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CARTACEO: Intervista a Nicola G.

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C00/00352/02/00/00005/000/0047
Intervista a Nicola G.
Nasce nel 1932 nella provincia di Avellino da una famiglia di contadini, che nel 1939, attratta dalla propaganda fascista, parte alla volta della Libia. Nel 1940, dopo lo scoppio della guerra è rimpatriato insieme ai suoi fratelli e ai tanti ragazzi della quarta sponda. Arriva in Italia e inizia un lungo peregrinare all'interno delle colonie predisposte dal regime per accogliere questi piccoli italiani. Andrà prima a Napoli, poi a Fiesso Umbadiano (RO), Marina di Massa e San Remo. Nel 1942 ritorna nella provincia di Avellino a casa di alcuni zii. Nel 1946 a guerra terminata, decide con i suoi fratelli di ritornare in Libia, dove può riabbracciare i suoi genitori. Vi resta fino al 1955, quando l'intera famiglia ritorna definitivamente in Italia in qualità di profughi. Dopo un soggiorno al Centro Raccolta Profughi di Aversa, riesce a ottenere un alloggio di ediliza popolare a Napoli. Lavora come operaio in una ditta tessile e nel 1961 si trasferisce a Torino, dove trova impiego prima alla STIPEL e, successivamente alla RAI. E' stato intervistato il 26 aprile 2012. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Sono nato il 21 settembre 1932 a Teora, in provincia di Avellino. Siamo partiti per la Libia nel '39, a ottobre del '39. La traversata fu molto lunga, praticamente fu una crociera."

2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine...

R.: "Eravamo mezzadri, contadini, ma non su terreni di proprietà. Per cui si era soggetti al proprietario, il padrone come si diceva allora - e come si dice ancora oggi - e naturalmente dovevi fare quello che voleva lui. Dopo di che, dopo aver lavorato e faticato tanto, alla fine del raccolto e della trebbiatura si arrivava e davano una misura a me e una misura a te. E per cui questo era, non è che si potesse contestare. Era così. E allora, a un certo punto, [visto anche] che la famiglia era abbastanza numerosa: eravamo sette figli, io ero il più giovane, il più piccolo, avevo sette anni. E mio padre venne a sapere, un giorno che era andato al paese che c'erano... Aveva visto un bando, si fece leggere che cosa c'era scritto, perché lui sapeva leggere appena, appena qualcosa, sapeva fare la sua firma. Si, leggeva qualcosa, ma non era in grado di seguire questo piccolo testo e capirne poi il significato. Gli spiegarono che c'era la possibilità di poter andare in un certo posto che era al di là del mare... Ma mica si rendeva conto che cos'era! [Un posto] che era territorio italiano e, in effetti, la Libia era territorio italiano: ecco perché si dice quarte sponda. I ragazzi della quarta sponda, sono i ragazzi che sono stati poi nel 1940 rimpatriati, con cartolina di precetto. [Si parla di] 13.000 ragazzi portati in Italia con la scusa che c'era, imminente, lo scoppio della guerra. Sarà stato anche per questo, ma la realtà, vera, è che c'era bisogno di indottrinamento. Ma lasciamo da parte questo, per un momento, e ritorniamo dove eravamo prima."

3) Mi stava dicendo che voi avete deciso di partire forse perché attratti da un miraggio...

R.: "No, no...Veniva offerta una casa, un bell'appezzamento di terreno dove sotto la guida del regime di allora, si veniva guidati e aiutati a iniziare un certo tipo di lavoro dove ci si poteva affrancare dalla mezzadria. E quindi era un qualcosa in più: la prospettiva offriva qualcosa. Questo mi hanno spiegato i miei genitori. In realtà sarebbe andato molto meglio se non fosse scoppiata la guerra, perché dopo sette mesi che eravamo arrivati - forse [anche] meno di sette mesi - scoppiò la guerra, per cui tutto cominciò a cambiare. Le risorse del paese dovevano andare tutte sul fatto bellico e non sull'aiuto da dare a chi doveva intraprendere qualcosa. Noi, in effetti, trovammo quando siamo arrivati, in aperta campagna, che arrivammo di notte...[Ricordo] che [appena arrivammo] rimanemmo, non so come poterlo spiegare...[Rimanemmo] impauriti, perché ci rendemmo conto che la terra non era un terreno normale, era sabbia, era tutta sabbia! La casa era molto bella: c'era una grande cucina di circa sei metri per sei, tre camere da letto belle grandi, il forno a legna, fuori, e poi staccato di circa venti metri, c'era una stalla, dove c'era la possibilità di poter mettere la mangiatoia di un cavallo che era più alta di quella dei buoi e almeno quattro bovini. C'era questo spazio, più o meno. Poi c'era un magazzino che così, a occhio, potrei andare sui sette [metri] per sette, diciamo otto [metri] per otto. Sul retro di questa casa c'era un porcile, un pollaio e il gabinetto con accanto il pozzo. Non il pozzo pendente, ma una vasca dove sarebbero finiti i liquami per poi raccoglierli e poterli utilizzare in agricoltura. Quindi, questo per descrivere che cosa abbiamo trovato. Cosa c'era in casa? Intanto la luce accesa, perché in ogni casa c'era un qualcuno messo da chi organizzava queste cose, e ci fecero trovare la luce accesa. A petrolio, naturalmente. La luce accesa...E in casa trovammo [anche] un sacco di farina, non so quanti chili di zucchero, poi olio di oliva...Insomma, fummo accolti bene e quello che si trovava in casa era un'abbondanza, una grazia di dio, si diceva allora. E quindi [eravamo] contenti di questi, ma di quello che c'era [all']esterno, di fuori, mio dio! Quando fece giorno, i miei fratelli che erano più grandi rimasero esterrefatti: era un deserto, non c'era nulla! Non c'era un albero, niente. Solo cespugli spinosi e nient'altro. Il terreno che era stato assegnato al nostro podere era di trenta ettari, e di qui in poi fummo assistiti abbastanza da chi era [preposto]. C'era un'ottima organizzazione, e c'era bisogno di una guida su come comportarsi e anche di un aiuto morale, anche sotto una specie di conforto. Addirittura organizzavano dei divertimenti: passavano coi pullman, ci caricavano e ci portavano al centro del villaggio, dove veniva proiettato un film, oppure dove [c'era] il ballo. Insomma, ci fu una buona assistenza per i mezzi di allora, non si può rinnegare questo: come organizzazione c'era un'organizzazione che dire soddisfacente era forse anche dire poco. Questo è quello che abbiamo trovato. Dopo di che da qui in poi, siamo stati assistiti, tutte le famiglie. Assistite e guidate su quello che bisognava fare per rendere questo terreno coltivabile: per cui ci insegnarono che con palo e picco bisognava estirpare tutti quei cespugli spinosi, farne una grande ammucchiata e trasportarli vicino casa. [Questi] servivano poi per fare il pane, quindi servivano per il forno a legna. Ma disboscare trenta ettari, accidenti! Va bene che la famiglia era abbastanza numerosa, [però]...E naturalmente questo [lavoro] si fece mano a mano: una prima parte venne fatta perché vennero a tracciarci i posti, tutto lineare, preciso e squadrato, dove ci veniva assegnato il punto dove bisognava fare una buca di un metro cubo, perché lì doveva essere piantato un olivo. [Misurava venti metri per larghezza e venti metri per lunghezza. Nel mezzo che c'era una larghezza di venti metri, ci segnarono sei filari di viti. E, naturalmente, vennero coi trattori e ararono il terreno. Ma dopo di che ci voleva olio di gomito e cioè palo e picco e scavare sia i tracciati, sia le buche per le viti e per piantare questi alberi. Le piante ci venivano portate da loro, noi non dovevamo comprare nulla."

4) Mi scusi, ma quando parla di loro a chi si riferisce?

R.: "L'organizzazione. Si chiamava Ente per la colonizzazione della Libia. Questo era l'Ente [che poi], naturalmente, aveva la sua organizzazione con tutte persone molto qualificate e molto preparate in agricoltura. Per cui loro erano quelli che ci facevano arrivare le piante. E [per] ogni pianta che veniva piantata, era stato studiato il punto dove doveva essere messa. Sempre filari, diritti, precisi, sia in direzione che per traverso. E quindi tante piante di eucalipto, pente di argia australiane [poi] fecero piantare un boschetto e poi tanti ulivi. Tanti ulivi, circa cinquecento piante, si cominciò a piantare due o tre ettari di viti. E naturalmente, prima ancora di cominciare [questi lavori], ci fecero seminare dell'orzo e del grano, perché c'evo un aratro con dei trattori. E poi trovammo l'attrezzatura: palo, picco, zappe, aratro. Aratro da trainare o da buoi o da cavalli o da muli. Quindi ci diedero una cavalla, molto giovane, la Nina. Noi che proveniamo da questo tipo di contatto con la natura, eravamo in condizione di affezionarci anche alle bestie per cui, come vede, io ricordo ancora il nome di quella cavalla che ci avevano dato. Il raccolto veniva immagazzinato dall'Ente. E questo perché gli adulti erano stipendiati - erano pagati - e la paga che veniva data non era un granché. Però la famiglia andava avanti. Anche perché passato...Cioè, la prima fornitura che avevamo trovato, poi si incominciava ad andare ai mercati a comprare le cose che servivano. E con quella paga [insieme] a una vita molto parsimoniosa. Per cui la pasta si faceva in casa, il caffè era caffè d'orzo, [anche perché] chi si poteva permettere il caffè? Non lo conoscevamo neppure! Ma intento si incominciò a fare una vita completamente indifferente rispetto a quella che avevamo in Italia: intanto al mattino si faceva colazione tutti insieme, [mangiavamo] il latte con il caffè d'orzo e pane. Tutta la famiglia intorno a un tavolo, e poi si andava a lavorare. I bambini [andavano] a scuola...E quindi, questa era la partenza."

5) C'erano quindi anche dei servizi suppletivi...

R.: "Certo, c'era tutto. Non c'erano...C'era una chiesa, ma era lontana da noi circa undici chilometri, ma veniva un francescano nelle varie zone a dire messa, tutte le domeniche. Quindi, anche sotto questo aspetto, c'era l'assistenza umana e questo lo devo riconoscere. Perché mi soffermo su queste cose? Perché l'indottrinamento che è venuto dopo, quello che hanno cercato di farci, questa è stata una cosa tremenda! Ecco dove entro in conflitto con quello che ho trovato. Sembra una contraddizione: mentre riconosco l'organizzazione per chi voleva - per il regime di allora - colonizzare quel territorio, era stato fatto bene. Questo si, ma l'indottrinamento è un'altra cosa."

6) Dopo ci arriviamo. Ora vorrei chiederle quante famiglie eravate...

R.: "Nel nostro villaggio che si chiamava Villaggio Garibaldi, che era a circa trenta chilometro da Misurata, [parlo del] centro [del villaggio], perché era lungo trenta chilometri questo villaggio."

7) In che senso era lungo trenta chilometri?

R.: "Allora, c'erano quattro fili di poderi e ogni podere era di trecento metri di larghezza e mille di lunghezza. Per cui il territorio che veniva occupato da questo villaggio era di quattrocento metri di larghezza per una lunghezza di circa trenta chilometri, circa. Ma dopo pochi mesi che eravamo là, [perché] noi siamo arrivati in ottobre, e nel mese di febbraio, marzo così...Intanto ci fecero tutte le vaccinazioni: c'era anche l'assistenza sanitaria, per quel che era possibile ma c'era. Era tutto gratuito. [A febbraio e a marzo], cominciarono ad arrivare gli avvisi che tutti i bambini - io ricordo - dai tre ai quattordici anni - anche se qualcuno dice dai quattro [anni]- erano precettati. Io la definisco una cartolina di precetto, dove diceva che tutti questi bambini venivano rimpatriati in Italia, perché era imminente lo scoppio della guerra e si volevano mettere in salvo i bambini, perché non si sapeva il fronte dove sarebbe arrivato, anche perché in Egitto c'era il dominio inglese, e quindi c'erano le truppe inglesi. Per cui, dicevano, che se ci sarebbe stata un'avanzata dell'esercito nemico - che quello era nemico, non avversario - mettiamo almeno i bambini in salvo. Questa fu la motivazione detta, la motivazione data alla gente. E nessuno osò ribellarsi. Tutti i bambini del nostro villaggio compresi in quell'età, venimmo rimpatriati. Credo che se ne salvarono un paio, perché in quel momento avevano l'influenza. Tutti gli altri, via! E partimmo da casa il 7 di giugno del 1940. Per cui, eravamo arrivati là a fine ottobre inizio di novembre, ed erano passati solo sette mesi, neppure. E tutti questi bambini vennero rimpatriati."

8) Voi dunque partite dal villaggio...

R.: "Ci prendono con dei pullman dal villaggio, dove ci fu la raccolta di tutti i bambini. [Fummo] caricati sui pullman e portati a Tripoli, dove una notte dormimmo, ma non ricordo dove e come - forse su un fieno - perché eravamo in tanti, 13.000. E la mattina dopo si partì, in nave. Non ricordo quante navi [ci fossero], ma erano parecchie: sbarcammo a Napoli il 10 di giugno."

9) Che ricordi ha del viaggio?

R.: "Ricordo che mentre sbarcavamo, c'era il bollettino col discorso di Mussolini - mentre noi stavamo sbarcando a Napoli - che veniva dichiarata [guerra]. C'era la dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia. Noi non capivamo, ma avevano incominciato a inculcarci dentro la patria, gli altri erano i nemici, i sopraffattori. Cosa ne capivamo noi di queste cose? Nulla, ne capivamo nulla. Per cui fummo poi sparpagliati in tutta Italia: io e le mie sorelle finimmo a Fiesso Umbardiano, in provincia di Rovigo. Ed era una colonia stupenda, ci fecero divertire, fecero di tutto per farci dimenticare la nostalgia della famiglia."

10) Con cui avevate dei contatti o no?

R.: "Si certo, si, ci si scriveva. La corrispondenza viaggiava: ci impiegava otto giorni prima che arrivassero le lettere, ma le mie sorelle scrivevano anche per me, perché io avevo appena cominciato la scuola. Lì ci fecero divertire in tutti i modi."

11) Arrivati a Napoli, se ho ben capito, siete stati divisi. Ma dove? Nelle varie colonie?

R.: "Nelle varie colonie."

12) Si ricorda da chi erano gestite queste colonie?

R.: "Da tutto il personale legato al regime di allora. Legate o no, non lo so, comunque facevano parte dell'organizzazione che doveva accogliere questi 13.000 bambini dislocati nelle varie località dove c'era spazio. Molti sono finiti a Cattolica, Riccione, sono finiti in molti posti. Ma noi, a Fiesso, ci siamo rimasti pochi mesi. Ci siamo rimasti in inverno, dopo di che ci mandarono a Marina di Massa. Alla Colonia Torino, [che] allora si chiamava XXVIII ottobre. Le dice qualcosa 28 ottobre? Ecco, appunto! Ed eravamo 1.500. Per fortuna i maschi da una parte e le femminucce dall'altra, tutti...Ogni squadra era composta di trentatre - trentaquattro bambini, per cui quando ci si muoveva eravamo in fila per tre con un caposquadra, una vigilatrice e un'accompagnatrice. Le accompagnatrici erano le figlie degli italiani che erano in Libia. Erano quelle che ci avevano accompagnato fino alle colonie. Ma lì si trovò la vigilatrice che era la responsabile, ben organizzata e ben attrezzata, mentre le accompagnatrici erano le figlie delle famiglie, non avevano preparazione. Avevano però la capacità di capire: erano ragazze più grandi, ragazze di diciotto - diciannove anni, qualcuna anche più grande. Ma quello che trovavamo sul posto, era invece personale preparato. Preparato per condurci in una certa maniera. Per cui al mattino suonava la sveglia, sempre alla stessa ora, si diceva la preghiera, dopo si andava a tavola, e a tavola c'era il rito: c'era la scodella dal latte con il pane, ma prima bisognava dire la preghiera e poi fare il saluto al duce. Saluto al duce e saluto al re! E ricordo un particolare: eravamo tutti in piedi, la scodella del latte era lì davanti a me, e quando [si doveva dire] viva il re, viva il duce, mentre faccio così [il saluto romano], vado a toccare la tazza e faccio cadere tutto!"

13) Eravate in divisa, naturalmente...

R.: "In divisa, eravamo tutti vestiti alla stessa maniera. Tutti in divisa alla stessa maniera. Poi, negli anni, le divise vennero fatte a regola d'arte, con un fazzoletto legato al collo con in mezzo una M grande che era appesa come crocifisso. E quello significava Mussolini. E da Marina di Massa in poi, perché a Marina di Massa passammo l'autunno e in primavera ci trasferirono e Fieve di Primero in provincia di Trento. E qui venimmo dislocati in più punti: avevano requisito piccoli alberghetti, trattorie, insomma [strutture] dov'era possibile mettere dei letti e delle camerate. Ci mandavano a scuola, naturalmente, ma sempre [sotto] lo stesso regime [si doveva] stare: bisognava marciare, dottrina fascista...Tutti i giorni c'era un'ora o due di dottrina fascista, e per cui ci spiegarono come era nato il fascio, perché era nato il fascio, grazie a chi aveva fatto sorgere questa organizzazione, le motivazioni, che erano tutte portate a un livello altissimo. E i bambini di allora che cosa dovevano pensare? Era vangelo! Abbiamo bevuto tutto! Ma avevo sette anni! Anzi, a questo punto ne avevo otto...E [tra] gli altri c'è n'era qualcuno più piccolo di me e qualcuno era più grande, e quindi...Io ricordo un particolare di quanto eravamo a Marina di Massa: era inverno, eravamo alla Colonia Torino, che sono andato a visitarla circa dieci o dodici anni fa. Eravamo andati in vacanza da quelle parti, e io volli andare a vederla. Ci sono andato due volte: una volta in compagnia della famiglia per spiegargli com'era, [mentre] una seconda volta ci sono andato da solo. Volli andarci proprio da solo, perché volevo ricordare proprio i fatti e le cose precise. Mi ricordo che in questo giorno di inverno - faceva un freddo cane!- mentre ci facevano marciare, con i piccoli davanti e i grandi dietro - quindi eravamo circa dieci , undici file da tre con un caposquadra - dicevano uno, due, dietro front. Quando diedero il dietro front, i primi che eravamo più avanti, non sentimmo il dietro front. Per cui quelli che lo sentirono si voltarono, noi [invece] continuammo a camminare. Ma io che non sentii più i passi, mi voltai e corsi indietro, e qui vidi una cosa: vidi due uomini che erano in fondo dove stavamo marciando noi, fermi che guardavano. E quando i bambini - i primi - arrivarono alla loro altezza, li fermarono e gli dissero di tornare indietro. E, rivolti verso la vigilatrice che era ferma, le fecero con la mano questo gesto, come per dire ma che cazzo volete da questi bambini! Cosa volete!? Non dissero una parola, il gesto significava tutto. E questi sono quei fatti che ti rimangono tremendamente nella mente, e non li cancelli più. Conservo dei ricordi stupendi, anche. Io conservo le amicizie di allora, siamo invecchiati insieme."

14) Parliamo ancora un attimo del suo percorso. Da Marina di Massa va in provincia di Trento...

R.: "Sono andato a Fiere di Primiero e lì completammo l'anno scolastico, nel '41. Finimmo l'anno scolastico e passammo lì l'estate: era molto bello, [facevamo] le passeggiate, ma la disciplina non era così forte. La disciplina [rigida] l'avevamo trovata a Marina di Massa. Qui, non essendo tutti così concentrati, c'era più disponibilità."

15) Ed era con le sue sorelle?

R.: "Io le mie sorelle le vedevo di tanto in tanto, perché loro erano in un altro alberghetto, distaccato. Noi, addirittura, eravamo fuori di Fiere di Primiero di un paio di chilometri: c'era un'osteria che aveva delle camerate, e circa una sessantina di bambini eravamo là. E capitava che i ragazzi più grandi, perché c'erano quelli che avevano quindici o sedici anni - perché ne avevano mandati alcuni anche più grandi di quattordici anni - che erano già ragazzoni, grandi, le vigilatrici, perché le accompagnatrici le avevano tenute per poco, poi le avevano messe da parte, praticamente le facevano fare le sguattere e i servizi, fino a che poi non le mandarono addirittura via, le mandarono a casa. E invece le vigilatrici, che erano quelle ben inquadrate...Perchè poi c'erano dei bambini che erano già grandicelli, e iniziavano a ribellarsi. E le vigilatrici si avvalevano dei ragazzi più grandi come castigamatti: quante sberle abbiamo preso! Non posso dire che veniva impartito l'ordine dall'alto, ma chi doveva tenere l'ordine se ne avvaleva di questi ragazzi più grandi.Quanti schiaffoni per nulla! Se hai paura sta bene al tuo posto, e il tuo posto non è il tuo, [ma] è quello che ti hanno assegnato loro. E comunque passa tutta l'estate, e in ottobre viene giù la neve, fa mezzo metro di neve circa, e lì ci fecero fare durante l'estate la cresima. Ci fecero fare la cresima: prima comunione e cresima io l'ha fatto a Fiere di Primiero. Il mio padrino era...Praticamente c'era stato una specie di bando, probabilmente, ma non so come e [non so] attraverso quale tipo di organizzazione, se attraverso le parrocchie o come, che si offriva a fare da padrino al bambino. E io e un altro ragazzo fummo scelti da uno, cioè da una famiglia, che ci fece da padrino. E quel giorno pranzammo a casa loro. Ci fecero un piccolo regalo, che quando tornammo ci venne ritirato e ci dissero che ce lo avrebbero conservato per poi consegnarcelo quando saremmo andati via. Nessuno di noi ha più visto quei regali. Era una piccola statuetta che rappresentava la Sacra Famiglia o qualcosa del genere. Era un'immagine sacra, era un qualcosa che avrei voluto conservare, [ma] non l'ho più vista. E in ottobre ci trasferirono a San Remo. A San Remo la collocazione venne fatta in grande stile, [perché] vennero requisiti molti alberghi: il Grand Hotel, [che] allora si chiamava il Grande Albergo, e c'erano le ragazze. Ma siccome noi eravamo tra i più piccoli, una squadra - gli unici - ci misero insieme alle ragazze. E ci rimanemmo alcuni mesi, dopo di che ci trasferirono dove c'erano i maschietti. L'altro albergo [era un albergo] che allora si chiamava Albergo Aosta, oggi so che si chiama Hotel Londra. Noi nel 1980 eravamo in vacanza a San Bartolomeo e io e lei andammo a San Remo proprio a visitare il grande albergo, che era il Grand Hotel e l'Albergo Aosta. Ci fermammo a un chiosco a prendere una bibita, e il gestore, al quale chiesi se si ricordava [quel periodo mi rispose]: cosa, io ero l'economo! Si ricordava tutto! Quanti ricordi mi fece venire in mente! E li ricordavo con nostalgia e si vedeva che questa persona aveva qualcosa di umano, perché ricordava questi bambini, ricordava cosa ci avevano fatto durante la guerra.. E quindi noi siamo stati lì quattordici mesi, che ci chiamavano i bambini libici, e in tutto l'albergo c'era un cartello che era scritto Colonia bambini libici. Bimbi libici perché significava i bambini che venivano dalla Libia, non è che abbiamo cambiato nazionalità, e quindi eravamo italiani e basta."

16) Com'erano i rapporti con la popolazione locale?

R.: "Ma non avevamo contatti con la popolazione, eravamo isolati. Al mattino si partiva o dal Grand Hotel o dall'Albergo Aosta e si andava verso il centro di San Remo a scuola. E andavamo alle scuole pubbliche."

17) E in classe c'erano anche i bambini sanremesi?

R.: "No, eravamo solo di noi, solo di noi. Si andava inquadrati sul lungo mare di San Remo, marciando, e lì si andava a scuola. L'insegnamento era, per quello che ricordo io, ottimo. All'uscita, siccome l'alimentazione era scadente, ci incontravamo all'uscita dalla scuola con le ragazze e con le mie sorelle. E una delle due usciva dalla fila - perché anche loro erano inquadrate, anche loro marciavano - mi correva incontro e mi portava un panino. Il panino era tanto, era un panino così [piccolo, come il palmo di una mano]: loro ne mangiavano metà e l'altra metà la davano a me. E poi si tornava [in albergo]. Poi i miei genitori dalla Libia, che si scrivevano con i parenti che avevano al paese qui in Italia, raccontavano tutto. Raccontavano che avevano i figli, [che] uno era partito per il servizio militare, che l'altro più giovane era partito volontario un po' per le necessità e un po' perché la propaganda invogliava. Nel frattempo si era ammalata una delle mie sorelle che era rimasta lì, si era ammalata gravemente, per cui in casa di sette figli ce n'era rimasta una. E allora pensando ai più piccoli, mia madre scriveva - e faceva scrivere dalla mia sorella più grande, quella che era rimasta con loro, perché mia madre era completamente analfabeta, mio padre qualcosetta [leggeva e scriveva]- a una zia. Che noi avevamo una zia che inizialmente erano abbastanza benestanti per i tempi, per come si può essere benestanti in una povertà. Chi aveva tanto di più, era considerato benestante rispetto a chi era proprio nell'indigenza. E arrivarono alla decisione di toglierci da queste colonie e portarci dai parenti. Si pensava ma si, tanto la guerra finisce...Mai decisione fu peggiore! Eh si, perché, povera gente, questi erano una famiglia di nove figli, [che vivevano] sempre nel mio paese, e quindi così ne arrivavano altri tre [vale a dire me e le mie sorelle]. Siamo partiti per andare dagli zii gli ultimi giorni del '42, da San Remo. Per cui facemmo capodanno lungo il viaggio: da San Remo per arrivare dagli zii, ci impiegammo quattro giorni. Per cui quando arrivammo lì, trovammo una situazione completamente differente da come ci eravamo abituati. Intanto, in colonia, ci facevano fare il bagno tutte le settimane, ci si cambiava tutte le settimane, c'era pulizia. Si, era scarsa l'alimentazione, ma per il resto si faceva tutto quello che era possibile, questo glielo riconosciamo. Ma lì troviamo, se non proprio povertà, quasi. E quindi, niente più bagno, niente più cambiarsi, per cui ho fatto i pidocchi. Ma non era colpa di questa povera gente, era la povertà! Ma chi glielo ha fatto fare! Avrebbero dovuto passare il sussidio, ma siccome il sussidio non arrivava, la gente - e molti [lo fanno] ancora oggi - sbagliano nel trattare con le autorità, con chi si ha di fronte. Allora si va e si pretende...E se dall'altra parte c'è qualcuno che è arrogante, allora dice: ah si, è così? Allora faccio in modo di non fartelo avere. E noi il sussidio non lo abbiamo mai avuto. Per cui la zia sperava: quello che abbiamo noi, più il sussidio che ci passano, ci campiamo anche noi su quel sussidio che ci passano. E invece non arrivò una lira. E non arrivò per il segretario comunale con il quale mia zia si era scontrata per il fatto che tardava ad arrivare il sussidio. Probabilmente il sussidio arrivò, ma nelle sue tasche! Non è possibile che il sussidio non arrivasse, tutti hanno avuto il sussidio, perché tanti ragazzi sono finiti a casa dei parenti, tantissimi. [E questo] perché il regime cercava di scaricare per alleggerire le spese, era comprensibile, c'era un esercito da mantenere. E comunque, per tornare indietro, ricordo che la scuola funzionava perfettamente, il doposcuola altrettanto perfettamente - parlo di San Remo - al punto che c'era un insegnante anche al pomeriggio, che insieme ci faceva fare i compiti e ci guidava passo, passo. E so che noi apprendevamo bene, tutti apprendevamo bene: questo tipo di organizzazione era perfetta. Ma nella giornata c'erano due ore - accidenti!- di cultura fascista. Di queste persone, di questi ragazzi che poi sono diventati uomini e donne, quasi la totalità, o se non la totalità ma la stragrande maggioranza, sono rimasti con quel tipo di inculcamento che hanno avuto nel loro cervello, e sono rimasti con la mentalità fascista! Quando c'era il duce, quando c'era il duce...Ma non hanno avuto la capacità di un riesame del tutto, di dire: un momento, questo andava bene quando avevo tredici o quattordici anni, ma quando ho superato i vent'anni, quando abbiamo affrontato il dopoguerra e quando abbiamo cominciato a capire, devi avere una capacità di un riesame. E molti non l'hanno fatto. Sono rimasti legati. In questa via , la maggior parte siamo famiglie provenienti dalla Libia: ebbene, qua il secondo partito era l'MSI alle elezioni. Quindi stiamo parlando degli anni Sessanta, e ne erano passati di anni! Il primo partito era la DC, ma il secondo partito era l'MSI, poi c'era il PCI e gli altri partiti. E quindi questa era la situazione. Poi, finalmente, le vicissitudini passate dai parenti, ma io non serbo rancore. Perché certo che poi eri l'intruso, eri quello che li portava via il pane. Sai, i bambini sanno poi anche essere cattivi. E poi sanno in qualche modo farti pesare, per cui per scaricarsi delle mie sorelle, le mie sorelle finirono a fare le servette, a fare il servizio. Per fortuna capitarono molto bene: capitarono in due famiglie di professori, di insegnanti. Uno insegnava ad Avellino, l'altro insegnava a Catanzaro, ma durante l'estate ritornavano al paese e io qualche volta lì riuscivo a vederle. Io invece ero rimasto con uno degli zii, non più nella famiglia dove eravamo finiti, ma in un'altra famiglia che stavanno un pochino meglio. E allora uno dei miei cugini più grandi, che faceva il carabiniere, quando tornava in licenza andava a trovare i parenti e gli zii, e mi vedeva. Vedeva tutti i cuginetti, e vedeva anche me. E io ricordo come un sogno che mi guardava e non mi diceva nulla. Poi, quando tornava a casa, diceva alla mamma e ai fratelli più grandi: ma', quel guaglione che è la da solo, in una famiglia che non hanno da mangiare per loro, perché non lo prendiamo noi? E un giorno venne il fratello più grande, parlò con i miei zii e mi portò da loro. Almeno c'era da mangiare! Andavo a pascolare le pecore, ho fatto il pastorello. Siamo nel '45, andavo per i tredici anni. Ma premetto una cosa: quando sono partito, andavo per gli otto anni e avevo una certa altezza, che rispetto all'età ero un tantino più alto. Ma dopo sei anni, quando sono tornato, ero rimasto della stessa altezza, non ero cresciuto di un centimetro. Per cui avevo si tredici anni, ma ero piccolo! E avevo tante pecore da pascolare. E non che avevo il cane o qualcosa, dovevo vedermela [da solo], ed era un lavoro massacrante. E l'ho fatto per circa un anno. Con tutte le esperienze di allora, senza scuola, la scuola [l'avevo] finita. Durante l'estate, allora, c'era questa usanza, questo costume, [e cioè] che i contadini che avevano il bestiame - che avevano le pecore e le capre - cosa facevano? Facevano una specie di cooperativa, e con delle reti si mettevano tutti insieme, ognuno col proprio gregge, si andava sul proprio terreno, dove non era coltivato, e piantavano le reti. [Alla] sera, tutti si arrivava con il proprio bestiame e lo si faceva passare nelle reti. Perché, passando la notte lì, questo bestiame concimava il terreno. E nel frattempo le pecore, che erano state smammate dagli agnelli, si mungeva il latte - e venivano dei miei cugini a mungere i latte - e si misurava con delle misure fatte di legno, con delle tacche, che erano precise per l'epoca. Tanto latte ti do io, tanto me ne devi restituire. Si metteva insieme tutto il latte, affinché venivano fuori delle forme di formaggio più grandi ed era più facile commercializzarli. E quindi, a turno, ognuno si dava il proprio latte, che poi aveva in cambio quand'era il proprio turno. E si stava tante notti sul territorio di uno, poi si passava sul territorio di un altro, e si passava l'estate così. E per dormire, noi dormivamo in un pagliaio mobile: una garitta fatta in paglia, che quando ci si spostava mattino per mattino la rete, anche il pagliaio veniva spostato. Uno andava lì, lo prendeva e lo spostava. E io dormivo là dentro, con mio cugino di ventidue anni, più grande di me. Quel cugino che poi è diventato vescovo evangelista: era cattolico, ma poi ha conosciuto una ragazza evangelista ed è diventato evangelista anche lui. Ma questa è un'altra storia. Durante tutta l'estate, io casa non la vedevo, dormivo in quel pagliaio. Ma questo era il costume, gli altri facevano la vita che facevo io, non è che ero maltrattato, assolutamente no! A quell'epoca i bambini di dieci anni lavoravano, e io lavoravo insieme a loro. Non ero maltrattato, anzi ero abbastanza ben voluto: ero il più piccolo della nidiata, ed ero anche abbastanza coccolato. Quindi non posso parlarne male, assolutamente. Purtroppo di questa famiglia di miei cugini, mi è capitato di non vederne più nessuno, non li ho più visti. Invece la famiglia, la prima famiglia della zia dove eravamo andati, questi li ho visti tutti. Anzi con due di loro- no, tre - siamo ancora in contatto. Ancora adesso. Due sono sulle colline di Riccione - sono emigrati in Svizzera a lavorare, hanno fatto un po' di quattrini e sono tornati in Italia e hanno comprato a Riccione - un altro cugino invece è rimasto a Ginevra, ma per lo meno o a Natale o a Capodanno di sentiamo, telefona sempre o telefono io."

18) Quindi lei lì in Campania rimane fino al '45...

R.: "Fino al '46."

19) E dopo cosa succede?

R.: "[A] marzo del '46...Anzi, devo però aggiungere un fatto, [e cioè] che per due anni noi non abbiamo avuto notizie della mia famiglia. Con l'occupazione non abbiamo avuto più notizie, non sapevamo nulla, se erano vivi o se erano morti, né loro [sapevano nulla] di noi. Poi attraverso la Croce Rossa, la famiglia riuscì a mettersi in contatto con gli zii, e gli zii ci fecero sapere e anche i nostri [genitori] ebbero notizie di noi. Poi, non so come, arrivò, non conosco i canali, non lo so...So che i miei fratelli, che erano stati catturati nella ritirata dalla Libia , erano stati catturati in Tunisia e portati negli Stati Uniti. Uno, il più giovane, era ritornato prima, e fu lui che mi venne a prendere dalla famiglia dove ero, da zia Alfonsina, e mi portò dalla zia Maria - la prima zia dove che eravamo andati - e l'indomani partimmo. Perché dovevamo andare a Salerno, perché nel frattempo una delle mie sorelle, con la famiglia del professore che insegnava, era a Salerno. Quindi dovevamo andare lì, perché poi arrivava l'altra sorella da Catanzaro e insieme saremmo dovuti andare a Roma, dove c'era la raccolta dei ragazzini per poi essere portati in Libia. Arrivammo, riuscimmo ad arrivare tra mille peripezie, con mezzi di fortuna. Arrivammo alla sera a Salerno e l'indomani mattina l'altra sorella arrivò da Catanzaro, la vedemmo affacciata al finestrino del treno. L'altra sorella che era a Salerno poté salire sul treno, io no perché non avevo il biglietto. Perciò loro partirono per Roma, e io rimasi con questo fratello che allora - siamo nel '46 - aveva ventidue anni, era del '24, e non aveva ancora ventidue anni. Per cui, come facciamo? Aspettiamo. All'epoca [però], c'erano i reduci, che erano degli sbandati: quelli che avevano la famiglia in Italia tornavano a casa, ma quelli che avevano la famiglia fuori, che erano all'estero, non gli era consentito di rientrare in Libia. E quindi li tenevano. Questi gironzolavano. E si vede che mio fratello incontrò qualcuno che gli spiegò come poter fare. Gli disse: senti, vediamo se c'è una tradotta militare - sa la tradotta, i carri bestiami - vediamo se c'è qualcosa che ci porta. Si informarono e videro che c'era una tradotta per Napoli, per cui partimmo da Salerno con la tradotta e arrivammo a Napoli. A Napoli il treno era arrivato, era al capolinea. Lì si scese e [lui] si incontrò con altri [militari] che erano di stanza a Napoli, a Fuorigrotta erano. Incontrò dei colleghi ai quali disse: sono qui col mio fratellino, che lo devo portare a Roma. [Loro risposero]: ma veniamo anche noi a Roma! Cinque o sei di loro si informarono [e seppero] che c'era un altro treno che partiva per Roma, sempre una tradotta militare, e tutti salimmo su questa tradotta. Insomma, dal mattino alle sette, noi arrivammo a Roma alle dieci di sera, perché a ogni ponticello che c'era il treno si fermava, perché il ponte era stato abbattuto ed era stato ricostruito alla bell'è meglio. Però il treno quando passava si fermava e andava a passo di formica, pur di poter attraversare il ponte]. Insomma, arrivammo a Roma alle dieci di sera. E lì, grazie a questi amici che erano più anziani di lui, avevano più esperienza, sapevano a chi rivolgersi, ci mandarono in un posto dove c'era questo tipo di raccolta provvisoria per la notte."

20) Si ricorda cosa fosse questa struttura?

R.: "Erano dei piccoli posti di accoglienza nei pressi della stazione. Ricordo che c'era un letto, dormimmo a letto e c'erano anche degli altri ragazzi. C'era - ricordo - anche una femminuccia, accompagnata dalla sorella più grande."

21) Sempre libici...

R.: "Tutti di noi, tutti. Il mattino dopo - a questo punto si era entrati già nell'organizzazione - mio fratello mi salutò e ripartì, tornò a Napoli insieme ai suoi amici. Il mattino - questi ragazzi che eravamo lì, che eravamo in pochi, perché c'erano vari punti di raccolta - ci portarono in un [posto che] si chiamava Sant'Alessio. Sarà stato un convento? Sarà stato un seminario? Perché era gestito da preti, e rimanemmo un mese. C'era sia il reparto delle femminucce, sia il reparto degli uomini, ma qui non c'era più la marcia, qui si era liberi: si giocava a pallone, ci si divertiva, si era allegri. Certo, si frequentavano le pratiche religiose, e io che per quei tre anni che ero stato via, ero andato a messa una volta, quando per le feste di Pasqua quella sorella che era andata a Salerno era rientrata al paese con la famiglia. Questa famiglia accolse anche me per circa una settimana e rimasi con mia sorella, a casa loro, una settimana e soltanto in questo periodo, durante le feste di Pasqua, io riuscii a frequentare tutte le pratiche religiose e cioè il giovedì santo, il venerdì santo...Mi ricordo ancora la cerimonia del sabato santo, quella della resurrezione... E io grazie a questo mese che sono rimasto a Sant'Alessio, mi è rimasto un qualcosa di molto religioso nella vita, l'ho conservato."

22) E Sant'Alessio era a Roma?

R.: "Fuori Roma, adesso sarà inglobato nella città. E quindi ripartimmo in aprile per la Libia."

23) Da dove?

R.: "Da Napoli, in nave. Da Roma si andò in treno. Anzi, mentre eravamo a Sant'Alessio, ci portarono a far visita al papa. Ci portarono al Vaticano, ci portarono alle catacombe. Insomma, ci fecero visitare Roma, ci fecero vedere tante cose. Fu un mese che ricordo abbastanza volentieri. E anche se ho fatto circa un anno di servizio militare a Roma, [perché] ho fatto la Cecchignola - la scuola di specializzazione - quattro mesi, poi mi trasferirono a Bolgona - ero nel Genio ferrovieri - e dopo due mesi mi rimandarono a Roma nei pressi della stazione dove poi ho finito [il servizio militare]. E io [quando stavo a Roma], avevo sempre in mente che dovevo andare a Sant'Alessio!"

24) Mi scusi, ma lì a Sant'Alessio, godevate di un qualche tipo di assistenza? Vi davano, ad esempio, un sussidio, dei vestiti e cose del genere?

R.: "Ci davano da mangiare i preti. Da chi prendevano sussistenza non sono in grado di dirlo, ma c'era colazione, pranzo e cena. I vestiti li avevamo addosso, non c'erano più le divise. [Avevamo] quello che avevamo addosso, [tant'è che] io ero [ancora] vestito da pastorello. Certo, ci facevano fare le docce!"

25) Quindi da lì, nel '46, ritorna in Libia...

R.: "Siamo tornati in Libia, al Villaggio Garibaldi. E, naturalmente, quando mi videro - specialmente mia sorella più grande che era rimasta a casa - mi dissero: ma questo non è il nostro Nicolino! Non è lui, non è possibile, è così piccolo! Io mio padre lo riconobbi subito perché assomigliava moltissimo a mio fratello che era al paese e che io avevo avuto modo di conoscere, perché per qualche mese ero stato da loro. E da loro ero stato molto ben."

26) Non è il suo caso, ma ho letto e sentito da altre interviste che invece alcuni bambini hanno avuto difficoltà a riconoscere dopo anni i propri familiari...

R.:"Il reinserimento, sono nati molti contrasti."

27) In che senso?

R.: "Perché si era avuto un altro tipo di evoluzione rispetto ai ragazzi: l'educazione che avrebbero ricevuto in famiglia e quella che [invece] avevano ricevuto [in Italia] non era la stessa, era differente. Per cui [molti] pensavano di tornare a casa ed essere liberi, [mentre] i genitori cercavano invece di inquadrare su una strada con delle regole precise. E allora, la stragrande maggioranza si sono adeguati, come ci siamo adeguati noi, che non abbiamo mai avuto problemi se non quelli della crescita. Ma è normale, ogni figlio è in contrasto con i genitori arrivato a una certa età. Oggi succede molto di più di allora! Ma noi ci integrammo perfettamente: [eravamo] tutte famiglie con le quali conservo ancora rapporti adesso."

28) Facciamo un attimo un passo indietro, se non le spiace, ancora al Villaggio Garibaldi, sul quale mi sono dimenticato di chiederle una cosa. E cioè vorrei sapere da dove arrivano le famiglie che componevano questo villaggio.

R.: "Allora, c'era un bel numero di famiglia siciliane, famiglie campane, abruzzesi, laziali e veneti. Questi erano i cinque gruppi etnici - chiamiamoli così - più rappresentati. Erano la maggioranza: di calabresi c'è n'era proprio soltanto qualcuno, [invece] non ricordo toscani, non ricordo liguri, non ricordo piemontesi, lombardi- [C'erano] tanti veneti, friulani, tutto il Veneto, dal Friuli al veneto in basso. Questa era la stragrande maggioranza delle famiglie con le quali, all'inizio, si sono avuto grossi contrasti: non soltanto gli sfottò, ma qualche volta ci si è anche menati! Polentoni e terroni! Poi dopo, specialmente noi che venivamo dalle colonie che oramai avevamo familiarizzato perfettamente...Anzi, i più poi sono rientrati dopo tanti anni, perché anche i ragazzi che erano con noi in colonia, dai sedici anni in su, non li facevano rientrare, il governo inglese. Non li facevano rientrare perché avevano il timore che ci potesse essere una ribellione, delle sommosse da parte dei giovani, e allora non li facevano rientrare. Per cui [iniziarono a rientrare] prima i piccoli, a scaglioni, non tutti insieme. Per cui noi siamo rientrati in aprile, poi c'è stato un altro scaglione rientrato in settembre...Io avevo tredici anni e andavo per i quattordici. Poi [sono rientrati anche] i miei fratelli: uno è entrato nel '48, l'altro nel '49, [perché] non li facevano rientrare subito. Ma nel frattempo si aveva completamente familiarizzato: c'erano stati dei matrimoni tra italiani di varie regioni, che li potremmo definire misti!"

29) I rapporti con i libici, com'era?

R.: "Allora, intanto devo fare un altro passaggio: fino al '46, queste famiglie [di italiani] erano stipendiate dall'amministrazione italiana. Quelle famiglie che nel frattempo avevano dato dimostrazione di sapersela cavare da soli, con il raccolto fatto nel '46, anziché requisirlo, gli venne lasciato. Ma da quel momento vennero cessati i salari e lo stipendio - anzi è più giusto definirlo sussidio - e dovettero sbrigarsela da soli. La mia famiglia fu una delle prime: ci fu un gruppetto di famiglie che avevano dato dimostrazione di sapersela cavare da soli, e dal '46 a queste famiglie venne lasciato il raccolto. Agli altri, invece, tutto il raccolto venne immagazzinato e continuarono a prendere il sussidio, sempre dallo Stato italiano, ancora per un anno o due. Poi, mano a mano, tutte le famiglie vennero lasciate da sole. Da dove arrivasse [il sussidio] non si sa, ma c'erano i canali, perché il personale dirigente che c'era durante il fascio era rimasto. Quello aveva il compito di far sviluppare questa cosa."

30) Anche perché dopo la guerra la situazione muta...

R.: "Si, perché queste terre restano territori italiani d'oltremare in modo provvisorio, finchè nel '47, con l'accordo di Parigi, con il conte Sforza e De Gasperi, ma su suggerimento italiano. Perché, il primo passaggio, era che i territori dovevano passare sotto l'amministrazione inglese. Fu il governo italiano a dire: perché non diamo l'indipendenza ai libici. Noi questo sappiamo: leggevamo i giornali di allora, perché ci tenevamo informati. Non avevamo né radio né televisioni - che non esisteva nemmeno in Italia la televisione - ma la radio...Noi non avevamo la luce elettrica neppure, ma le prime radio a batteria si sono cominciate ad avere negli anni Cinquanta, prima non c'era nulla. Quindi, quando arrivò il passaggio, nel '52, perché nel frattempo c'era stato un intervallo, perché dopo Parigi, questi territori rimangono sotto l'amministrazione italiana e nel '52 passano ai libici. Ma tutta l'organizzazione, tutta - come possiamo definirla - la pratica organizzativa che doveva condurre il tutto, era italiana. E si è venuta a creare questa situazione: i libici volevano l'indipendenza, ma la lingua ufficiale era l'italiano e l'organizzazione militare dominante era quella inglese. E allora, tra queste tre, qual è che contava di più? Uno direbbe quella militare. No, non era quella militare, anche se quella militare dominava. L'indipendenza libica? No, perché si doveva formare ancora. Era la lingua, che era l'italiano. Ma questo agli inglesi dava un fastidio tremendo, per cui facevano di tutto per metterci nelle condizioni di dovercene andare. Si cominciò in questa maniera: dal '52 - forse anche '51 - si cominciò ad avere difficoltà a vendere il nostro prodotto, che erano i cereali. Il vino - per fortuna c'erano gli alberghi italiani - lo vendevamo direttamente, [anche perché] nel frattempo la vigna non era più di due ettari, era diventata di dieci ettari, e quindi si produceva. Gli ulivi cominciavano a rendere, erano i primi frutti: [noi] il primo olio lo abbiamo fatto nel '54-'55. Per cui cominciava a rendere la piantagione e il lavoro fatto negli anni precedenti. Ma non riuscivamo a vendere il prodotto agricolo, perché? Perché loro [gli inglesi] importavano il grano dall'Australia e noi non riuscivamo a venderlo [il nostro]. E poi, nel frattempo, c'era stata la cacciata degli ebrei. Nel frattempo c'era stato un massacro degli ebrei. [Anzi] due massacri c'erano stati: uno nel '44, consentito dagli inglesi in cui vennero uccisi tanti ebrei da parte dei libici, e io posso dire quello che si diceva nella cultura della quale si parlava, io posso dire queste, anche perché nel '44 neanche c'ero in Libia. E perchè c'era stato il massacro? Perché c'era stato...Perché chi doveva fermare questa cosa non intervenne, consentì il massacro. Ma centinaia di ebrei vennero massacrati: si raccontava che il sangue nella camera mortuaria usciva fuori, nel '44. E nel '47-'48, quando si ripeté questa cosa, a un certo punto ci fu qualche cosa, ma molto meno grave. E la stragrande maggioranza degli ebrei se ne andarono. E il commercio lo avevano in mano loro, per cui chi comprava più il nostro grano? E gli inglesi approfittando di questo fatto, importarono il grano dall'Australia [mentre] il nostro marciva lì. E quindi, come fai? E quindi come si capì questo, uno dei miei fratelli, proprio quello più giovane che era venuto a prendermi in paese, che nel frattempo si era sposato. I cognati, che erano emigrati in Venezuela, gli dissero: ma cosa ci vai a fare in Libia con una situazione cosi?! E noi capimmo, allora, che per noi non c'era futuro, che bisognava venire via. E allora lui fu il primo a venire: rientrò in Italia, la moglie rimase al paese e lui andò in Venezuela e la famiglia si sfasciò. La moglie aveva ventidue anni, cosa puoi pretendere?! Come si fa a lasciare una sposina di ventidue anni da sola per anni? E' chiaro che poi succedono delle cose...Come fai a incolparla? E' una ragazza. E la famiglia si è sfasciata. L'altro fratello rientrò nel '55 e [in Libia] ero rimasto solo io, con le mie sorelle e i genitori. Quella malata, nel frattempo, eravamo riusciti a mandarla in Italia per curarsi, ed era ad Avellino in un ospedale. Aveva avuto l'artrite deformante, ma stava bene: appena siamo arrivati in Libia stava bene, si è ammalata lì, e non sappiamo perché. L'altra si è sposata - quella più giovane - e una invece faceva l'infermiera. Si era diplomata infermiera e lavorava all'ospedale di Misurata. Intanto il fratello più grande era rientrato nel '55, ma noi tentammo di rimanere ancora. Ma, accidenti, capitò che non piovve: [a] settembre non piovve, [a] ottobre non piovve [a] novembre non piovve, [a ] dicembre non piovve e non si poté fare la semina. E per cui si fece domanda e si rientrò. Noi rientrammo, [mentre] la sorella più grande rimase con la sua famiglia e venne ad abitare nel podere che avevamo noi, che avevamo una bellissima piantagione che io me la piango ancora adesso! La sorella più giovane - quella sposata - venne con noi, l'infermiera venne con noi, e con i genitori rientrammo e finimmo nel campo profughi di Aversa in provincia di Caserta."

31) Parliamo di questo, passaggio che a me interessa molto.

R.: "Siamo arrivati nel campo profughi di Aversa. Io, prima di partire, ero stato al Consolato italiano a Tripoli per mettermi in regola. Io avevo ventitre anni. Succede che appena arrivo in Italia mi prendono a fare il servizio militare. Io che ho avuto il papà decorato medaglia di argento nella prima guerra mondiale, due fratelli che hanno fatto sette od otto anni di militare ciascuno, a me spetta di fare il servizio militare? No - mi dissero a Tripoli - hai l'esonero, hai due fratelli che già hanno servito il paese. Per cui mi fanno tutta la documentazione che viene poi trasmessa in Italia. Per cui io non dovevo essere chiamato a fare il servizio militare. Per cui noi ci organizziamo su come tentare di partire: appena arrivati in Italia, arriviamo si in un campo profughi, ma poi volevamo partire. E devo aggiungere una cosa: quei pochi risparmi che avevamo...Beh, intanto, quello che avevamo lo avevamo [praticamente] regalato, svenduto. Anche il bestiame che avevamo, lo avevamo regalato. Quei quattro soldi che avevamo, non si poteva fare il cambio ufficiale, non era riconosciuto in Italia, così sapevamo noi. Forse era riconosciuto? Non lo so. Per cui dovevamo cambiarlo alla borsa nera: la sterlina aveva un valore di 1.750 lire, ma mio padre riuscì a scambiare quei quattro soldi a 1.200 lire. Ci derubarono! E quei soldi italiani, non li potevamo portare, perché se ci scoprivano ce li requisivano. E le mie sorelle e mia mamma, se li dovettero cucire nelle mutande. Noi pensavamo [questo]: appena arrivati in Italia - avevamo circa un milione allora - il nostro scopo era che mio fratello si sarebbe stabilito al paese, noi a Napoli o nei pressi. Avremmo [poi] comprato un camioncino, che io avrei fatto la spola: lui avrebbe aperto un negozietto al paese e io avrei dovuto comprare delle merci e portarle al paese. E invece, quando andai dal maresciallo Ciaccio, a Tripoli al Consolato, per mettermi in regola con me venne un ragazzo che non era nelle mie condizioni, perché non avendo avuto due fratelli che [avevano prestato servizio militare], non era nelle condizioni di avere l'esonero. Lui quindi disse: voglio essere messo in regola, per cui così mi tolgo il fastidio. Capitò il contrario: siamo arrivati [in Italia] in gennaio e io in febbraio venni preso e chiamato al distretto militare. E in marzo dovetti partire a fare il servizio militare, non ci fu verso. Quell'altro povero disgraziato, non trovava lavoro perché non aveva fatto il militare: dovette partire volontario! Perché altrimenti non trovava lavoro, era così la situazione di allora. Per cui tutti i nostri progetti saltarono in aria. Per cui io mi son fatto i miei diciotto mesi [di militare], e quando son tornato la mia famiglia era uscita dal campo profughi."

32) A proposito del campo, si ricorda com'era? Riesce a descrivermelo?

R.: "Ci avevano dato una stanza che sarà stata cinque [metri] per cinque. Il campo profughi di Aversa, era stato costruito come ospedaletto militare, ma non era costruito in muratura o in mattoni. Era fatto in telai di legno, e le pareti erano fatte con la calce o con la paglia, non lo so, aveva dei muri sottilissimi. Ma lasciamo perdere come erano fatte le pareti...Il campo era fatto che c'era un corridoio e poi delle stanze. C'erano tanti caseggiati chiamati baracche, e in ognuna di queste baracche c'erano cinque o sei stanze, e in ogni stanza c'era un'entrata da una parte e un'uscita dall'altra e c'era la stanza per la famiglia e nient'altro. I servizi erano esterni, in comune tra tutti. Per cui noi non eravamo abituati a questa situazione, a questo stato di cose, perché si dormiva tutti in una stessa stanza: là si cucinava, là si mangiava, là si dormiva. Per cui appena vennero fuori i bandi di assegnazione delle case, i miei fecero domanda e gli diedero una casetta piccola, due stanzette e un bagno e una cucinotta. [Una casa] ma proprio piccola, piccolissima, più piccola delle case del Villaggio di Santa Caterina."

33) Gliela diedero a Torino?

R.: "No, a Napoli."

34) Al centro raccolta profughi di Aversa credo vi fossero insieme a voi libici anche altri profughi...

R.: "Uh, c'erano i profughi della Venezia- Giulia, i tunisini italiani, i greci, gli eritrei, i somali, tutti."

35) Eravate in buoni rapporti tra di voi?

R.: "Ma certo che si, perché quando sei legato dalla stessa sorte, leghi. La mia ragazza, era una di Lussimpiccolo, dalla Venezia - Giulia. Una ragazza fatta lì sul posto, la ricordo ancora: si chiamava Ausilia. Quando sono stato congedato, i miei mi dissero: guarda che noi siamo usciti dal campo, tu invece sei ancora in carica, perché sei maggiorenne e non potevamo firmare per te."

36) Nel campo ricevevate un minimo di assistenza come sussidi, vestiti, cibo e cose del genere?

R.: "Avevamo un sussidio di pochissime lire, per cui quando io rientrai dal servizio militare, mi diedero una stanzetta, ma dovetti fare fatica a ottenerla, perché il campo mi riteneva fuori, ma non ero stato liquidato. Perché chi usciva dal campo gli davano 50.000 lire a persona [come premio di liquidazione] e allora ci fu un avvocato, che aveva sposato una ragazza della Venezia-Giulia, che assisteva i profughi. Era uno che si prestava in modo gratuito. Per cui io mi trovai fuori dal campo senza aver avuto la liquidazione, non figuravo in nessuna anagrafe, ero stato cancellato. Per cui un funzionario dell'anagrafe di Aversa, si assunse la responsabilità di iscrivermi, perché non c'era nessuna documentazione. Mi iscrisse come residente ma commettendo, credo, qualcosa fuori dalle regole. E riuscii, facendo un ricorso, a farmi riammettere nel campo, perché io volevo ritornare nel campo, non mi piaceva rimanere a Napoli, perché avevo capito che lì non c'era possibilità di lavoro, non c'erano prospettive. E il tipo di organizzazione, di vita, di cultura e di modo di fare non si confaceva all'educazione che avevamo ricevuto noi, pur essendo io del posto. Io non rinnego nulla delle mie origini, ci mancherebbe: io sono campano, e campano rimango nell'anima! Campano della provincia di Avellino, amo Napoli, ma non ci stavo volentieri a Napoli, non ci stavo bene! Anche se adesso vorrei tornarci."

37) Nel campo, c'erano dei servizi, come ad esempio asili, scuole, infermeria...

R.: "C'era l'infermeria, c'era il bar, c'era gli spacci dove si vendevano le cose. [Era] l'organizzazione dei profughi stessa che aveva messo su [queste cose]. Che so, gli alimentari, andavamo a comprarli da uno nel campo. Aveva la licenza? Non lo so se ce l'avesse. C'era un altro che aveva un bar, e va bene, ci andavamo a ballare la sera, era una stanza. Ci siamo dati da fare, si cercava di tenersi su con il morale. Poi, purtroppo, erano amicizie che duravano poco, e poi ognuno cercava la sua strada e se ne andava: una famiglia partiva per l'Australia, una per il Canada, l'altra andava a Milano. Ci si perdeva, così. E io, grazie a quell'avvocato, venni riammesso al campo ma senza sussidio. Per cui io, per poter sopravvivere, vivevo da mio fratello, il grande, che era rimasto nel campo: dormivo da loro, mi diedero una stanzetta piccola, e mangiavo da loro, che mia cognata faceva anche le pulizie nel campo. Lavoravo in un distributore di benzina dodici ore al giorno, una settimana di giorno e una settimana di notte, senza festività. E ancora grazie! Mi davano 600 lire al giorno. E con quello sono andato avanti. Dopo di che il distributore ha chiuso, e io tornai a Napoli, ma non avendo sussidio, avevo il diritto di conservare la stanza ad Aversa. E io l'ho tenuta quella stanza, perché dicevo: finché risulta che sono nel campo, ho la possibilità un domani di fare domanda per una casa popolare. Nel frattempo conobbi lei [mia moglie] e ci sposammo. Siccome suo padre era considerato profugo anche lui perché era stato in Eritrea, quando ci fu l'assegnazione delle case popolari riservate ai profughi, anche lui fece domanda, e l'assegnarono anche a lui. Ma lui non era stato in campo profughi, ma l'assegnazione della casa la ebbe anche lui. In più, tutti gli altri noi, dove c'erano tunisini, greci, profughi della Venezia - Giulia, tripolini...Eravamo più di 300 famiglie a San Giovanni Teduccio a Napoli, un quartiere di Napoli. A questo punto, avendo avuto questa accortezza di conservarmi la casa, nel frattempo avevo trovato lavoro, però. [Lavoravo] alla Rodiotoce, facevamo il nylon, che la [sede] centrale era qui a Verbania, e avevano fatto uno stabilimento a Casoria, a Napoli, e io ero riuscito ad entrare, ci ho lavorato due anni. Ma nel frattempo, che cosa era successo? Era successo che l'amministrazione italiana stava cercando di svuotare i campi [profughi], e si era servita dell'organizzazione dei profughi giuliani e dalmati, che loro, i loro, li avevano sistemati quasi tutti. Allora diedero l'incarico a questa organizzazione di andare nei campi e darsi da fare. Ma non soltanto nei campi, [anche] andando nelle aziende del nord per cercare il lavoro e poi andare a trovare le persone da collocare. E quando vennero anche a Napoli, ad Aversa, io mi inserii in mezzo a loro, perché feci questo discorso: nel frattempo, le cotoniere meridionali erano entrate in crisi, perché [con] il terital e con il nylon si aveva la convinzione di soppiantare il cotone. E siccome [le persone] ci avevano creduto, nessuno più comprava i tessuti in cotone, perché il nylon costava di meno e sembrava durasse in eterno. Così anche il terital. E io mi posi questa domanda: e se qualcuno, nel frattempo, tirerà fuori una fibra superiore alla nostra, non faremo la fine delle cotoniere meridionali. Io mi devo cercare - mi dissi - un posto dove c'è il monopolio. Non pensavo a un posto pubblico, [ma] pensavo a un'azienda che mi desse garanzie per il futuro. E questa organizzazione dei profughi giuliani e dalmati che era venuta nel campo, ci offrì un poso alla STIPEL. E sa cos'era la STIPEL? Era la vecchia società dei telefoni di allora. Che a quell'epoca c'erano cinque aziende telefoniche in Italia, e io ricordo ancora i nomi di tutte e cinque. A Torino, Val d'Aosta, Piemonte e, credo, anche in Liguria, c'era la STIPEL. E io mi inserii tra di loro, lasciando il posto della Rodiotoce, e sono venuto a lavorare qui, perché mi dava più garanzie per il futuro. Purtroppo dovetti lasciare lei giù, perché se me la fossi portata, non c'era la possibilità di avere la casa. Appena arrivati a Torino...Le grandi aziende, allora, avevano un'organizzazione di assistenza per il proprio personale, le assistenze sociali. E questa assistenza sociale, ci fece fare domanda per le case popolari, perché nel frattempo c'era stata Italia '61 e quindi avevano costruito le Vallette. Non tutte grandi così, come adesso, ma il nucleo grosso, era già stato bello che costruito. Per cui bisognava affidare questi alloggi e noi capitammo [proprio in quel momento]. Per cui ci fu questa coincidenza e ci fecero ottenere la case. Non mi diedero questa, ce ne dettero una più piccola, ma poi, nel frattempo e begli anni, siamo riusciti a cambiare. E così ci diedero questa casa popolare. Naturalmente ho portato su anche la famiglia e di qui siamo andati avanti."

38) Mi ha detto di essere arrivato qui a Torino nel 1961. Com'era questo quartiere, se lo ricorda?

R.: "Ricordo una certa similitudine con la prima volta che siamo arrivati in Libia, che provenivamo da tutte le regioni d'Italia, da tante esperienze differenti e si andava in un ambiente dove [tutto] era nuovo per tutti. Per cui, già Torino era nuova per tutti, perché solo poche famiglie erano qui da qualche anno, le altre sono arrivate mano a mano. E venendo ad abitare in un quartiere dove prima di noi non c'era nessuno, c'era una certa similitudine con l'esperienza che ci eravamo fatti in Libia, [cosa] che ci ha dato forza ed esperienza nel saperla affrontare. Nel quartiere non c'era una farmacia, c'era un solo mezzo pubblico, c'era un mercatino lì davanti, pochissimi negozi, c'era una posta...Non c'era nulla, ci siamo adattati. Io sono venuto a lavorare alla STIPEL e ho accettato qualsiasi posto mi venne offerto. Mi venne offerto un posto dove dovevo distribuire benzina nel garage della STIPEL, che era in via Cavalli, dove c'è la Telecom che oggi c'è la Provincia. E non era così: c'era una parte che è stata abbattuta e c'era il garage, dove la sera si ritiravano tutte le macchine della STIPEL che uscivano di giorno per andare a fare gli impianti, per andare a impiantare i telefoni che allora erano in piena espansione. Io di giorno davo benzina, di notte - nel turno di notte - lavavo alle macchine. E io sono venuto a fare questo lavoro. Ma io non mi sentivo umiliato, anche perché la mia origine veniva dal basso, veniva dall'essere contadino, per cui noi ci adattavamo a fare qualsiasi cosa. Non mi sono sentito estromesso dai piemontesi, né mi sono sentito inferiore a nessuno, e avevamo un vantaggio - almeno io - e cioè che non avevamo inflessione dialettale. E questo per noi e per quelli che avevano fatto questo tipo di esperienza [voleva dire] essere accettati più volentieri."

39) Perché l'accoglienza per i profughi non è stata semplice. Almeno per quello che riguarda i giuliano-dalmati che hanno avuto un impatto difficile, anche per una serie di stereotipi - ovviamente sbagliati - come quello dell'istriano fascista. Voi come siete stati accolti?

R.: "Noi questa cosa non l'abbiamo avuta , io non l'ho avvertita. Io non l'ho avvertita assolutamente anche perché avendo alle spalle tutte queste esperienze fatte, questo ti fortifica. Per cui, anche se qualcuno avesse voluto in un qualche modo umiliarti, eri abbastanza attrezzato per saperti difenderti."

40) Lei prima mi parlava però di inflessione dialettale...

R.: "Eh beh, certo. Per chi invece veniva e parlava uno stretto [dialetto] siciliano, o uno stretto meridionale, veniva deriso. Non era bello, non era bello. Se ti presentavi per chiedere in affitto un alloggio, avevi le porte chiuse. [Al massimo] una soffitta potevi affittare. C'erano i cartelli che dicevano: si affitta a tutti meno che ai meridionali, oppure non si affitta ai meridionali. Noi, per fortuna, questa esperienza non l'abbiamo subita, perché avendo avuto immediatamente la casa, quindi...Ci siamo arrabattati alla bell'è meglio...Alla STIPEL sono stato un anno e mezzo, dopo di che un giorno un amico mi diede l'idea dicendomi che aveva saputo che alla RAI cercavano autisti motoristi. Io che alla Cecchignola ho fatto il corso da motorista - mi son detto - me ne avvalgo! Feci domanda immediatamente e nel giro di venti giorni mi chiamarono. Facemmo un colloquio e mi dissero: vede, noi non abbiamo bisogno né di autisti né di motoristi, possiamo - al massimo - offrirle un posto da fattorino. Fattorino esterno che deve girare con un'Ape...Non finì la frase [che gli dissi]: accetto. E andai immediatamente a lavorare alla RAI. Naturalmente mi sentii affrancato rispetto al tipo di lavoro che facevo: lì dovevo lavar macchine, ero nell'umidità, anche se c'erano dei vantaggi alla STIPEL, specialmente come assistenza sanitaria, che c'era una mutua eccezionale. Alla RAI c'era ugualmente la mutua aziendale, ma era di livello inferiore. Per cui andai a fare il fattorino, e l'ho fatto per sette anni, dopo di che - attraverso un concorso interno - andai a lavorare al centralino, poi son passato impiegato all'economato e poi - attraverso un concorso interno ed esterno, fatto con gli esterni - sono andato al centro elettronico. Sono entrato nell'informatica e lì ho finito il mio lavoro. Ho lavorato trent'anni alla RAI e ancora adesso mi dico che devo ringraziare il cielo."

41) Ritorniamo per un attimo indietro. Può spiegarmi meglio che tipo di rapporto c'era tra gli italiani e i libici?

R.: "Allora, il rapporto coi libici veri...Allora, noi ci servivamo della manodopera dei libici, perché nel frattempo non avevamo più un solo podere, ne avevamo cinque. Perché dopo la guerra, le famiglie che erano venute via, un mio fratello ha preso un podere, mio fratello ne ha preso un altro, per cui ne avevamo [tanti], e c'era bisogno di lavoro. C'è n'era uno che ci guardava il bestiame, altri che lavoravano con noi alla vigna, alla raccolta del grano, alla semina. Devo dire una cosa: le maestranze che lavoravano con noi - e le sembrerà forse una bestemmia quello che dico - mangiavano alla nostra tavola, perché il modo di essere lì [l'usanza], è che gli arabi se lavoravano per una famiglia italiana, mangiavano da un'altra parte. Noi li abbiamo fatti sempre mangiare alla nostra tavola, quello che mangiavamo noi. Perché nel frattempo il nostro livello - anche economico - si era elevato, è chiaro. Ma non avevamo dimenticato le nostre origini, per cui far mangiare una persona fuori, o dargli la forchetta diversa dalla tua di modo che lui mangia sempre con la stessa forchetta o mangia sempre nello stesso piatto, era una mortificazione per noi. No, mangiavano con il nostro stesso piatto, con la nostra stessa forchetta, bevevano agli stessi bicchieri e mangiavano quello che mangiavamo noi. Stavamo attenti solo a una cosa, per rispetto nei loro confronti, nell'alimentazione dei suini. Loro non mangiano il maiale, anche se noi ci divertivamo a liberare il maiale, e i ragazzini piccoli ci giocavano, mentre i grandi, invece no, perché per loro, il solo vederlo, era peccato. Per cui si coprivano gli occhi e noi ci divertivamo perché i loro ragazzini ci giocavano con i maialini. Ecco. L'unica cosa di grosso che abbiamo fatto è questa, per il resto siamo sempre andati d'accordo. Però, piano, piano, cominciavano anche a fare qualche abuso: venivano a rubare e anche nel dialogo e nei rapporti, italiano vai al tuo paese ce lo siamo sentito dire. E dicevamo: qui, mano a mano che passa il tempo, rimaniamo sempre meno noi e questi alzano la testa."

42) Eravate visti un po' come dei colonizzatori?

R.: "Eh certo, ci dicevano vai al tuo paese! E quindi quando siamo partiti, io ricordo un particolare sulla nave: la nave è partita, saluti le coste e sai che si chiude un capitolo della tua vita. Dove lasciavamo il cuore. Il mal d'Africa io lo provavo già allora, e lo chiamavamo mal d'Africa. Noi quella la consideravamo la nostra terra, e la terra che ci avevano dato io non lo so se il governo l'aveva confiscata a chi o come, ma noi non avevamo rubato niente. Ce l'avevano assegnata e noi l'avevamo presa. Che poi avremo dovuto riscattarle nel tempo. E comunque noi andavamo a fare i mercati, e quando andavamo a vendere le nostre cose, cominciavano ad abusarne, che noi già avevamo problemi con il fatto degli inglesi. Che gli inglesi ci facevano la forca, non c'è niente da fare! Cercavano di farci andare via, perché erano convinti che rimanendo loro da soli...Intanto spariva la lingua italiana e loro potevano dominare tranquillamente. E quindi rendendoci conto che non avevamo futuro, abbinato al fatto che quell'anno non aveva piovuto - perché forse ci saremo fermati ancora qualche anno ma poi saremmo venuti via comunque - siamo andati via. E ricordo quando siamo partiti, eravamo tutti sotto coperta [sulla nave] e i nostri vecchi erano seduti in cerchio, e noi giovani gli eravamo alle spalle. I nostri vecchi piangevano, perché [erano] tutti di estrazione contadina, tutti ex mezzadri che lì invece si erano riscattati ed erano diventati padroni, dicevano: incontro a quale sorte andiamo? Non è per noi - dicevano - noi siamo anziani ormai, ma questi giovani non sanno fare altro se non i contadini, cosa faranno in Italia? Cosa faranno in Italia questi? Maledetti. Li sentii dire maledetti, e ce l'avevano con gli arabi. E noi alle loro spalle dicevamo: no, non malediteli, hanno ragione loro, ognuno a casa sua. Io questa frase l'ho pronunciata la sera del 5 gennaio del 1956. Ho detto ai nostri vecchi: non malediteli, hanno ragione loro. Noi qui ci comportavamo come i padroni. I padroni andiamo a farli a casa nostra.".
26/04/2012;


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Miletto Enrico 09/07/2013
Pischedda Carlo 09/07/2013
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Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019