbe forse agito diversamente]. Ad esempio io ho due zie che hanno sposato dei cittadini greci, e sono ancora là. Lui non si sognava mai più che potesse succedere [una cosa simile], ma chi se lo sognava? L'unica cosa che mi diceva mio padre - che lui è morto poi nel '50 - [era questa]: non fate mai niente in casa degli altri! Ecco, perché la stessa fine l'han fatta anche gli italiani in Tunisia. Perché scusi eh, quando lei va in casa degli altri, può dominare con la forza, ma quando arriva il momento e gli altri si ribellano, ti buttano dalla finestra, eh!"
21) Quindi gli italiani in Grecia han dominato con la forza...
R.: "Eh beh, si, hanno invaso il paese! Hanno imposto certe regole...Io non mi ricordo quali, ma eravamo mal visti da tutta la nazione. [Prima] eravamo rispettati, nessuno ci aveva mai toccato niente e tutto, ad un certo punto eravamo mal visti. Praticamente eravamo tutti nemici, ed eravamo tutti fascisti. Ci dicevano fascista vai via. Anche perché poi, mi scusi, ma i fascisti se la sono presa con una pese povero, più povero di noi! E i tedeschi erano armatissimi, ma noi cosa avevamo? Niente! Guardi che anche qui a Tortona, tutte le ringhiere dei balconi le tagliavano per fare su il ferro, poi si facevano dare la fede dalle donne...Io questo l'ho letto, però si sa."
22) Ritorniamo alla sua espulsione. Mi diceva che a casa vostra si presentano le autorità...
R.: "Si, si, vengono a casa e ci dicono: voi dovete andare via, dovete tornare al vostro paese. Ci chiamavano cani italiani."
23) Quanto tempo avevate per andare via?
R.: "A noi ci hanno avvisato cinque o sei giorni, al massimo una settimana prima."
24) Cosa potevate portare con voi?
R.: "Niente! Io avevo un bauletto molto piccolo, dove centro ci avevo messo gli effetti personali e basta. Non avevamo niente. Poi si, chi magari aveva dei soldi li nascondeva, però noi siamo venuti con niente. E poi le devo dire che [la prima] impressione dell'Italia non è stata bella, perché quando siamo sbarcati a Bari nel porto ci hanno detto: state attenti che qua rubano! E porca miseria - [ci siam detti] - ma dove siamo arrivati?!"
25) Lei quindi quando parte?
R.: "Mi sembra nei primi del '46, gennaio, quel periodo lì. Però le partenze son state scaglionate, perché erano navi da guerra, perché è logico che a quei tempi lì...Ti portavano [al porto], cioè andavamo al porto di Patrasso, ti caricavano sulle navi e siamo andati via."
26) Il viaggio lo ricorda?
R.: "Si, me lo ricordo. Era un lunedì pomeriggio, una bella giornata di sole, e mio fratello e gli altri suonavano e cantavano con le chitarre, anche perché sa, un giovane non può capire queste cose. Io quello che ricordo benissimo è che vedevo le lacrime e la disperazione dei miei [genitori], perché dopo trenta o quaranta anni di sacrifici, [riuscire a] prendersi un pezzo di terra e una casa [per poi] doverli abbandonare. Che poi tanti sono morti anche di disperazione, perché non si può vivere trenta o quaranta anni in posto, farsi una famiglia [e poi] trovarsi su una nave e non sapere dove si va a finire e che vita si farà. La disperazione è stata forte, questo me lo ricordo anche se avevo dieci anni. I visi disperati me li ricordo. Tante volte mia madre se piangeva, piangeva di nascosto, pr non farsi vedere da noi figli. E ricordo sempre le parole di mio papà: non fate mai niente in casa degli altri! E lui purtroppo nel '36 non ha voluto [prendere la cittadinanza greca], perché mia cugina mi han detto che glielo avevano chiesto, ma lui non ha voluto. E quando siamo andati via era invece tardi, non c'era più il diritto di cambiare nazionalità, capisce? Perché poi ad esempio ad Atene, c'erano questi due fratelli: e uno lo hanno espulso con la famiglia, l'altro no. E perché è rimasto là? Perché dicevano: questo qui lo espelliamo perché faceva le sfilate [fasciste] e faceva vedere che era un po' il padrone. L'altro che invece era cittadino italiano come lui, è rimasto lì ad Atene, e c'ha ancora i figli che sono cittadini italiani, che hanno la cittadinanza italiana. Quindi non li hanno espulsi, ma l'altro si, perché era segnato col segno rosso, che voleva dire che non si era comportato come si doveva. Un fratello lo hanno espulso e l'altro no."
27) Mi scusi, però la domanda sorge quasi spontanea. Allora come mai voi siete stati espulsi?
R.: "Eh, perché in Grecia [noi di Patrasso] eravamo la comunità [italiana] più grossa. Eravamo migliaia a Patrasso, c'erano delle vie con nome italiano. E ci hanno espulsi perché eravamo tanti, ma ad Atene ne hanno espulsi pochi, a Corinto forse non c'era nessuno perché era lontano."
28) Espulsi e, mi diceva prima, avete avuto le vostre cose requisite...
R.: "Si, si, a noi ci han requisito la casa, e ci hanno messo dentro una famiglia greca, prima che andassimo via, ma [siamo stati con loro] poco tempo [perché poi siam partiti]. E allora mi ricordo che mia madre per prendere i mandarini e gli aranci chiedeva a questa donna il permesso, perché non era più padrona. Ma siamo stati in casa con loro poco tempo. E questa donna - brava - diceva a mia madre: signora, ma cosa mi chiede a me il permesso per prendere la sua roba? E' una cosa ridicola! Però non eravamo più padroni. Però a noi dopo tanti anni ci han riconosciuto i danni di guerra. Ora, io non so quanto la nostra roba potesse valere, però ci han dato 1.050 Lire, che con quella cifra lì in quegli anni forse si comprava una camera!"
29) Mi raccontava prima del viaggio. Quali sono i suoi ricordi?
R.: "Il viaggio...C'era il mare mosso, poi di notte c'era paura che la nave andava a fondo, che affondava, perché era una nave disastrata, erano navi di guerra per portare via i profughi."
30) Si ricorda come si chiamava la sua nave?
R.: "Eh, non ricordo. Era una nave italiana. Ci abbiamo messo un giorno, un giorno e mezzo per arrivare a Bari. E la prima cosa che ci han detto in italiano è stata: state attenti che qui rubano!"
31) Una volta scesi a Bari, avete ricevuto assistenza?
R.: "Scesi dalla nave ci portano via subito e ci mandano a Bologna. In confronto all'accoglienza che danno a desso a questi che sono stranieri, per carità!"
Elisabetta D.: "Noi siamo stati una notte a Bari, abbiam dormito una notte in una scuola dove andavano i bambini che ci han messo lì a dormire, e poi la mattina ci han portato a Bologna. Ci han preso e ci han portato lì."
32) E dopo Bari cosa succede?
R.: "Ci portano coi treni merci a Bologna. E lì era una caserma. Siamo stati in una caserma e dormivamo coi materassi per terra e abbiam passato la notte là. Eravamo tutti greci in quel momento là. Eravamo più o meno nel gennaio del '46, i primi mesi del '46."
Elisabetta D.: "Da quello che mi dicevano era una stalla di cavalli, dentro a una caserma, che dormivano per terra, ma non so come si chiamava."
33) Come mai vi portano a Bologna? Cioè siete stati voi a decidere?
R.: "No, loro ci spostavano, ci mandavano dove volevano loro."
34) Quando parla di "loro" a chi si riferisce, mi scusi?
R.: "Eh, alle autorità. Noi praticamente in Italia siamo stati nelle caserme, e fuori dalle caserme c'erano dei cartelloni con scritto Ministero dell'Interno, Centro di Raccolta Profughi e c'era il posto fisso di polizia. Cioè, dentro faceva servizio la polizia, e chiunque entrava nella caserma doveva dire chi cercava e cosa voleva. E alla sera, a una certa ora, c'era il guardiano notturno. Noi siamo stati in cattività!"
35) Se pensa a Bologna, a questa caserma, cosa le viene in mente, riuscirebbe a descrivermela?
R.: "Eh, mi viene in mente poca roba. So che c'era un bambino - che adesso abita qui a Tortona, si chiama Michele Ventura - che aveva otto mesi e che non ci faceva dormire la notte. E io ogni volta che lo vedo gli dico che mi deve ringraziare, perché quella volta là volevo tirargli il collo! Era una caserma, dove c'erano tutti materassi per terra di paglia."
Elisabetta D.: "Mi ricordo che a Bologna ci portavano dalla caserma del cibo. Ma poi siamo stati poco, un giorno o due."
36) Dopo Bologna dove andate?
R.: "A Bologna siamo stati poco, un giorno o due. Poi succede che ci smistano. Però siccome noi a Bologna - eravamo dieci o venti bambini - abbiamo preso il morbillo, allora volevano mandare via i nostri [parenti], mentre noi restavamo all'Ospedale Maggiore di Bologna. Mio papà e gli altri gli han detto: no, no, se i ragazzi son qui in ospedale noi dove andiamo? E sono rimasti lì. Mia moglie invece è andata a Verona."
Elisabetta D.: "Noi siamo andati a Verona, siamo stati un po' a Verona in una fabbrica di tabacchi. Mi ricordo che c'erano le stufe a legna in mezzo [alla camera] e noi dormivamo lì. Noi siamo stati un po' lì. Siamo stati alla Manifattura Tabacchi - così la chiamavano - e lì era stato allestito un campo per i profughi. E vivevamo là, nei capannoni di lavoro di tabacco, nella fabbrica, dentro. Siamo stati lì un po'. E infatti poi mio papà - che lui le piaceva bere un po' il vino - ha conosciuto una signora che aveva un'osteria. Lui gli ha detto la nostra storia, le ha raccontato da dove venivamo, e allora lei ci ha dato un tavolo di legno della sua osteria, perché noi non avevamo il tavolo, mangiavamo inginocchiati sopra il letto."
37) A Verona ogni famiglia aveva la sua camera?
Elisabetta D..: "No, no, era tutto diviso con le coperte, era la Manifattura dei Tabacchi e c'erano questi capannoni divisi con le coperte. Che a Verona ci han mandato da Bologna."
38) E da Verona poi dove siete stati mandati?
Elisabetta D.: "Da Verona ci hanno mandato in bassa Italia, ad Aversa, in campo."
39) Riesce a descrivermelo il campo di Aversa?
Elisabetta D.: "Era un ospedale militare e han messo dentro noi con le coperte. Da Verona ad Aversa siamo andati in treno, che questo treno qui era bucato sopra e faceva freddo. E c'erano i miei cugini di Milano che hanno trovato delle cose da bruciare e abbiamo fatto il fuoco nel treno. Ad Aversa siamo stati un po' di anni. Era un ospedale militare e dentro ci davano da mangiare, davano la minestra: andava mia mamma con la pentola e ci davano da mangiare. Poi veniva l'UNRRA che ci dava i vestiti, ci portavano i vestiti. Mia sorella - la terza - si chiamava Adriana, però invece di darci i vestiti da femminuccia, ci davano i pantaloncini dei bambini perché si sbagliavano la vedevano Andrea e non Adriana. Le camere erano di cartongesso, ogni famiglia aveva la sua stanza, però si sentiva tutto. Eravamo noi greci e anche altri, che cominciavano ad arrivare profughi da tutte le parti. Mio papà è morto ad Aversa, e noi siamo stati lì fino al '56."
40) Quindi è stata molto tempo. Lei dalla Grecia quando è andata via?
Elisabetta D.: "Nel '46. Sono stata a Bari, appena arrivata con la nave, a Bari vecchia. Che lì ci avevano portato in una scuola, mi sembra Regina Elena. Siamo stati lì e poi son venuti i camion e ci hanno portato a Bologna, che Bari Bologna la strada era poca. E poi ci han portati a Bologna che era una caserma, ma mi ricordo [che ci avevano messo] in una stalla dei cavalli. E dormivamo sopra i sassi con i materassi che ci avevano dato. Ma là siamo stati poco, perché poi siamo andati a Verona e da Verona siamo poi andati ad Aversa. Che ci mandavano loro in queste parti."
41) E dopo Aversa?
Elisabetta D.: "Ci siamo spostati, abbiam fatto domanda per venire a Tortona e siamo arrivati qui. Abbiamo chiesto il trasferimento per venire a Tortona. [Abbiamo scelto Tortona] per fare lavorare i ragazzi [cioè noi figli], perché là c'era miseria nera. Io sono arrivata qui alla Caserma Passalacqua e siamo rimasti lì fino a che non ci hanno dato le case."
42) Ritorno da lei, signor Luigi. Mi stava dicendo che a Bologna aveva preso il morbillo...
R.: "Si, e siamo stati all'ospedale quindici giorni. I nostri genitori li avevano invece alloggiati in una scuola, e li portavano da mangiare. E avevano paura del contagio del morbillo. Poi noi siamo stati dimessi e ci hanno mandati a Novara, alla Caserma Perrone, e siamo stati otto mesi a Novara! Però lì siamo stati pochi mesi, e ricordo che facevamo la fila per il mangiare. Siamo stati otto mesi a Novara e poi ci hanno portato a Tortona. Allora [mentre venivamo] col treno, siamo passati da Novi, ma Novi non ci volevano, perché c'era la caserma anche a Novi. Ma non ci volevano. E non ci volevano neanche a Voghera, non ci voleva il sindaco di allora, diceva che non voleva i profughi. Allora questo che si chiamava Mario Scilla e che era il sindaco di Tortona, ha detto: ma sta gente non può andare su e giù! C'era una caserma che era vuota, non c'era nessuno ed era grossa, prende quattro vie! E allora queste famiglie - venti o trenta - di greci con i loro bambini che erano stati all'ospedale, siamo andati dentro questa caserma. Siccome era vuota, ci hanno fatto scegliere, e noi abbiam scelto il pianterreno, per non fare scaloni. E io son stato là dodici anni, dal '46 al '58."
43) Voi, si può dire, che avete quindi inaugurato il campo...
R.: "Si, si. Qui hanno aperto il portone per noi, perché era vuoto! Perché i militari non c'erano più. Non c'era niente. Andavamo in fila a prendere il mangiare e poi si cominciava a lavorare. Però ci davano [un sussidio] di 100 lire al giorno, però se beccavano che uno lavorava, gli tiravano via la 100 lire, è logico! Noi a pianterreno avevamo un camerine di dieci metri per sei, ed eravamo una famiglia sola. Sopra erano tutti camerini lunghi, e lì erano tutti divisi con le coperte: avevano messo dei pali, e lì dividevano con le coperte. Facevano da mangiare e dormivano, tutto là. Si figuri lei che fortuna hanno avuto che fino al '59, quando l'han chiuso, che non è successo mai niente. Che lì era tutto in promiscuità, capisce? Che poi noi siamo rimasti in tre - da otto siamo rimasti in tre - e ci hanno messo una famiglia dentro [la nostra stanza]. Mi ricordo che un giorno il direttore arriva e dice che questi devono venire a stare con noi. Arrivavano dalla Jugoslavia. Che prima ci han messo un sarto col figlio che a mezzanotte si metteva a cucire: han diviso [la camera], han preso i pali piantati dentro il pavimento, alti due metri, e han diviso con le coperte. Si figuri come si viveva! Poi è andato via il sarto, e sono arrivati due sposini di vent'anni con la bambina. Però io son stato poco lì, perché son partito militare."
44) Ho visto alcune foto del campo di Tortona, al cui interno c'erano tutta una serie di servizi come scuola, infermeria, asilo...
R.: "Io ho fatto le scuole qui al campo, c'erano le scuole elementari all'inizio e io ho fatto la prima a dieci anni, d'altronde cosa devo fare?! Poi davano da mangiare, davano cinque chili di legna al giorno per scaldarsi di inverno, ma si figuri, quando accendevi la stufa in un camerine di dieci metri alto sei, dopo mezz'ora il fuoco [non c'era già più]! Poi c'erano i letti tutti in fila, e dopo quindici giorni ti cambiavano la paglia ai materassi. Poi dopo tanti anni sono riusciti - in sette od otto [profughi] - ad aprire una cooperativa nel campo e allora si comprava lì. Poi ci hanno levato la cucina, cioè perché prima ci si metteva in fila per il mangiare. Poi han tolto la cucina e ognuno a casa sua si arrangiava: ci davano quelle 100 lire al giorno e uno si aggiustava, cioè hanno tolto il mangiare e ci davano 100 lire. Però se uno lo beccavano a lavorare gli levavano le 100 lire."
Elisabetta D.: "Noi avevamo fatto un buco per la legna, per fare uscire il fumo. Perché noi a Tortona non avevamo finestre, perché eravamo divisi: da una parte c'eravamo noi e dall'altra c'erano le prigioni dei militari. Entravamo da una porta e non avevamo finestre, per cui avevamo fatto un buco nel muro per fare uscire il fumo della stufa."
45) In campo a Tortona ricevevate anche dei vestiti?
R.: "No, no, poca roba. Le dico però che mio fratello a Bologna, dove c'erano questi camion che portavano [gli aiuti] del piano Marshall, lui con altri tre o quattro andava a scaricare, e hanno portato via qualche maglietta. Che poi li han beccati e mio fratello e altri due, li han presi e li han messi in prigione a Bologna. Poi qui quando ha dovuto aprire un negozio, era scritto che era stato in prigione in tempo di guerra...Tutto per aver portato via due maglie, si figuri!"
46) Parlando ancora del campo profughi, posso chiederle com'era la vita quotidiana?
R.: "Eh, la vita...Uno si alzava, andava a scuola e le persone più grandi andavano a lavorare. Perché qui davanti a noi, davanti alla Caserma, c'era un grande deposito di frigoriferi, e allora quando arrivavano i treni con la roba sotto ghiaccio [loro andavano a scaricarli], anche perché i tortonesi per lavorare sono un po' sinistri [non avevan tanta voglia]. Noi invece andavano lì a lavorare, una giornata, se c'era lavoro. Poi qua c'era anche la Manifattura Tabacchi e loro [cioè i profughi] andavano al mattino: se avevan bisogno lavoravano, se non avevano bisogno tornavano casa. Andavano a scaricare il tabacco, a fare manovalanza. In più in un altro paese qui vicino, a Bozzolo Formigaro, prima di Novi, c'erano i grandi magazzini e se c'era bisogno di scaricare i vagoni qua e là, questi qui partivano con la bicicletta e andavano a scaricare. Cercavano di lavorare."
47) Prima parlando del campo ha fatto cenno alla promiscuità. Un elemento che credo abbia inciso, e non poco, sulla qualità della vita in campo...
R.: "Ma, io penso che le persone si abituano quasi un po' a tutto. Cioè, perché in quei momenti lì non c'è più intimità, che intimità vuoi che ci sia? Uno vive alla giornata. Alla sera ci davano la luce alle sei, quando diventava buio, durante il giorno non c'era la corrente e non si poteva attaccare i fornelli elettrici, altrimenti saltava il contatore, anche perché in ogni camera c'era la valvola. Allora veniva un addetto del campo con la scala alta due metri per fare contatto, perché la luce ce la davano loro. Alla sera alle otto e mezza c'era il radio giornale, e chi aveva la radio? Nessuno! Allora fuori tra gli alberi si sentivano le notizie, sotto le piante. Poi c'era una chiesa dentro interna dove uno andava alla messa, c'era un'infermeria - sempre a disposizione è logico- c'era chi distribuiva la legna, chi dava via la posta. Niente, si viveva alla giornata. Poi c'erano anche le suore che guardavano i bambini."
48) Lei arriva in Italia da bambino, e da bambino conosce l'esperienza dei campi profughi. Io credo che la percezione di un bambino sia molto diversa da quella degli adulti relativamente all'impatto con la realtà del campo. Lei che ne pensa?
R.: "La percezione è questa, e cioè che uno cresce più in fretta [perché] non c'è giovinezza, e vuol dire tanto. Cioè, passo dalla fanciullezza all'età adulta. Cioè, io a quindici anni andavo già a lavorare. Per le persone adulte [invece] secondo me il campo era la fine di tutto. Era la fine di tutto perché i ragazzi fino a dieci vent'anni vivono, fanno l'amore, giocano. Ma una che c'ha cinquant'anni come mio padre, che viene portato via da casa sua e viene messo in cattività, è come vivere come un animale. Ricordiamoci questo, non c'è paragone [tra giovani e adulti]. E' la fine di ogni sogno e di ogni speranza, perché quando mia madre si lamentava [di] qualcosa, cosa diceva mio padre - buonanima-? [Le diceva] cosa piangi, che abbiamo cinque ragazzi in casa! Cavolo, cinque ragazzi! E ti trovi a cinquant'anni in campo con cinque figli che non hai niente! E qualcuno può essere morto, lentamente, di crepacuore. Cioè, internamente, io ho visto piangere diverse volte mia madre, però piangeva da sola, di nascosto, senza farsi vedere. Sa, i giovani si adattano: lei prenda un ragazzo di dieci anni, si può adattare in qualsiasi modo, ma un uomo di cinquant'anni, come fa ad adattarsi? Difatti a Firenze, che la più grossa comunità di greci erano a Firenze, han fatto manifestazioni, poi li han divisi nei campi, andavano a fare il contrabbando. Tanti han fatto i soldi anche con il contrabbando di sigarette! "
Elisabetta D.: "Sa, avere qualcosa prima [e poi, all'improvviso] trovarsi insieme ai profughi di qua e di là, per i nostri genitori è stato un affare, [un trauma], troppo grande. Sa, come mi raccontava mia suocera, che [in Grecia] avevano gli aranci, avevano gli olivi, beh, trovarsi là [in campo] è stato durissimo. Quando noi - con mio marito - siamo andati la prima volta in Grecia, le abbiamo portato i mandarini e lei si è messa a piangere, perché erano i mandarini delle sue piante. Lei si è messa a piangere, poverina!"
50) A Tortona, alla Caserma Passalacqua, quanti eravate voi profughi greci?
R.: "Qui saremmo stati venti o trenta famiglie, neanche, perché poi non sono più arrivati. Dopo cominciano ad arrivare prima quelli dell'Istria - nel '50-'51 - quelli dei territori di là. Qui eravamo 1.200 persone."
51) E com'erano i rapporti tra voi profughi?
R.: "Erano abbastanza buoni. Qualche baruffa succedeva quando andavano a ballare qui a Tortona, che ogni tanto facevano a botte, [perché i tortonesi] non volevano che [le ragazze] ballassero coi profughi. C'era mio fratello che lui aveva la fidanzata a Tortona e [i genitori di lei] dicevano piuttosto che far sposare una figlia con un profugo l'ammazzo!"
52) Questa è una frase che mi porta a farle un'altra domanda. E cioè vorrei sapere com'è stata l'accoglienza che avete ricevuto dai tortonesi...
R.: "Io ho sempre fatto l'imbianchino e il tappezziere in casa della gente. Però dei giornali, cioè dei giornalisti ho molta diffidenza, anche se non di tutti, eh... Perché io mi ricordo che avevo letto un articolo su "La notte" di Milano, che c'era Nino Nutrizio allora. E avevo letto un articolo su "La notte" che parlava del campo profughi di Tortona, e c'erano delle cose inesatte, cioè c'era scritto che addirittura in tortonesi evitavano di passare da corso Alessandria, e questo non è vero. Perché io lavoravo in casa degli altri, e non è che gli dicevo che ero di Tortona, ma gli dicevo che venivo dall'estero. E quindi l'ostilità non c'è mai stata, non c'è mai stata un'ostilità vera e propria. Bisticciavano per le ragazze!"
53) Però, altre testimonianze rivelano l'esistenza di modi di dire che connotano negativamente i profughi. Ad esempio sembra fosse molto diffusa tra i tortonesi la frase detta ai bambini stai bravo se no ti faccio mangiare dai profughi...
R.: "Si, quello si, però...Vede, il diverso è sempre mal visto in qualsiasi posto. E noi all'inizio eravamo i diversi. Però c'è anche da dire che i lavori più brutti li facevano sempre i profughi, perché quelli di Tortona arrivavano la Foro Boario - che cercavano dei lavoratori - i tortonesi non volevano fare tutti i lavori, invece i profughi partivano, si facevano dieci chilometri e andavano a scaricare i vagoni. Che c'era un bar dove [andavi] se volevi cercare di fare dei lavori. E andavano sempre i profughi. I tortonesi, invece, magari tribolavano, potevano anche mangiar meno, però non andavano a scaricare i sacchi con lo stoccafisso. Capisce? Si, all'inizio comunque eravamo visti un po' così, però sa, dipende anche dalle popolazioni. I tortonesi sono abbastanza chiusi, ma [in generale] i piemontesi sono chiusi. Cioè, [ad esempio], lei se va in Liguria difficilmente si fa un amico, se lo ricordi questo...Ma se va nei paesi della Lombardia si. Difatti noi quelli che conosciamo a Rapallo - perché abbiamo lì una casa - son gente di via, perché quelli del posto difficilmente fai amicizia. Son diffidenti!"
54) Voi avete vissuto queste vicende drammatiche dello sradicamento da casa vostra, del campo profughi e di tutto ciò di cui abbiamo parlato fino ad ora. Le faccio una domanda, e cioè vorrei sapere se secondo lei la popolazione - e parlo dei tortonesi, dei bolognesi, dei fiorentini - aveva minimamente un'idea di quello che avevate passato e vissuto?
R.: "Eh, non credo. Non credo che quelli del posto si interessino tanti di chi sta male, la diffidenza rimane sempre. Poi ci sono i casi - limite - di quelli che dicono che piuttosto che sposare un profugo ammazzo mia figlia, ma questi sono casi così. L'è un profug, dicevano, profugo, profugo."
55) Le ho fatto la domanda sull'accoglienza della popolazione, perché io ho studiato molto le vicende dei profughi istriani e loro, soprattutto all'inizio, sono stati accolti con molta diffidenza - direi anche con ostilità - da parte della popolazione locale, e quindi volevo capire se ci fossero delle differenze con voi profughi greci...
R.: "Eh, ma vede, loro erano migliaia. Perché qui è arrivata dall'Istria gente che erano migliaia. E' stato un esodo, noi cosa vuole che sia [in confronto]...Invece di là sono arrivate regioni intere, e poi la storia non è bella, perché molti di loro ci hanno rimesso la vita. Noi invece in Grecia no, non ci sono stati fatti violenti che hanno coinvolto la popolazione, quello no. Io ho sempre dormito con la porta neanche chiusa. No, no, atti di violenza non ci sono stati."
56) Voi restate in campo profughi a Tortona fino a che anno?
R.: "Fino al '59. Poi nel settembre del '59 hanno fatto sessanta o settanta case - il ministero dell'interno - qui a Tortona, e centoventi- centotrenta appartamenti al rione Cristo di Alessandria. Chi voleva optare per andare ad Alessandria poteva farlo. Che queste case venivano assegnate per niente, cioè si pagava niente, poco. Allora noi abbiamo deciso di restare a Tortona, che sono sessanta o settanta case, invece ad Alessandria ne han fatti centocinquanta. Che qui a Tortona le case le han fatte in via Saccagi, che han messo anche fuori al targhetta. Sono case di due camere, massimo tre."
57) Posso chiedervi che effetto vi ha fatto entrare in una casa dopo tanti anni di campo profughi?
R.: "Io non mi ricordo, perché sono andato a fare il militare nel '58. Quando io son venuto qui nella casa, son venuto da militare, capisce?"
Elisabetta D.: "Io ero contenta, per forza, perché mia madre aveva quattro femmine più un altro mio fratello, eravamo in sei e ci han dato tre camere. Andare via dal campo e andare in una casa è proprio tua è stata una bella cosa, per forza! Anche se era piccola, anche se noi non l'avevamo piccola: eravamo sei e ci han dato due camere e la cucina grossa. E sa, avere deu camere, al cucina e il bagno dentro per noi era una cosa... Era un bagno di tre metri, però c'era!"
58) Perché in campo il bagno era comune...
R.: "Era uno stanzone, due stanzoni dove che adesso ci sono gli uffici di collocamento, erano lì i bagni."
59) In qualità di profughi ricevevate assistenza, me lo avete detto prima. Anche dal punto di vista lavorativo, credo, perché le fabbriche dovevano assumere una percentuale di profughi, se non sbaglio...
R.: "Si, c'era una legge che però non conoscevamo. Cioè c'era la legge che noi eravamo equiparati a mezzi invalidi e le fabbriche dovevano assumerci, mi sembra il 5%. Ad esempio io lavoravo fuori, volevo andare a lavorare sotto lo Stato, ma non sapevamo di questa legge. Ma a Torino che c'erano molti profughi, c'era alla Vallette un ufficio addetto e forse potevo andare a chiedere. Ma non sono andato. Noi eravamo avvantaggiati, però per tanti anni non lo sapevamo, eravamo agevolati. Comunque, grazie a dio il mio lavoro l'ho fatto, mi sono preso sta casa e non ho mai voluto fare domanda di casa popolare, che me l'avrebbero anche data. Io lavoravo in casa degli altri, ma ho sempre sognato di avere una casa mia e dicevo dai che ci arriverò , ci arriverò. E ci sono arrivato, son riuscito anche ad avere le pesche davanti a casa! Nella vita bisogna avere sempre fiducia. "
Elisabetta D.:"Si, c'era questa legge che ci dovevano assumere, e allora questi qua [i tortonesi] non ci potevano vedere, perché dicevano che gli portavamo via il lavoro. Dicevano ah, siete profughi, siete profughi, siete profughi, c'avete la casa, il lavoro e tutto. Perché noi abbiamo la qualifica di profughi. E le fabbriche si, si, ti prendevano: chi aveva la qualifica di profugo lo prendevan, se dovevano - metti casi - assumere cinque operai, tra questi doveva esserci dei profughi, per legge."
60) Ora vorrei fare una domanda alla signora, che prima non ho fatto. Mi può raccontare l'espulsione della sua famiglia dalla Grecia? Cosa ricorda di quei momenti?
Elisabetta D..: "Io sono nata a Patrasso nel 1935. Mio mamma era greca - cioè era italiana ma era stata battezzata in greco, era ortodossa - e mio papà - che era delle Marche - è andato in Grecia che era giovane, con la famiglia, con mio nonno e mia nonna. E son vissuti là. I miei nonni sono andati in Grecia per lavorare. Mio papà lavorava in una fabbrica di uva passa, e mia mamma lo stesso, lavorava lì. E ricordo che mio papà e mia mamma raccontavano che [le autorità greche] erano venute a casa a dirgli: voi tale giorno dovete partire. Preparatevi ad andare che arrivano le navi. E mia mamma si è messa a piangere. Quando mio padre è tornato dall'ufficio che lo avevano chiamato per mandarci via, le diceva: sai, Cristina, dobbiamo andare via, dobbiamo andare in Italia perché qua non possiamo più stare, siamo in territorio greco, sa com'è. E mia mamma si è messa a piangere, perché dice: sono nati i bambini, e dove andiamo? E così abbiamo caricato quella poca roba - la biancheria intima, perché non si poteva portare tante roba - e ci han portati sulle navi. Ci hanno messi nelle navi e ci han portati via."
61) Il viaggio lo ricorda?
R.: "Poco. So che mia madre mi raccontava che una volta arrivati in Italia non sapevamo dove andare, sbattuti da un campo all'altro, c'era incertezza. Fino a che poi non siamo arrivati qui al campo e siamo stati qui."
62) Voi avete nostalgia della Grecia?
Elisabetta D.: "Io dico la verità, non è che ho nostalgia, però mi piace. Quando torniamo, ad esempio adesso ho portato anche mio figlio per fargli vedere dove abitavamo, abbiamo trovato i parenti che ci hanno fatto una bella accoglienza. Però quando vedo che sento parlare il greco, mi sembra di stare a casa. Insomma, la nostalgia dove sei nato c'è sempre. Pensi che quando siamo arrivati qua e abbiamo visto la nebbia, ci siamo detti: ma cos'è questa cosa qui?!"
R.: "La neve non l'abbiam mai vista noi là in Grecia. Comunque si, certo, un po' di nostalgia c'è sempre. Vede, nel 2000, abbiam preso una casa di due camere a Rapallo. E quando vado a Rapallo vedo il mare e sono contento, perché mi dico: vedi, gira, gira quell'acqua lì va a finire al mio paese!"
63) Voi come greci avevate alcune tradizioni, credo, anche dal punto di vista alimentare. Le avete mantenute begli anni?
Elisabetta D.: "Loro [i greci] non mangiano la pasta come noi, il minestrone con la verdura, ad esempio, non lo fanno. Ma noi mangiavamo anche greco, mia mamma cucinava greco. E io anche cucino ancora in greco, ad esempio io faccio le verze, che le faccio sbollentare un po' e poi dentro ci metto riso e carne macinata, ed era un piatto greco. Io i dolci che facciamo noi qua li faccio io: in Grecia fanno col burro e la farina dei dolci bianchi bagnati con l'anice. Poi faccio i taralli con le uova, cioè faccio ancora oggi delle cose greche."
31/05/2012;
All'intervista partecipa anche la moglie del testimone, che a volte interviene. I suoi interventi sono riportati e segnalati nella trascrizione dell'intervista.
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