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Intervista a Fulvio A.
Fulvio A., nasce ad Orsera nel 1943 da una famiglia di contadini. Nel 1948 lascia Orsera con la famiglia dirigendosi in Italia. Arrivato al Silos di Trieste è inviato al centro di smistamento di Udine, da dove riceve il trasferimento al Centro di Raccolta Profughi di Marina di Carrara. Qui resta fino al 1954, anno in cui si trasferisce a Torino dove è alloggiato alle Casermette di Borgo San Paolo, prima di trasferirsi definitivamente al Villaggio di Santa Caterina a Lucento. Allievo alla scuola allievi Fiat, entra alle Ferriere in officina per poi passare all'ufficio acquisti dove conclude la carriera. E' stato intervistato il 26 ottobre 2007. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Iniziamo con un po' di dati anagrafici. Quando e dove sei nato?
R.:"Io mi chiamo [A. Fulvio]. Sono nato a Orsera d'Istria, il 24-3-1943. Dico sempre che mio papà, che era stato richiamato a Maresego, quando è arrivato a casa con le bisacce piene, ha concepito me! E' un po' semplicistico il discorso, ma è la verità, è così. Sono nato nel '43. Orsera era un paesino in riva al mare, la nostra casa era proprio sul mare, vicino al forno dei nonni, che abitavano vicino. Siamo venuti via con l'esodo, la nostra famiglia e i nostri parenti. Abbiamo avuto la fortuna di aiutarci vicendevolmente, perché nonno e nonna avevano portato le cinque figlie sposate più il maschio sposato, con i loro mariti e nipoti, e abbiamo deciso di esodare tutti assieme."
2) Scusa se ti interrompo, ma il discorso sull'esodo lo vedrei più avanti, perché come vedi io ho una mia griglia da seguire. Parliamo un attimo della tua famiglia di origine. Cosa facevano i tuoi genitori?
R.:"Si. La mia famiglia, se possiamo così dire, era una famiglia giovane per quel tempo. Si erano sposati nel '33, nel '34 è nato mio fratello e nel '43 sono nato io. Mio papà era responsabile al porto, però aveva dietro al porto un grosso giardino che coltivava; mia mamma vendeva la verdura, e in più mio papà coltivava le campagne che avevamo, e quindi vendevamo il vino. Producevamo il vino, olive, noccioline, insomma tutte quelle cose che si producono in campagna. Mia mamma oltre che vendere la verdura aiutava anche i nonni al forno, e con queste attività avevamo quel goccio di benessere che ci permetteva di comprare ogni anno una campagna, di stare discretamente bene e di lavorare sul proprio, sul nostro."
3) Mi hai detto di essere nato ad Orsera. Me la puoi descrivere, per dare anche una panoramica generale del contesto?
R.:"Si, Orsera è un paesino molto bello dell'Istria, uguale a quello di Rovigno, e aveva anche le stesse attività, pur essendo più piccolo di Rovigno. Cioè, aveva la pesca e i pescatori perché il mare era lì; il porto di Orsera è un porto molto bello, è un porto richiamato anche dalla storia perché, come dico, dalla storia e forse anche dalla leggenda, perché storia e leggenda molto spesso si intersecano. Ha tre isolotti davanti, scoglio San Giorgio, scoglio Rondino e un altro scoglio di cui non ricordo il nome... Pare che le vicende epiche raccontino che Orlando al ritorno dalla crociate, venuto dalla sua Angelica, li abbia tagliati con la sua durlindan. Orsera era anche luogo di soggiorno e di riposo del Casanova che quando non era disposto dalle sue performances che tutti conosciamo, aveva scelto Orsera come luogo di [riposo]. Orsera è stata anche sede vescovile quando c'era il potere temporale dei papi, quindi era un paesino che comunque ha avuto la sua importanza in quel contesto, perché quando c'era il potere temporale dei papi, gli arcivescovi erano un po' quello che erano poi... Aveva al suo interno tutto un paese agricolo, e sul mare aveva la pesca. Diciamo che era un paese - parlo prima di venire via, nel '46-'47 - che aveva circa 2.000 abitanti, ed era un paese che si manteneva da sé, come attività. Quasi tutti lavoravano sul proprio e quindi anche le attività commerciali e quelle cose lì funzionavano. Orsera aveva la produzione di vino Terrano e Malvasia che, essendo proprio i vigneti sul colle in riva al mare, era molto apprezzata. Per esempio gli osti di Trieste e di Fiume, che avevano palato per il vino, quasi sempre prendevano il vino, e davano delle certezze e delle garanzie a chi lavorava e gli permetteva anche di fare degli investimenti. Era un paese che viveva in quel momento un passaggio tra gli anziani e i giovani; cioè c'era molti abitanti giovani di quaranta e cinquant'anni rispetto ai paesi che invecchiano, e quindi c'era una notevole attività commerciale ed economica, perché quando si è giovani, è chiaro che si è nel pieno delle condizioni. Quindi diciamo che aveva un goccio di piccolo benessere, per quanto può averlo un paese. Orsera era anche un punto di riferimento per quelli che venivano dall'interno, dei croati tra virgolette. Perché vicino tra Orsera e Parenzo c'era un paese che si chiamava Fontane, che oggi si chiama Funtana, ed era il paese dove di abitudine si erano fermati dei croati già nei tempi molto molto passati, e dove avevano conservato la loro comunità che si sviluppava. Quindi Orsera e Fontane si integravano molto bene; molti di Fontane venivano a Orsera e si sposavano e molti di Orsera andavano a Fontane, come del resto andavano nell'interno. Quindi c'era questo continuo movimento, e poi c'erano persone che si erano stabilite, che si erano sposate con uomini e donne ad Orsera. Quindi era [un paese] che non aveva conflitti specifici: non possiamo dire che era un luogo dove si incontravano, non so, gli estremisti o i nazionalisti; era un paese fondamentalmente pacifico."
4) Mi hai appena parlato di croati, in un paese - come la maggioranza di quelli lungo la costa - in cui penso che la componente italiana fosse maggioritaria. Io vorrei cercare di capire, anche se eri molto piccolo all'epoca, quindi magari ricordi cose raccontate da altri, che tipo di rapporto c'era tra il mondo italiano e quello slavo. Insomma, eravamo di fronte a due mondi che correvano paralleli e non si incontrano mai, oppure qualche volta questi mondi si incrociavano?
R.:"No, assolutamente no. Non erano mondi paralleli che si incrociavano o andavano per conto suo. C'era un unico tema: il croato che arrivava nel paese nostro - come del resto negli altri paesi - arrivava con lo scopo, con la voglia e col desiderio di lavorare, di affermarsi e di consolidare la sua presenza. Il croato estemporaneo era quello che il giorno del mercato veniva dal paese con la roba del mercato, e magari dopo due o tre anni che veniva era conosciuto da chi andava ad acquistare e viceversa. Ma il croato che veniva per lavorare magari iniziava con lavori umili - donna di servizio o uomo di aiuto in campagna o in porto per scaricare la roba - e pian pianino cercava di affittare una casa e farla propria e comprarsi poi un pezzettino di campagna. Vedeva e imparava, perché loro venivano poi da un interno dove non c'erano attività, neanche artigianali, non c'era niente. Quindi venivano ad affrancarsi per migliorare se stessi, per crescere. Non è che portavano qualcosa di suo, perché non avevan nulla da portare, né come cultura, né come attività e come mestieri. Assimilava molto, però è chiaro che gli restava la sua lingua, anche le sue abitudini e i suoi usi e costumi, che siccome non erano molto diversi dai nostri, si integravano e poi crescevano così. Perché quando parliamo di Jugoslavia è una cosa, parliamo di bosniaci e di serbi, di usi costumi e abitudini dal mangiare al parlare al vestire, ma quando parliamo di Croazia, cioè di paesi limitrofi, non c'era molta differenza, tutto sommato. Va beh, la lingua, i modi e gli usi si, perché ognuno ha i suoi usi, ma quelli che erano stanziali, diciamo non quelli di passaggio...Perché il nomadismo è una cosa, ma quelli che vivevano nei paesi, venivano lì e poi continuavano a tornare al paese due, tre, quattro, cinque volte all'anno, e qualche volta portavano anche gli amici nel nostro paese. Cioè non c'erano steccati o barriere; steccati o barriere onestamente non c'erano. Purtroppo per noi sono state portate dalla guerra, portate da altri che magari erano un poco dissimilari."
5) A questo proposito, tu ricordi qualcosa della guerra?
R.:"No, io ho dei flash nella testa, che hanno i bambini di cinque o di sei anni. E tutte le volte mi domando se sono flash che sono rimasti a me a un bambino di quell'età, o a forza di sentire i racconti li ho assimilati e fatti miei. Non lo so, ho dei dubbi su questo...Io però alcuni piccoli episodi che mi sono rimasti, che mi sono stati riferiti, e che mi riguardano li ho. Per esempio, quando arrivavano gli aerei a mitragliare il porto, e passavano proprio sopra casa mia, venivano dal mare, io ricordo, o mi hanno ricordato, che dicevo: ecco, arrivano gli aerei con la coda gialla. Perché erano, mi pare, i badogliani forse, o i tedeschi. Non so chi erano, so che avevano la coda gialla, e dicevo: arrivano gli aerei con la coda gialla, gli aeroplani, ei spara, ei spara, ei spara! Cioè sparano, sparano! E cercavo di nascondermi tra le gonne di mia mamma che sistematicamente, come tutti, si metteva negli angoli della casa. Diceva: se bombardano la casa e cade giù, di norma, gli angoli e gli spigoli o le colonne stanno su. Ecco, questo è un episodio che ricordo, per quanto riguarda il discorso della guerra. Ricordo la preoccupazione che sentivo bisbigliare nelle famiglie, che soprattutto riguardava i genitori, gli uomini: vengono, vengono a prenderci, non vengono a prenderci. Perché se ti prendevano ti portavano via, pochi tornavano e molti non tornavano più, e nessuno sapeva a chi rivolgersi in quel momento. Non c'erano più il sindaco, i carabinieri, e le istituzioni a cui ti rivolgevi per dire, non so, è successo questo. Purtroppo c'erano queste bande che venivano, che venivano giù, e che non erano in paese, ma stazionavano fuori nei boschi, e poi la sera venivano a rastrellare. Del resto dobbiamo dire, onestamente, che i rastrellamenti li hanno fatti anche i tedeschi, quando sono venuti prima. E anche loro hanno portato via quelli che reputavano di portare via; in misura minore, perché cercavano solo quelli che erano antifascisti e anti tedeschi, e quindi c'è n'era di meno. Mentre gli slavi portavano via l'italianità, e quello era un discorso diverso."
6) Le sparizioni. Penso di riferissi alla foibe. Io non penso che tu abbia sentito parlare delle foibe, perché eri un bambino di tre anni. Però quand'è che hai cominciato a sentire questo discorso, oppure, magari era una cosa latente, che aleggiava?
R.:"No, il concetto foiba, purtroppo, nella mia famiglia è entrato subito, perché due fratelli di mio papà sono stati infoibati. Uno si è saputo subito e dell'altro si è saputo successivamente. Allora, mio padre aveva due fratelli, sposati, con famiglia e anche le loro famiglie sono poi venute in Italia. Quindi pensiamo a una donna che è rimasta sola perché non aveva figli ed è stata nel campo profughi di Brescia per tanti anni e poi è deceduta a Brescia; l'altra invece, che si è fermata a Trieste, aveva due figlie: e quindi una donna sola con due figlie che cosa ha dovuto superare per dover recuperare, non avendo l'uomo che portava a casa il denaro, e quindi è stata dura. Uno si è saputo subito, perché uno slavo del nostro paese, che stava lì da diversi anni, ha incrociato uno di questi, qualcuno li chiamava partigiani di Tito. Io non so come chiamarli, perché quando si uccidono le persone così che sono civili, bisogna mettersi d'accordo su che titolo darglielo ma darglielo per tutti: quindi il titolo che diamo a chi ha ucciso i civili alle Fosse Ardeatine, glielo dobbiamo dare anche a chi ha ucciso i civili in Orsera e anche in Istria in generale, e quindi il termine non lo voglio usare! Ecco uno croato ha detto a questo croato che conosceva la mia famiglia: ah, [A.], [A.], mi g'ho questo fazzoleto, daghe a suo fradel questo fazoleto, e quando abbiamo visto il fazzoletto, abbiamo capito che c'era rimasto il fazzoletto. Quindi per infoibato che cosa intendevamo noi? A volte usiamo il termine in maniera impropria... Infoibati per noi sono tutti quelli che sono spariti: se non hai la certezza che è stato annegato dici infoibato, se non hai la certezza che è stato seppellito in un bosco dici infoibato. Era un termine usato così... In effetti bisognerebbe usarlo per chi è stato effettivamente buttato in una voragine che lì si chiama foiba. Però io direi, generalizzato così... Ecco perché, a mio avviso, anche i numeri sono molto diversi: quando uno è scomparso non sai come è scomparso, quando uno sei certo, come le schiere di quelli che li hanno visti legati, allora lì va beh, sai che sono stati infoibati. Per noi in famiglia l'infoibamento è stato subito... Mentre per l'altro non abbiamo saputo niente perché lavorava in Arsia. Lavorava in Albona, era capo squadra in una miniera e sapevamo che molti di quelli che erano italiani e che lavoravano nelle miniere sono stati proprio portati vie e fatti sparire. Si pensa infoibati, ma non c'erano elementi per poterlo [affermare]; la speranza era sempre che magari te lo ritrovavi dopo quattro o cinque anni da qualche altra parte."
7) Secondo te, cosa stava alla base di queste violenze?
R.:"Ma, col senno del poi c'è una lucidità nel poter raccontare le motivazioni. In quel momento la gente non riusciva a capire perché a ciel sereno - tra virgolette a ciel sereno perché c'era la guerra! - perché in un contesto in cui lì non si combatteva, in quei paesi in cui non c'era la prima linea e non si combatteva, per quale motivo queste bande guidata da Tito che erano composte, quasi nella gran totalità da cittadini slavi che non erano croati, che venivano soprattutto dalla altre repubbliche e che erano serbi e montenegrini, ma anche croati, evidentemente, sono venuti lì e hanno fatto questa pulizia. Perché il fenomeno foiba, era la conclusione di un processo che iniziava dal prenderti la casa, dal prenderti l'attività commerciale, dal prenderti il motopeschereccio, dal prenderti la barca per pescare, dal vuotarti la cantina, dal portarti via gli animali dalla stalla: era questo il processo che iniziava. Ora, io non voglio trarre conclusioni se saremmo rimasti o se non saremmo rimasti, però il concetto era: se mi portano via tutto e mi dicono, tra virgolette, forse è meglio che te ne vai, o se ti bastonano questo, se portano quello lì in prigione e poi uno lo rilasciano e tre li fanno sparire, io credo che non hai poi bisogno del resto per trarre le conseguenze, non ne hai bisogno. Sono arrivate le opzioni, e la gran parte della gente ha detto: quello va via, a quello gli manca il padre, a quello gli manca il fratello, la madre l'hanno bastonata o violentata, opto e vado via. Era questo il discorso, perché la popolazione civile ha optato ed è venuta via. Lasciamo stare i perseguitati degli uni o degli altri regimi, lo capisci perché vanno via. Se sei perseguitato e hai fatto due anni di prigione, quando esci la prima cosa che fai, fai gli stracci e vai via. Ma la popolazione civile... Tanto è vero che molti hanno avuto comportamenti diversi. Io vorrei far rimarcare in un contesto in cui viene scritto qualcosa da te, che ci sono esodi in forma diversa. L'esodo di Zara è stato un esodo in forma diversa in tempi diversi; l'esodo di Pola è in tempi diversi e in forma diversa rispetto all'esodo d'Istria. Ecco, sfaccettature e sfumature di un fenomeno comune, in momenti diversi, perché quando noi ricordiamo, la gran parte dei documentari e dei libri, l'esodo da Pola, il Toscana.. E' vero che son le uniche immagini che abbiamo, ma perchè? Perché c'erano gli inglesi e si poteva filmare e fotografare. Ecco, ma da noi non c'erano gli inglesi che ci tutelavano, da noi è stata ancora più dura. Da noi, c'è gente che non ha portato via niente, salvo quel poco che aveva. Noi, per esempio, che abbiam portato via i mobili, sappiamo quello che abbiamo dovuto fare e pagare per portare via i mobili. Altri neanche quello hanno avuto, il piacere e la soddisfazione. Oggi, i nostri mobili che abbiamo ancora qui, io me li guardo e son diventati antiquariato."
8) Parliamo ora dell'esodo, che mi viene da dire, potrebbe essere l'ennesima pagine triste che avvolge questi territori. Tu che ricordi hai dell'esodo, di quando siete partiti?
R.:"Si, il ricordo è sempre quello di un bambino piccolo. Il ricordo di un bambino piccolo che è andato sulla barca con tutti e con tanti e che ha fatto un lungo viaggio. Perché poi in quel momento, in quel contesto, era un lungo viaggio, ed è approdato su una riva, ed è approdato in Italia. Alla mia età non si poteva avere la sensazione di cosa voleva dire approdare in Italia o approdare da un'altra parte, approdare a Trieste o approdare a Venezia, questo non era. Il nostro itinerario è stato con la barca l'arrivo a Trieste, perché mio padre essendo responsabile del porto a Orsera aveva degli amici al porto di Trieste, al porto franco, e per un attimo abbiamo pensato che si sarebbe sistemato lì e che anche la famiglia si fosse sistemata lì. Quindi il nostro esodo non è stato drammatico: non siamo stati né mitragliati, né abbordati, però è stato triste, perché? Perché i nostri genitori piangevano, perché i nostri nonni piangevano perchè tutti quanti guardavano andando via, lungo il mare, la loro casa e la loro terra, e capivano, pensavano, anche se la loro speranza era quella di poter tornare un giorno, che forse non sarebbero tornati più: c'era ottimismo e pessimismo, come dappertutto. Molti esuli hanno lasciato le chiavi nella toppa della casa. I nostri genitori - e questo lo ricordo bene perché a Trieste lo ripetevano in continuazione - [dicevano]: noi non abbiamo fatto niente a nessuno, tutte le nostre famiglie. Noi non abbiamo fatto del male, né a quelli di prima, né a quelli di adesso, e non riusciamo a capire per quale motivo abbiamo dovuto abbandonare tutto. A volte credo che nella loro semplicità facessero i paragoni: è venuto il fascismo, ci ha oppresso, ma in fondo ci ha lasciato a casa nostra. Sono arrivati i comunisti di Tito e ci hanno fatto andare via da casa nostra. Forse questa è una differenza che consto. Per quello che prima ho detto non so se saremmo rimasti come e cosa; i presupposti per rimanere non c'erano. Cioè quando ci han tolto quello con cui vivevamo e di cosa vivevamo, evidentemente non potevi che pensare... Poi era un loro consiglio, dato come può dartelo un soldato in tempo di guerra: vattene via almeno ti salvi la pelle. Quindi è questo il concetto. Noi bambini, che con una giocata, con un girotondo, con uno scherzetto dimenticavamo tutto, siamo stati presi per mano da uomini e donne nel pieno della maturità, dalle famiglie che sapevano che abbandonavano e che non sapevano cosa sarebbe successo. Posso dire ancora questo: che dopo, man mano, siamo arrivati a Trieste, siamo stati smistati. Io di questo ho un buon ricordo, come tutti i bambini. La prima notte l'abbiamo fatta al Silos. Al Silos, sulla paglia, io non ho dormito e mia mamma non ha dormito, perché mi schiacciava i pidocchi che mi camminavano sulla schiena e sulla braccia. Ma non era solo a me, era a tutto quelli che come me erano là, ed eravamo in tanti. Ecco, questo ricordo si, ce l'ho, perché mi è rimasto impresso, ecco. Poi siamo stati a Trieste, un periodo breve di qualche mese, fino a che uno degli zii - noi eravamo un gruppo di famiglie che siamo andate via, lo accennavo prima - ha detto che forse se andavamo in Toscana, a Marina di Carrara, c'era il molo, c'era il porto e forse c'era anche la possibilità di poter lavorare nelle cave di marmo, e abbiamo scelto - abbiamo chiesto - di andare in quel campo profughi. E siamo andati al campo profughi di Marina di Carrara, che loro chiamavano San Grilla, e che era in riva al mare. Anche quello, e questo era forse l'unico conforto che avevamo, l'aria era quella che ci pareva di respirare a casa nostra, e per noi bambini era motivo di gioco."
9) E in che anno siete partiti?
R.:"Siamo partiti nel '48. Dicembre del '48: io ho fatto San Nicolò a Trieste."
10) Mi hai parlato dei mobili che siete riusciti a portare con voi. Quindi siete stati già fortunati...
R.:"Fortunati, certo! Noi siamo tra quelli che hanno portato via anche parte della mobilia, evidentemente. E l'abbiamo lasciata nel porto franco a Trieste, in quel magazzino che oggi sta per diventare museo, tu sai. Lì c'erano anche molte masserizie di altri che l'avevano portate. Poi, quando siamo andati in Toscana, li abbiamo trasferiti in Toscana. E poi successivamente a Torino. Quindi loro hanno fatto il giro [con noi], e quelle masserizie noi le abbiamo ancora e dietro c'è scritto il nome, il cognome e il numero del collo stampato con la vernice a testimonianza."
10) Tu, per forza di cose, hai seguito la tua famiglia, perché, evidentemente, non potevi avere nessun potere decisionale vista l'età. Se ti chiedessi perché son partiti i tuoi, quali sono state le causa alla base di questa scelta?
R.:"La mancanza di prospettive, la mancanza di prospettive per il futuro. Perché, io vedo oggi cosa succede. Se un uomo di trent'anni o di quarant'anni perde il lavoro, e non ha il lavoro, e la sua casa magari non ce l'ha e gli dicono che deve andare in un'altra, o deve dividerla con altri, solo se ha una stanza o due in più, ed è un fenomeno che vorrei discutere questo, perché è un fenomeno che si sottovaluta. Ricordiamoci che nella Russia, in cinquant'anni di comunismo, in un alloggio grande stavano anche due o tre famiglie, e loro era questo il sistema che volevano imporre a delle famiglie abituate ad avere la casa di sotto, di sopra le camere e sopra il solaio. Per loro era tre posizioni da dare alle famiglie. Ora, non erano le famiglie dei tuoi vicini, o le famiglie di quello lì che ti è simpatico o antipatico ma che parla come te e che mangia come te, ma erano famiglie di gente che non aveva niente al loro paese, che non era tornata. Erano quelli che erano venuti a cacciarci via, e non potevano tornare a casa loro perché avevano una casa, un lavoro o un'attività. Non avevano niente, quindi si fermavano nei nostri paesi e si impossessavano delle nostre cose. Quindi già gli dovevi cedere buona parte della casa. Ma non solo, non avendo mai lavorato nella loro vita, non potevano portare in campagna gli animali e accudirli, e lavarli e pulirli e dargli da mangiare: non erano capaci. Un motopeschereccio non lo sapevano pilotare, guidare, non sapevano come buttare le reti e come raccoglierle, non sapevano come alimentare le viti e quando fare il raccolto, dargli zolfo e farlo diventare vino. Questo lo dico perché negli anni successivi al nostro esodo, in Istria per vent'anni praticamente... L'Istria è stata disabitata, deserta e abbandonata. Se noi andiamo oggi in Istria, vediamo che da quindici anni a questa parte, sono state rimesse le colture delle viti, le colture degli ulivi e tutto quanto. E diciamo meno male, perché è una terra bellissima, è la nostra terra, anche se oggi è abitata da altri, resta sempre così. E' una terra che merita, avere lo sviluppo: chi oggi pianta le viti, farà del buon vino, come sempre, chi oggi ha degli ulivi farà dell'ottimo olio. Quindi, quella volta, vedendoti privato di tutto ciò... Mio nonno aveva il forno, gli hanno tolto il forno e sti due vecchietti di cosa dovevano vivere? Gli han portato via anche i sacchi di farina. Anche i tedeschi gli avevan portato via i sacchi della farina per fare il pane, non glieli hanno portati via solo i titini, sia ben chiaro! Qui non si tratta di calcare la mano nei confronti di un sistema o di un regime, ma di atti e di gesti che vengono fatti."
11) Se io ora ti ribaltassi la domanda. C'è stata anche una minima parte di gente che ha invece deciso di restare. Secondo te perché?
R.:"Allora, io posso parlare per Orsera, di chi è rimasto ad Orsera, anche perché io ho dei reffronti all'oggi. Però il fenomeno varia, ha le sue sfumature: penso a Rovigno dove son rimaste molte più persone, penso a Orsera o a Dignano dove sono andati via quasi tutti. A Orsera son rimaste sei famiglie. Su 2.000 persone non so quante potevano essere, ma son rimaste sei famiglie. O nove famiglie, non vorrei dire una bugia: o sei o nove, ma non cambia nulla. Ora, di queste nove famiglie io non voglio fare l'analisi - anche perché l'hanno fatta i miei e io l'ho recepita -, ma due erano collaboratori di Tito, e quindi avevano le mani in pasta in quelle vicende, e quindi anche le segnalazioni, le sparizioni e tutto erano oggetto di questi. Si sapevano, si conoscevano già da prima, perché erano sempre stati di quell'idea lì, erano stati anche perseguitati dal fascismo, nel senso che ogni tanto quando arrivava qualcuno dei gerarchi a visitare la città li mettevano in prigione due giorni per non...Insomma, le solite cose che fanno i regimi contro chi non condivide il regime. Dicono che hanno segnalato loro gli uomini da portare via, dov'era nascosto il podestà e queste cose, però tra il dire e il fare, prove non c'è ne sono e si può solo chiacchierare. Quattro famiglie sono rimaste perché credevano nel paradiso socialista: avevano un credo, erano persone tranquille, erano persone per bene, non avevano fatto del male a nessuno, erano persone che avevano la loro attività e il loro lavoro. Erano persone che avevano la loro idea politica e credevano che in quel modo si sarebbero realizzati meglio che nel sistema che vigeva prima e hanno fatto questa scelta. E mi pare, due famiglie, una era di anziani, e in una famiglia...No, erano di anziani, due famiglie erano di anziani che avevano detto: io oramai ho una certa età, qui è la mia terra, muoio nella mia terra e non voglio andare via. Non erano in contrasto tra di loro; forse le prime due perché erano stati delatori, ma le altre hanno fatto, se possiamo dire, un po' di vita in comune. Ecco, vorrei segnalare che una di queste famiglie era di un cugino di mio papà. La scelta di rimanere là è stata molto discussa nella famiglia tra mio cugino e sua moglie, perché avevano quattro bambini piccoli, e lui faceva il pescatore. Lui continuava a dire che in qualsiasi parte d'Italia non avrebbe potuto lavorare perché sapeva fare solo il pescatore, e mantenere quattro figli e la moglie... Lì lui aveva la sua barchetta e una barca un po' più grossa, e lui ha fatto questa scelta. Non era una scelta politica, era una scelta di vita, e credo che illustrando queste tre o queste quattro [casistiche], abbiamo illustrato un po' in generale quelli che sono i rimasti. Credo che siano questi. Però posso dire una cosa su nostro cugino. Lui poi ha visto che non poteva pescare, che non ce la faceva, che non c'erano più neanche gli estremi e le possibilità, perché non li lasciavano più neanche uscire dal porto, perché in post bellico avevano paura e timore di tutto. Si è preso allora una pasticceria di uno di quelli che l'ha abbandonata: è stato bravo, ha lavorato e dopo tre anni che l'ha messa in piedi che funzionava e che si guadagnava lo stipendio gliel'hanno tolta per darla ad un altro. E allora lui, che nel frattempo la pesca si era riaperta, si è impossessato di un motopeschereccio che era di un nostro parente, e che era lì alla fonda che si stava deteriorando come tutte le cose che abbandoni, ha cercato motoristi, ha fatto tutto e ha rifatto ripartire questo motopeschereccio. Aveva la rete per pescare, che si chiamava saccaleva ed era lunga trecento metri e profonda settanta e che portava del pesce. Prima l'hanno obbligato a portare il pesce a chi governava perché lo mandava nella fabbrica del pesce che era lì vicino, e gli davano una giornata come a un lavorante. Poi quando la barca pescava, perché il mare istriano è sempre stato pescoso - l'Adriatico dalla parte nostra era molto più pescoso, anche perché era meno sfruttato - gli hanno tolto anche la barca, e gli hanno detto, quando lui ha protestato... Lui ha detto: ma io sono qua, vivo qua. Si, ma tu sei un italiano. Questa è stata la motivazione per cui non volevano che nessun italiano avesse nessuna attività di rilievo, proprio perché gli italiani rappresentavamo in quel contesto - cioè quelli che sono andati tutti via - le attività commerciali e il tessuto sociale. Ecco, questo ha cominciato a farlo riflettere un attimo sulla sua scelta, che non era una scelta politica, ma era una scelta di vita. Nel frattempo i ragazzi sono diventati grandi, e il primo è scappato in Svezia, perché dopo chiuse le opzioni non si poteva andare via dalla Jugoslavia perché il regime non lo permetteva, perché credo che in tutti i regimi fosse così, soprattutto quando è nata la cortina di ferro e poi sappiamo cosa è successo in Germania, in Cecoslovacchia e in Polonia. E allora uno è scappato ed è andato a lavorare in Svezia, perché si vergognava di venire in Italia, si vergognava di sentirsi dire tu hai scelto di rimanere e poi sei scappato via. Eri stato traditore due volte, se il termine traditore può identificare queste scelte. Io non lo vorrei usare, perché scelte difficili così, momenti così difficili, se tu non hai fatto male a nessuno sono scelte che vanno rispettate. Indipendentemente dai risultati che danno, ecco. Anche se noi diciamo che siamo fieri ed orgogliosi che i nostri genitori hanno scelto di venire qua anziché di restare lì, considerando come sono vissuti questi ragazzi della nostra età in questi ultimi cinquant'anni, quarant'anni."
12) A questo proposito chiedo una cosa. Io credo che prima dell'esodo vi siano stati dei legami familiari, affettivi e di amicizia. Ecco, dopo l'esodo, questi legami si spezzano oppure restano integri?
R.:"Si. Io direi che nella nostra famiglia i rapporti con i cugini rimasti e i rapporti con alcuni familiari che erano slavi, ma che hanno scelto di venire nell'esodo. Avevamo un cugino che era giovane, che ha sposato una ragazza slava, una ragazza croata, di Fontane, e non a caso ho citato Fontane, che è venuta via con noi. Ma lei ha vissuto la profuganza nostra così come l'abbiamo vissuta noi: non c'è stata una persona che in campo profughi gli abbia detto tu eri slava, maledetti gli slavi e cose così. Cioè, voglio dire, lei aveva fatto anche lei la scelta con suo marito, aveva abbracciato anche lei questa scelta dell'esodo e ha avuto il massimo rispetto. Nei rapporti, invece, con queste famiglie rimaste, che come ho detto erano poche, pare che se fossero circa 30.000, neanche 30.000 su noi, diciamo, 350, 320, 300 mila, non cambia molto, cioè sui numeri non fa differenza, ma non ha superato sicuramente il 10%. Insomma, se una riflessione ci rimane, tra il 90% che va via - mal detto - e il 10% che rimane, una riflessione rimane. Ecco, nei confronti di quelli c'è il rispetto, il gran rispetto nei confronti dei familiari, dei parenti e degli amici cari che hanno fatto certe scelte, una goccia di odio per quei rari che abbiamo conosciuto e che hanno fatto i delatori, che hanno fatto del male a della gente che è stata poi uccisa, perchè una cosa è fare un dispetto, ma togliere la vita...E anche, direi, indifferenza, molta indifferenza. Perchè io qui adesso anche qui come Comitato, noi come Comitato abbiamo aiutato due o tre famiglie a prendere le case, adesso, dopo quarant'anni. Le case popolari, ed erano famiglie di chi aveva scelto di rimanere ed è venuto via poi negli anni Cinquanta o '55. Quindi hanno goduto del nostro rispetto. Qualcuno dei nostri ha detto: eh, ma quelli erano così, la gran parte invece sanno che erano così e li hanno integrati, si sono integrati. Quindi anche, direi, nei confronti dei rimasti c'è stata molto indifferenza per i primi anni, per i primi dieci vent'anni credo, e poi dopo il rapporto è umano ed è in funzione... Poi magari la generazione cambia e ci sono dei figli, con alcuni si conoscono e si parlano, perchè quasi tutti parlano il dialetto nostro, per mille motivi diversi. Quindi, salvo quelli che hanno fatto determinate azioni, credo che tutto il resto c'è stata indifferenza."
13) Parliamo ora dei campi...
R.:"Si, io sono andato a Trieste, poi son andato a Udine, poi a Marina di Carrara e infine a Torino. Noi quando siamo arrivati a Trieste - e abbiamo ancora i documenti che poi una volta te li farò vedere- siamo stati accolti dal Comitato di Liberazione Nazionale. Poi qua magari - non in questa intervista - vorrei parlare del Comitato di Liberazione Nazionale e dei partigiani italiani, triestini e istriani, che hanno combattuto e che non erano solo la Pino Budicin. Perchè recentemente sono stato a Trieste - l'altra settimana - alle comunità italiane, alle Comunità istriane, che è una delle due associazioni a Trieste che raggruppa gli istriani, e sono un'emanazione diretta del Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste, e ho letto delle cose - alcune le conoscevo, alcune no - che mi hanno fatto capire quanta gente ha lottato perchè l'Istria restasse italiana, quanti istriani hanno lottato da partigiani contro i tedeschi. E poi, niente, c'è stato anche questo conflitto tra le due ali dei partigiani, quelli jugoslavi e quelli italiani, e hanno vinto loro, perchè se no non saremmo qua! E mi piacerebbe dire questo. Però, detto questo, c'era il Comitato di Liberazione Nazionale, che ci accoglieva e che ci dava un documento: io ho un documento con la fotografia mia di bambino dell'età che avevo, di mio fratello, di mio papà e di mia mamma. E lì siamo stati accolti e ci hanno messi nel Silos. Nel Silos si stava che era una specie di Risiera di San Sabba, era insomma la stessa cosa. Solo che il Silos oramai era un punto di accoglienza. Ricordiamoci che era il periodo post-bellico e ricordiamoci che l'Italia era distrutta dalla guerra, quindi non è che ti mettevano in un posto con i letti e la mensa, evidentemente. Ma questo valeva anche per gli sfollati che erano in Italia, indipendentemente dalla nostra zona. Io qui ho degli amici che sono sfollati dal cuneese, dove i tedeschi sono andati a fare quello che hanno fatto, che gli han buttato giù interi paesi nella ritirata, e che poi son stati in campo profughi con noi e abitano qui anche quelli. E quindi lì poi eri gestito dalla Prefettura, perchè questo documento andava alle prefetture e al ministero degli interni attraverso i prefetti. I Comuni davano degli aiuti. Noi là avevamo uno zio prete, che per farci uscire da questa posizione del Silos, dove c'erano i pidocchi e veramente anche la malattie, ci ha dato una stanza nella canonica; uno stanzone grosso dove cinque famiglie si sono ricoverate. Il tempo un mese, un mese e mezzo - lui aveva poca pazienza di sentire sti bambini che giocavano, era anziano, era prete, non aveva neanche forse la sensibilità - credo che ti piaccia questo concetto... Ti piaccia nel senso di farti capire come chi ha fatto un'altra vita, diversa, anche in un periodo come quello, non ha forse la sensibilità che hanno le persone normali. Perchè se ci ospitava una famiglia che ha perso il padre, o un figlio in guerra, aveva una sensibilità diversa da chi ha perso tutto e aveva solo i vestiti che aveva addosso. Comunque di là - te l'ho accennato prima ma te lo ridico - abbiamo intravisto la possibilità di andare in Toscana, dove c'era possibilità di lavorare. Ti faccio presente che per noi andare a Marina di Carrara voleva dire essere vicini a Marina di Massa, dove c'era un altro grande campo profughi, vicino a La Spezia, dove alla caserma Ugo Botti c'era un altro grande campo profughi, insomma, c'è n'erano centonove su tutto il territorio italiano... Comunque, era un modo come un altro di dire: forse ci sarà qualcun altro. Si, ci siamo un po' [divisi]... Le nostre famiglie al momento non si erano ancora divise, però alcuni parenti si erano divisi: le cognate di mio papà dei due fratelli morti, una era andata a finire a Brescia in campo profughi, e l'altra era rimasta a Trieste. A Trieste perchè dalla parte sua di lei c'era qualche parente che per il momento l'ha aiutata un attimo. E quindi si, queste divisioni ci sono [state]. Poi molti amici e familiari si sono sparsi: il caso più emblematico è il caso di Marisa Brugna, che è mia coscritta, mia compaesana, i nostri genitori avevano anche le campagne vicine dove lavoravano, e ci siamo persi. Loro hanno fatto un iter diverso che è finito in Sardegna; io ho fatto un iter che dopo Marina di Carrara mi ha portato a Torino e adesso ti racconto perchè, e poi ci siamo ritrovati in un contesto delle associazioni degli esuli. Noi a Marina di Carrara siamo stati quasi quattro anni e più, con la speranza di trovare un lavoro. Ora, si sperava alle cave di marmo, si sperava anche a quell'industria della Dalmine che c'era, si sperava nel porto, perchè il porto lavorava coi marmi, con le esportazioni e tutte quelle cose lì, ma non abbiamo avuto queste possibilità. Il campo profughi ci assisteva, ci ha dato divisi questi cameroni enormi, queste camerate dei soldati, con delle coperte e con dei mobili - ecco il perchè abbiamo poi richiamato i mobili a Marina di Carrara - e con quei mobili e un cartone abbiamo ricavato uno stanzone, dove c'era anche un bollitore per mangiare e bere un caffé, o che i due bambini dormissero e i genitori avessero la loro intimità, la loro cosa. Però il lavoro lì era tutto estemporaneo, tutto a giornata: mio papà per esempio andava in campagna, e gli davano a giornata un bottiglione di vino, un po' di frutta e quelle cose lì. E con quello e con quello che passava il campo, nel senso che faceva da mangiare la sbobba nei gamelloni, si viveva e si sperava. Mio fratello era un ragazzino e cominciava ad andare a scuola, io avevo appena cominciato le scuole elementari e ho fatto la prima, la seconda e la terza elementare al campo profughi di Marina di Carrara, perchè c'era la scuola nel campo."
14) E lì, nel campo, c'erano anche altri servizi?
R.:"No, esisteva una scuola, ma anche quella veniva ricavata da un camerone. Con dei banchi, neanche scolastici, dei banchi, e c'erano degli insegnanti del provveditorato agli studi che venivano a insegnare. Ecco, voglio dire che le maestre, per i bambini, e il prete nel campo profughi - c'era sempre una chiesa eh! - erano comunque un punto di riferimento, perchè il prete, in effetti, anche in una promiscuità così, faceva a volte anche da paciere. Magari era uno che veniva dall'esterno, era uno che aveva già una piccola cultura - i preti, comunque studiano un pochino - e i direttori dei campi profughi erano funzionari della prefettura molto preparati. E' vero che magari qualcuno è stato anche cattivo, così, ma io parlo in generale, parlo del nostro che è stato una bravissima [persona]. Molti si appellavano, avevano bisogno di tante cose, e nei limiti del possibile erano, se non soddisfatti, almeno tranquillizzati. Non eravamo in un ghetto, nel senso che il campo era aperto, si entrava e si usciva e non ci sono stati grandi attriti con la popolazione. Certo, c'è parte che ti apprezza e differente parte che ti dice che gli vai a prendere il pane, ma questo capita dappertutto, è capitato anche in altri casi e in altri momenti del nostro vivere e della nostra Repubblica. Però, c'erano ad esempio anche per i grandi, perché avevamo il mare vicino, e chi è nato al mare son sensazione diverse...Anche oggi, ancora oggi a un certo punto, in certi momenti della stagione tu il tuo mare te lo senti nelle orecchie, te lo senti nella testa: qualcosa ti manca. Questo vale [anche] per chi è nato in montagna e deve andare in città: a un certo punto uno non ne può più. Però noi lì con questa storia del mare, con questo clima più mite... Però al quarto anno, quando non c'era la possibilità, uno degli zii più giovani si è licenziato dal campo profughi. Non so se ti hanno rimarcato questa situazione: il campo profughi ci dava l'assistenza e ci dava due lire, un sussidio. Tu hai letto nelle documentazione che hai fatto per altre cose e lo sai. Ci dava un sussidio. Ora, se tu andavi via dal campo profughi per cercarti un lavoro, fuori dalla provincia dovevi licenziarti dal campo profughi. Ora lo zio più giovane, su consiglio della famiglia e di tutti quanti, si è licenziato dal campo profughi - mi pare abbia preso 30 o 50.000 Lire, non lo quant'erano- ed è andato a Torino, perché aveva sentito parlare che a Torino c'erano le fabbriche e che a Torino poteva lavorare. E' andato in via Saluzzo - oggi sappiamo cos'è via Saluzzo, ma una volta per quelli che arrivavano lì - e ha trovato meridionali, veneti, di tutte le regioni italiane che venivano qui a Torino alla Fiat che li prendevano. Lui è uno di quelli che può raccontare di essere arrivato in stazione e di aver trovato un signore che gli ha detto: ma lei, vuole andare a lavorare? Magari! Gli ha risposto! Venga a questo indirizzo - gli ha dato un biglietto - domani mattina a fare le visite mediche; e lui dopo tre o quattro giorni era assunto alla Fiat. Ha scritto, perché i telefoni... Ha scritto, dicendo: dopo tanta pegola - perché la sfortuna noi la chiamiamo pegola - dopo tanta pegola, me par che forse g'avemo trovà una soluzione per noi. Non me par vero: lavoro una settimana, e alla fine de la settimana ei me da i soldi! Perché la Fiat, ogni settimana [pagava]. Non me par vero...E ha mandato subito, con orgoglio, la prima busta da noi, così. E allora i nostri genitori han deciso di licenziarsi dal campo, e son venuti qua che erano già più anziani, timorosi. Avevano quarantacinque anni, cinquanta, e son stati fortunati ad essere stati assunti a quell'età lì, in una fabbrica: è stato assunto a quarantotto anni mio papà grazie alla Fiat. Ha dovuto dire grazie alla Fiat, non per Valletta o per Agnelli, ma per quello che la fabbrica... Fosse ben stata anche di Berlinguer non cambiava nulla, ma per lui è stata un'ancora di salvezza. E' chiaro che poi il concetto del lavorare, del lavorare sodo, dopo vicissitudini di questo genere...Dopo esser stati abituati a lavorare in proprio, resta difficile non lavorare, resta difficile anche individuare subito diritti, doveri e tutto quanto, perché ti prende questa smania, questo entusiasmo, questo voler consolidare un qualcosa che hai paura che domani ti scappi via, che domani non ci sia più. Invece non è così: c'era i padroni, c'era le organizzazioni sindacali, c'era il lavoro, c'era certe garanzie. C'era tutto, bisognava entrare in questa ottica, bisognava capire che il mondo per noi che venivamo dal paesello in cui vivevi del tuo, vivevamo in una città con delle regole. E dovevi imparare le regole. E allora, cosa è successo? Che poi, successivamente, le famiglie hanno chiesto - dopo subito, sei o sette mesi - ... Non potevano star da soli, spendevano anche sti soldini lì, in affitto...Le famiglie, quindi i capi famiglia e quindi le donne che son rimaste coi bambini, hanno chiesto il trasferimento al campo profughi là, a Torino. Noi lo abbiamo ottenuto e siamo stati fortunati, perché c'era due campi profughi a Torino, via Veglia era divisa in due. [Noi siamo stati fortunati] a trovare una specie di camerone da dividere in due con l'altra zia, e abbiamo diviso il camerone in due. E siamo venuti a Torino e così loro sono venuti a vivere nel campo. Attenzione, però, perché loro non potevano venire a vivere nel campo, perché erano già andati fuori, ma la prefettura e il direttore del campo, che era una persona di apertura, queste cose le capiva, le accettava. Praticamente son tornati nel campo, e hanno cominciato a dire: va beh, adesso la famiglia può mettere un paio di pantaloni al ragazzo, possiamo andarci a comperarci qualcosa fuori da mangiare, a fare la spesa, non vivere sempre della sbobba, insomma questo piccolo gradimento. Intanto si parlava di case popolari. Io ho iniziato ad andare alla scuola fuori campo: ho fatto gli altri due anni di elementari al campo profughi, qui".
15) Perchè tu quando sei arrivato a Torino?
R.:"Io sono arrivato nel '54, sono arrivato due mesi prima che andasse giù la Mole Antonelliana. Siamo arrivati lì, e continuo a dire che per noi bambini...Avevamo conosciuto l'oratorio che non avevamo mai conosciuto e non sapevamo che ci fosse l'oratorio. Ma qui in Piemonte, Don Bosco e compagnia bella, era un po' una tradizione in quegli anni, e abbiamo conosciuto l'oratorio, il calcio balilla, il monopoli, e per noi bambini il mondo era non tanto penalizzante, [mentre] per i nostri genitori era diverso. Noi avevamo questo doppio mondo: quando la sera li sentivamo parlare, perché vivendo in promiscuità in un buco, la sera uscivano tutti sulle scale del padiglione a chiacchierare, e ognuno parlava del paese, di quello che ha lasciato, del familiare che non c'è, chissà dove sarà, e l'altro raccontava di questo. Noi ascoltavamo un po', e poi, forse, neanche metabolizzavamo bene queste cose: andavamo a fare una corsa, andavamo a giocare al pallone, era diverso. Oggi, ripensando a quello che loro dicevano, ci rendiamo conto di quanto loro hanno patito e sofferto: avevano questa sicurezza che nessuno li ucciderà, li picchierà e li manderà via, però avevano l'incertezza di aver perso tutto, di non avere niente e la speranza che attraverso questo lavoro si potranno affrancare ancora in futuro. Questi erano i tre piloni delle nostre famiglie, mentre per noi ragazzini il nostro problema era solo di essere vestiti come gli altri, per essere mescolati in mezzo agli altri quando si andava a scuola. Nel frattempo si cominciava a mettere il nasetto fuori dal campo profughi e a conoscere altri bambini. Non avevamo il senso della... di essere disadattati; noi nelle scuole dove siamo andati - anche all'esterno - io i miei genitori mi hanno mandato alla scuola Agnelli, perché pensavano che se imparavi in fretta un mestiere andavo a lavorare in fretta e mi avrebbero dato un futuro. Poi dicevano dopo studierai, diventerai perito, farai quello che vuoi - magari l'università - ma dopo, adesso impara un mestiere che poi... Siccome noi eravamo bravi nei nostri mestieri a casa nostra, qui ci sono altri mestieri per essere bravi, per essere sicuri di lavorare, e quindi... Mio fratello andava a lavorare alla Ceat gomme e sapevano i sacrifici che faceva, sapevano cos'era e dicevano: tu sei più piccolo e devi studiare, per non andare a fare l'operaio. Almeno operaio qualificato, od operaio di prima categoria che comunque abbia un mestiere. Che cosa c'era nel campo profughi? Io che cosa ho sofferto ad andare nelle scuole? Nulla. Nulla salvo i vestiti, i primi tempi, che ero vestito coi jeans che gli americani cominciavano a mandare e loro dicevano: guarda, quelli lì sono profughi perché hanno quei vestiti. Oggi i jeans li portano tutti, anche Luca di Montezemolo, che potrebbe farne a meno, che vuol fare un po'... Però non è il segno del proletario, una volta lo era. E non so, la mancanza, magari, di quei dieci soldini in tasca in più, per andare a fare qualcosa, a prendere un gelato o meno: quando gli amici uscivano io me ne venivo a casa. Questo problema l'ho sentito quando son diventato giovanotto, perché dopo la scuola Edoardo Agnelli dai Salesiani, i miei mi hanno iscritto allievo Fiat, proprio per... Io, l'allievo Fiat, per me è stato... Lì bisognava avere una cultura, un'educazione che io non avevo ancora appreso; io avevo l'educazione di base, quella dei miei genitori, che era educazione. Lì bisognava avere una cultura educativa diversa: io mi sono presentato il primo giorno di scuola con una giacca e una magliettina e un pantalone - perché quello avevo - e il direttore che era sulla porta di entrata mi ha preso e, davanti a tutti, mi ha fatto un cazziatone! La giacca deve essere abbottonata, devi portare una camicia, devi essere chiuso, che cos'è questo collo sguaiato. Io credo di aver rasentato il pianto in quel momento lì, ma ero un ragazzino di sedici anni. Però posso dire che cosa ha detto mio padre, che cosa è andato a dire a mia madre - l'ho saputo anni dopo - : mi voleva ritirare. Perché non si può trattare dei ragazzi, dei bambini - perché a sedici anni per loro sei sempre bambino - in questo modo. Secondo me era un modo con cui lui aveva espresso un concetto di emarginazione, di discriminazione che avveniva. Io non l'ho sentita, perché devo dire che a distanza di quarantacinque anni, una volta all'anno mi trovo ancora con i compagni di classe. E, voglio, dire è rimasta una solidarietà e un'amicizia: non mi hanno mai fatto pesare né economicamente, né...Però, diciamo, che per le piccole necessità oramai si lavorava, i genitori lavoravano, e avevi quel che ti serviva. "
16) A questo proposito, l'accoglienza com'è stata? Pensando magari anche a Carrara, oltre che a Torino.
R.:"Ma, l'accoglienza dei ragazzi non è stata una cosa cattiva, perché i ragazzi possono essere cattivi o buoni a seconda di cosa fanno. L'accoglienza dei grandi era diversa. Il bambino eri tutelato e protetto, e stavi tra gli altri bambini. L'adulto era diverso. L'adulto perché, ti devo dire, il campanilismo esiste dappertutto, ma nei paesi piccoli, il campanilismo è più sentito. Io l'ho notato anche in Piemonte: se tu vai nell'astigiano, c'è campanilismo tra paese e paese. Ad Asti c'è meno campanilismo, perché è una cittadina, a Torino non esiste più, però ci sono i rioni, ci sono i borghi, ci sono comunità di provenienza regionale diversa, ed è una forma di campanilismo diversa. Però lì era il campanilismo del campanile. E allora, come si manifestava all'interno e come si manifestava all'esterno? All'interno si manifestava che quelli che erano bravi a cantare facevano il coro, per fare credere che nel loro paese si è più bravi che nell'altro. Quelli che erano bravi a fare un'altra cosa facevano un'altra cosa, per far vedere che erano bravi, o perché erano un gruppo di paese più forte. Quelli che avevano, come Fiume, la Fiumana, giocavano al pallone perché la Fiumana aveva giocato in serie A. E c'era la rivalità col Grion di Pola, perché i polesani avevano il Grion che faceva la serie B. E invece quelli di Dignano avevano questa caratteristica di cantare, erano canterini, ed erano anche bravi, perché avevano le scuole, il canto, e così. E poi invece i nostri dei paeselli, che non li avevano, per sfidarli avevano il canto da ubriaconi, si inventavano. Questo all'interno; eran piccole cose, però eravamo uniti, molto uniti, legati da questa vicenda. Però, comunque, non eravamo un popolo bue che veniva incanalato lì. Ognuno aveva le sue peculiarità: io ricordo del polesano Rimbaldo che giocava nel Torino, che aveva la macelleria e che suo papà più di qualche fetta di carne l'ha regalata, avevano già la sensibilità. O ricordo di altre cose. Mentre per l'esterno era diverso: non c'era un'organizzazione o qualcosa di organizzato che ci osteggiasse. C'era la tranquillità e la serenità dei cittadini normali. Evidentemente, da parte di chi faceva politica già a quel tempo, sapevano benissimo chi eravamo e sapevamo benissimo come individuarci. Ma individuavano il campo, gli esuli in generale, ma, di conseguenza, chi aveva un amico socialista, o chi aveva un amico democristiano o comunista, era uguale. Ognuno già di noi, aveva fatto le sue scelte, per amicizia e per convinzione. Ma anche secondo me - parlo di Torino - è stato determinante soprattutto la tua vita lavorativa, dove si è svolta e come si è svolta. Chi di noi ha fatto l'operaio, per poco o soprattutto per tanto, ha continuato e coltivato un solco che porta a quelle scelte. Non politiche, neanche ideali, ma comunque di posizionamento, di collocamento. Chi non ha avuto mai nessun problema, che non ha fatto neanche il campo profughi, che è arrivato qui perché è andato dai parenti e aveva già trovato i soldi per comprare l'alloggio, che faceva il dirigente e il funzionario, ma si capisce che lui la vedeva come Zanone o come Malagodi, che avevano il partito liberale. E allora. È chiaro di riflesso come si comportava la gente con noi: se avevamo un po' di potere, avevano rispetto, se non l'avevamo ci lasciavano indifferente e se poi qualcuno era stupido, ti trattava in maniera stupida. Ecco, questo era. Però, non si può dire che c'era prevenzione o preconcetto: non è che uno diceva non ti assumo perché sei esule, per esempio. Ecco, per quello che io dico che anche alcune cose che riguardano le aziende, gli uffici eccetera eccetera, erano nel momento, nell'occasione, riferite a tutti i cittadini non piemontesi, non torinesi che erano venuti qua. Ed erano tanti, eh! Attenzione, perché dal Polesine, non sono arrivati pochi. Dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Campania, non sono arrivati in pochi, sono arrivati subito con noi. Io ricordo i primi meridionali e noi, eravamo lì e lì, eravamo tutti senza. Senza, eravamo tutti senza. E ti devo dire anche un'altra cosa, che noi con i meridionali abbiamo legato molto, abbiamo legato molto. Le Vallette, le prime Vallette, di Italia '61, sono arrivati quasi tutti meridionali e istriani nostri. Giovani, che non c'erano più case qua e sono andati là ad abitare: meridionali e istriani più giovani, tra virgolette. Mio fratello e quelli della loro età, che avevano già i bambini e che erano sposati. Tu non hai mai letto che ci siano stati conflitti e che ci siano state cose, perché si partiva da una base comune che era il nulla: costruiamo. Mentre costruivi, rimanevano fuori le scorie: il delinquentello, la prostituta o quello che aveva scelto di fare un'altra vita, mentre il resto cresceva. Le Vallette oggi sono affrancate, oggi alle Vallette ci si può andare anche di notte, mentre una volta alla Vallette, nei primi dieci anni, c'era proprio una forma di delinquenti di cui avevamo paura anche noi, anche se molti li conoscevamo."
17) Ti chiedo un'altra cosa relativa agli stereotipi. Prima mi hai parlato di Marisa Brugna, e mi è venuto in mente uno stereotipo piuttosto diffuso che si ritrova anche nelle pagine del suo libro, relativo alle donne istriane, spesso definite di facili costumi...
R.:"Si. No, io direi le nostre ragazze, non le nostre donne. Noi abbiamo portato una ventata diversa. Io l'ho già detto- e te lo ripeto - , il concetto che ci è stato inculcato nelle nostre famiglie e nelle nostre case, non ha fatto generare né delinquenti né mascalzoni, e questa è stata una cosa che ci inorgogliva tutti, no. Tolgo l'eccezione che c'è stata anche da noi come dappertutto, per carità. Però, abbiamo portato un rapporto diverso delle donne nella società, nel lavoro e nei divertimenti. E per divertimenti intendo il cinema e il ballo, che erano quelle due cose che erano... Tre cose: lo stadio, il cinema e il ballo, che erano i tre intrattenimenti che esistevano in una città in quegli anni. Oggi, tra la fuga della montagna e del mare, ma quella volta era tutto concentrato lì. In questo contesto, le nostre donne hanno portato una ventata di novità, di diversità. Perché le donne piemontesi erano attente, precise, si sbilanciavano poco o niente. Molto a casa, poco in giro e tra di loro. Le donne meridionali erano tenute a freno dalla famiglia, per tradizione, per cultura e anche per paura di essere in un posto nuovo. Facevano molta attenzione. Le nostre donne, soprattutto quelle che venivano dai paesi più grandi, da Rovigno - per dire - da Pola e da Fiume, avevano una forma - non dico di emancipazione perché è offensivo nei confronti delle altre - un'abitudine diversa. Sono andate a lavorare nelle fabbriche tranquillamente, sono loro che hanno stimolato le ragazze piemontesi, che alla Superga o in quelle [fabbriche] là, sono andate a lavorare, eccome! Perché sapevano stare in fabbrica, sapevano tutelarsi dall'uomo - pur parlandogli assieme - perché erano abituate a stare con l'uomo, non avevano il timore, non avevano la sudditanza, e questo è importante. Non avevano la sudditanza e dicevano: ma guarda che se siamo qui che lavoriamo, siamo alla pari. Loro, invece, hanno affrontato la fabbrica, hanno affrontato gli uffici, dove ci va una delicatezza diversa, perché negli uffici ci sono le apparenze, e gia quella volta c'era ma come sei vestito, attenzione a come ti muovi, se fai l'occhiolino al capo... Si sono destreggiate bene. E andavano a ballare da sole, senza uomini, in quattro o cinque, e non erano sciocche; avevano anche loro le loro simpatie, avevano il ragazzo a cui volevano bene o quello a cui avrebbero dato un bacio volentieri e quello con cui avrebbero fatto l'amore volentieri come nei desideri di tutti i giovani. Si sono sempre tutelate e difese, e molte di queste giovani hanno sposato ragazzi piemontesi, ragazzi meridionali, greci. Te l'ho detto, qui abbiamo di tutto, mescolati! Ecco, questo, secondo me, ha aiutato in un certo modo quel tipo di giovani di quell'età, vedendolo anche nella scuola, vedendolo fuori. A diciotto anni non si è ancora grandi da essere uomini e donne, ma si è mezzi e mezzi, a dire che la società poteva aprirsi un po' di più, che questa società così chiusa si poteva aprire, e che queste abitudini così, di promessa sposa prima di uscire di casa, poteva invece essere la donne che a venticinque, ventisei anni deciderà di farlo, dopo che avrà fatto la sua vita e le sue esperienze, che avrà un lavoro e la sua attività. Di questo, di questa esperienza, noi siamo rimasti molto orgogliosi, perché ancora oggi la mia generazione vede delle persone anziane della nostra terra che hanno sposato o piemontesi o meridionali che sono andati via, che hanno un'attività, o che hanno figli e tutto, che quando se ne parla, se ne parla con rispetto. Io ho incontrato recentemente due che mi dicevano: ah, io vi vedevo giocare al pallone o a Torino o a Susa o nei vari posti dove siamo andati. E io le dicevo: e io vedevo te ballare, eri così bella! Andavi a ballare alla Serenella, andavi a ballare, soprattutto loro andavano lì vicino al corso, in città, dove c'era il cinema Corso, in corso Vittorio, che lì si è ballato per una vita. Oppure quando qualcuno si affrancava... Io ricordo per esempio mio fratello, che era un bel ragazzo, un ragazzo fine - lo dicevano gli altri, per me è bello perché è mio fratello - lui una volta aveva trovato una ragazza che gli aveva detto: vieni a balla re all'Arlecchino. E lui aveva detto: guarda che all'Arlecchino è un po' troppo costoso, c'è tutta gente chic. E lei le aveva detto: no, è solo gente che ha paura di affrontare gli altri, loro stanno tra di loro. E allora lui aveva fatto le amicizie, poi era così piaciuto che le amiche avevano detto: se hai degli amici porta degli amici, e hanno cominciato ad andare anche all'Arlecchino, che era una zona... In quel tempo, c'erano queste piccole differenze: si andava a ballare lì,o si andava a ballare lì, o si andava a ballare alla Serenella - e parlo di piazza Sabotino - o al Le Roy qui, quando siamo venuti qua. O andavo a ballare all' Hollywood, ma ci andavo anche io che avevo già cominciato a diventare giovanotto. All' Hollywood al fondo di corso Regina, e lì c'era l'estivo, sopra. E vedevi della gente che si era già affermata, integrata, ma restava un filo. Perché se tu ti incontri, esce fuori il dialetto, anche con uno che è trent'anni che non vedi. Ieri è venuto un ragazzo qui - significativo questo - , lui viene da Sinigallia. E mi dice: senti, sono venuto qua e sono andato da quello che era il mio compagno di giochi, che è quello che ha il negozio di fotografo qua, e dice: vorrei andare in Associazione che c'è [A.] , ma non lo conosco, però lo conosco. Allora mi ha telefonato, dice non ci conosciamo, perché io son stato qua un anno prima di andare via - e quindi parla del '57, del '56 - e dice che con me giocava ai giornalini. E giocare ai giornalini per noi, siccome non c'era niente qua, sai cosa vuol dire? Che in una scala, in una delle scale nostre dove abitavamo, prendevamo un mazzo di carte e i giornalini, tanti giornalini - Tex, Capitan Miki, il grande Black - e giocavamo alle carte chi vinceva i giornalini. A volte ne avevi tanti così, a volte non ne avevi neanche uno per leggere, perché era quello. E poi giocavamo alle biglie. E [questo ragazzo di Senigallia] mi dice: poi, la mia famiglia è andata via. Perché il muoversi, sia dai campi profughi che dai villaggi è stato sempre successivo: se non ti trovi bene, se non ti radichi in un posto e hai parenti, amici e conoscenti, vai in un altro. Dice: sono andato lì e adesso che ho una certa età, che ho sessant'anni anche io, ho deciso di formare un comitato anche ad Ancona, e volevo venire a salutarti, anche perché leggo sul vostro sito le cose. E dice: volevo ricordare e ricordarmi che qui quando siam venuti non c'era niente e bla,bla, bla. Non c'era la luce, non c'eran le strade, andavamo con gli stivali a scuola e poi li toglievamo in pullman perché qui c'era il fango e poi mettevamo le scarpine. Insomma, tutte queste cose qui. Non c'era differenza con la popolazione, c'è stata un'integrazione strisciante - la chiamerei - senza casse di risonanza, e non l'abbiamo mai rivendicata in nessuna sede. E' stata fatta: ognuno di noi... Io ho una cugina che si è sposata a Chieri con uno che aveva una piccola officina meccanica, che poi è diventata una fabbrica e oggi i suoi due figli hanno un'azienda di trenta, quaranta dipendenti. E se ci si vede, ci si vede anche con loro e ci si parla, però ognuno ha la sua vita e la sua storia. E questo per me è stata un'integrazione notevole. Guarda, che i più modesti, sono rimasti qui, alla Falchera e in via Nizza. Io, quando ho avuto l'età giusta per sposarmi, la mia scelta era quella di tutti gli altri: mi trovo un appartamento, mi compro un appartamento, mi faccio un mutuo, e poi di là comincio. Perché i passaggi sono diversi nell'esodo - se lo vogliamo ancora riprendere ancora un attimo questo concetto - i passaggi dell'esodo sono diversi. C'è chi ha avuto un filo conduttore che ci porta ad oggi, ed io sono uno di quelli, e c'è chi lo ha avuto interrotto e spezzettato, e quindi [ha avuto] anche posizioni diverse. Io non mi sono mai mosso da Orsera: io sono andato via da Orsera coi miei, sono andato a Trieste coi miei, sono andato a Marina di Carrara coi miei, son venuto a Torino coi miei, i miei sono morti e son rimasto al villaggio degli esuli. Io ho avuto un filo conduttore, e come me ce ne sono tantissimi. Allora, a questo concetto, tu devi abbinare la mia passionalità, il mio vivere, il mio emozionarmi ancora oggi quando parlo di queste cose. Perché, se lo tolgo non ha senso, perché non sono io. La mia vita, il mio destino era questo, e io me lo vivo in serenità, o anche non in serenità ma me lo vivo. Come me ce ne sono tanti altri. Altri invece mi dicono che hanno avuto meno fortuna. Chi non ha fatto tanto campo profughi, o chi ancora oggi sta nei condomini, sai cosa fa? Domani, se vieni qua al pomeriggio, vedrai che metà di quelli che stanno al circolo non stanno qua: vengono da fuori, perché il sabato e la domenica trovano un'occasione per fare una partita, per fare una chiacchierata, per vedere questo, per vedere quell'altro, per dire quello è malato, l'altro è morto. Ecco, questo è. Io ho questo filo che mi ha portato qui. Non è una questione economica, perché quei soldi che non ho messo qua li ho messi da un'altra parte. Lavorando, risparmi due soldi, e se risparmi due soldi puoi fare le cose con i soldi che hai risparmiato, tutto là."
18) Ti chiedo ancora due cose. La prima è questa e si riallaccia in un certo senso a quello che mi hai appena detto. Voi esuli, come è normale che sia, vi siete, negli anni, portati avanti: cioè tu hai avuto dei figli, forse hai dei nipoti. Cosa pensi di aver trasmesso ai tuoi figli, relativamente all'esodo e a ciò che ne deriva?
R.:"Ecco, si, il problema della trasmissione della memoria. E' un problema che bisogna affrontare in maniera più profonda di quanto si è affrontato fino ad adesso, perché sento troppa gente che dice: ah, finiti noi, è finita la nostra storia. Io dico: non hai saputo educare i tuoi figli alla storia tua, e glielo faccio come esempio. Vedi, tuo figlio è sposato, si è sposato con una calabrese. Bene, ricordati che una volta all'anno, due volte all'anno, quando possono, vanno in Calabria, perché lei ricorda il santo del paese, il patrono, le ricorrenze, e lo fa con piacere, con gusto, e coinvolge anche suo marito, ed è bello. E' tuo figlio che una volta all'anno non gli ricorda a sua moglie le sue origini, la sua storia e le sue tradizioni. Sarebbe molto bello se lo facesse anche lui, perché è così che la gente vive, quando si integra in tutti i contesti. A lui qualcosa mancherà sempre dentro, ma mancherà ancora più di oggi quando tu non ci sarai più, perché sentirà che lui non ha le radici, le ha perse o le ha sfumate, tu a tuo figlio dovevi insegnare un pochino della tua storia, in maniera giusta e appropriata, fin da quando era piccolo. Da piccolo la storia piccola, da grande la storia grande; renderlo partecipe non solo delle miserie o delle pene, ma anche dei giorni di felicità e dei piaceri: che cosa voleva dire una festa o una ricorrenza, o un incontro, questo anche, perché anche questo èp tradizione e cultura. Ora, io capisco che chi è andato via ed è rimasto da solo è rimasto frastornato. Io conosco uno che è andato a stare in via Borgaro, in un condominio dove due sono meridionali, tre sono siciliani, un altro è della Valle d'Aosta, un altro viene di là... Io capisco che non si è integrato, perché nel condominio non si conoscono neanche, lo capisco che abbia perso la sua identità, e se non ha avuto la forza di andare dove c'erano ancora i nuclei degli esuli, l'ha proprio persa la sua identità. Molti di quelli che ho incontrato in questi ultimi quindici anni - da quando abbiamo riformato questa cosa qua , perché tutto questo non c'era prima, questo è il lavoro di tanti - noi abbiamo trasmesso questi valori. E li abbiamo trasmessi a quelli che ci stanno intorno, anche ai ragazzi dove le famiglie non gliele hanno trasmesso, ma stando con noi si sono... Alcuni invece parlano italiano, non vogliono parlare dialetto, non vogliono sapere la storia. L'unica cosa che gli dico è che se proprio non ne vuoi sapere nessuna di storia va beh, sei uno che ti autolimiti da solo, ma se vuoi saperla degli uni de non degli altri è stupido, è sciocco. Anche perché non si raffrontano, non si mettono mai a confronto: ognuno ha una sua cultura, un bagaglio che assimila. Io, non so, parlo molto bene il piemontese, godo delle cose che il Piemonte mi ha fatto conoscere e sapere, e sono orgoglioso di essere un figlio adottivo del Piemonte, perché sono molto più piemontese che istriano. Ma quelle sono le mie radici, la mia storia e la mia cultura, ma quando vado con gli amici piemontesi, io sono un piemontese, di animo e di cuore. Però, voglio dire, quando andiamo a fare la festa delle castagne, quando n'doma cuie i boulet, mi sento piemontese: ci vivo da cinquant'anni qua, conosco tanto di questa storia. Gli altri devono conoscere la nostra storia; ai nostri figli non puoi non trasmettergliela. Io ho la fortuna di avere avuto i genitori miei, tutti e due, che erano innamorati prima della nuora e poi del figlio che ha fatto, gliel'hanno tirato su - me l'hanno tirato su - non sono stati invadenti, ma il figlio si è impregnato di sua nonna che gli parlava in dialetto - poco sapeva l'italiano, faceva fatica, ha fatto la quinta elementare - e lui ha chiesto, si è informato, gli hanno letto qualcosa, gli hanno letto una poesia, gli hanno raccontato qualcosa - a volte anche un episodio - e lui sa tutto. Poi, quando è diventato più grande, tra tante cazzate che leggono, ha letto anche i libri dell'Istria, ha letto anche storia, ha letto anche vicende, e quindi sa moltissimo. Ma anche molti della mia età, la storia non la vogliono sapere. Io alle ragazze, per esempio... Vedi, qui c'era un proliferare di ragazze: tu pensa, cinquecento alloggi là, trecento dei baraccati e duecento dei torinesi, son mille alloggi. Quando io avevo diciotto anni, [immagina] quanti altri ragazzi e quante altre ragazze avevano diciotto anni. Qui noi avevamo il muretto su corso Toscana; il muretto che partiva dal giornalaio e andava oltre via Sansovino; quelle che venivano fino a via Sabsovino era per chiacchierare e per conquistare, ma quella che venivano dopo via Sansovino, che andavano verso le Vallette, con quelle potevi avere già un po' più di confidenza. Voglio dire, qui c'erano centinaia di ragazze e ragazzi, noi facevamo - le chiamavamo - le vasche: tutte le sere fino a mezzanotte, perché poi a mezzanotte c'era il coprifuoco e tutti i ragazzi dovevano andare a casa. Ecco, molte di queste ragazze, per esempio, visto che c'era l'agevolazione per andare a lavorare alla Sip o per andare da altre parti, quando sono andate a lavorare, alcune sono rimaste con le proprie tradizioni, si sono sposate e han fatto la famiglia, alcune altre facevano fatica a salutarti, parlavano in lingua. Più di una volta, quando le è stata fatta la domanda: ma scusa, perché sei cambiata così, perché rinneghi quello che sei stata, di che cosa ti vergogni ? Io non mi vergogno di niente, sono una persona normale che vengo dalla normalità, dico le cose come stano, dico chi sono e a chi va bene mi prende così, se no vaffanculo. Molte sono ritornate adesso: qualcuno è ritornata divorziata, qualcuna separata, qualcuna disillusa, a questa età, no! Se ne parla a volta adesso, eh: [loro dicono] beh, si, noi abbiamo fatto delle scelte, credendo che con un tratto di gomma tutto si cancella. Non si cancella niente, quello che hai hai, quello che hai dentro di te c'è, ti rimane, che lo esprimi o non lo esprimi. Situazioni diverse: credo di averti dato quattro o cinque esempi di situazioni diverse. Questo è variegato di come i nostri figli e i nostri nipoti [vivono la cosa]."
19) Ti faccio solo più una domanda, che ho in realtà dimenticato di fare prima. Tu che lavoro hai fatto?
R.:"Allora, io ho fatto l'allievo Fiat. E poi... Io oggi sono discolo verbalmente, ma una volta ero discolo anche fisicamente, forse perché giocavo al pallone, ma ero discolo anche quando giocavo a pallone! E siccome ero discolo anche come allievo Fiat, mi avevano detto che per punizione mi avrebbero mandato alle Ferriere, perché quelli più bravi, più lecchini e più ruffiani andavano a Mirafiori. Che a Mirafiori, dopo due anni, diventavi operaio di prima categoria e dopo altri due anni diventavi caposquadra, perché i quadri aziendali erano fatti quadri tutti da allievi Fiat. Ma ti dico anche la verità che non erano tutti ruffiani; i miei amici facevano anche sciopero. Se credevano in qualcosa che si doveva fare. A me han detto: tu sei dispettoso e ti mandiamo alle Ferriere. E io, quando mi han detto questo, ho detto: a me non resta che ringraziarvi, le Ferriere sono a cinquecento metri da casa mia. E il dirigente ha detto: nianca adess puduma feie gire 'l bale a chial si, in piemontese. Io mi prendevo la mia bicicletta ed entravo da Via Pianezza, all'imbocco di via Pianezza, un po' più avanti di dove c'è il distributore adesso. Tre turni [facevo]. Mi hanno detto, alle Ferriere: tu dimenticati di essere stato allievo Fiat, fai vedere quello che sai fare. Là c'è la mazza, là c'è il cerchione, là c'è il lampadine per il montaggio a caldo e incamina! Allora, subito dopo un po' di tempo, mi son fatto conoscere, e avevo chiesto di poter fare il centrale, per non fare i tre turni e lavorare il sabato e la domenica, perché giocavo al pallone. Ci siamo scontrati un po', poi ho fatto vedere al capo del personale che guadagnavo più in un mese di pallone che in un mese di ferriere - mi davano, obiettivamente, 100.000 lire al mese al Susa e 90.000 Lire alle Ferriere - e allora lo ha capito e mi ha messo a fare il centrale. Mi ha detto: ve beh, tu sei sprecato a fare i turni, a fare la manutenzione, vai a fare il centrale nell'officina meccanica. Nell'officina meccanica sono stato quattro anni, poi avevano capito che sapevo montare le cose, perché mi avevano insegnato qualcosa a scuola. E guarda che in Fiat sotto il profilo culturale e anche di condizionamento psicologico erano fortissimi, però ti insegnavano a lavorare; io avevo un professore che faceva gli esami psicotecnici e tutte le volte che mi volevano mandare via lui diceva: no, questo ha un alto quoziente intellettivo, perché mi volevano mandare via per indisciplina; ci facevano camminare al passo, in fila, dall'officina a su e io ero alto, stavo dietro e tiravo un calcio nel culo a quello davanti! Poi dovevi lavarti e non dovevi parlare, ma io venivo dal campo profughi, e quelle regole non le potevo accettare. Io capisco che avevo qualcosa, ma avevo anche una famiglia che mi diceva, oh! Comunque, son stato cinque anni in officina, poi mi hanno spostato, mi han detto: qui è arrivato un tracciatore elettronico, non c'è nessuno che conosce Pitagora, non c'è nessuno che conosce quello e questo e allora sono andato al tracciatore elettronico. Però son l'unico che là in Ferriera, per passare di prima categoria, gli han fatto fare il capolavoro, eh! Capolavoro fisico, eh: ho fatto la doppia coda di rondine, e ho fatto il capolavoro. Poi da là, avevan bisogno di uno che andasse al collaudo, perché bisognava collaudare tutti i pezzi, perché erano i pezzi che dovevano essere montati sugli impianti e gli impianti sono a ciclo continuo e quindi tu non puoi permetterti di... Venivano su i dirigenti da sopra, quindi il capoufficio della manutenzione e loro dicevano: ma lei, cosa fa qui? Venga su con noi, venga su con noi. Eh, ma se non mi mandano... Perché non la mandano? Eh, non mi mandano... Allora, sai perché non mi facevano impiegato? Perché gli impiegati da noi, per fare l'impiegato da noi dovevi fare un anno il cronometrista. E io mi sono rifiutato di andare a prendere il tempo dietro le colonne ai miei compagni di lavoro, perché lì c'era gente che oramai era già cinque, sei, sette anni che lavoravo. Per me era offensivo andare a prendere il tempo a uno che lavora alla fresa o al tornio, perché gli dovevano dare i tempi. Io non accettavo quello: ho detto che se mi volevano passare impiegato mi passavano impiegato, se no restavo là E son stato là quattordici anni. Poi mi hanno spostato di autorità: un giorno è arrivato il capo, mi ha detto che da oggi lavoravo con lui, di chiudere il cassetto, togliersi la tuta, mettersi in borghese e andare su. E sono andato su: io avevo una grande esperienza di manutenzione di impianti siderurgici e soprattutto di officina, e quindi il concetto di come funzione. Sono andato al coordinamento delle manutenzioni e son stato altri cinque anni; lì ho imparato come si approvvigiona, si prepara, e si creano i presupposti per far lavorare un'officina e per far lavorare gli impianti. Un bel giorno, siccome giocavo nelle Ferriere nel torneo Fiat, l'ingegnere che era a capo della squadra, era capo degli acquisti, e mi ha detto: ma senta, lei con l'esperienza che ha fatto, e tutto quanto, verrebbe a lavorare in acquisti? Io non sapevo ancora che gli acquisti è una zona un po' pregiata, perché agli acquisti se una mangia, se uno ruba, se uno imbroglia è comunque qualificato come lavoro, non sapevo ancora. E forse non avevo ancora quella malizia lì. E io gli ho detto: ma, ingegnere, se guadagno di più si. E lui: ma sai, è un posto [di prestigio]. Ingegnere, sempre se guadagno di più! Allora ti farò un aumento al merito. Mi chiama il personale - il capo del personale - e mi chiede: ma scusi, lei perché vuole andare agli acquisti? E ho detto: guardi, voi a me avete sempre dato poco, è vero che io vi ho chiesto poco, magari vi avrei chiesto di più, ma io non ve l'ho chiesto. Ma io ho fatto l'allievo Fiat, ho lavorato nei reparti sugli impianti, ho lavorato in officina, ho fatto l'approvvigionamento e se io vado ancora agli acquisti vi dico: signori, arrivederci, io sono un uomo preparato che qualsiasi azienda mette a livello di capofficina o di capo ufficio. Io quasi quasi, dopo un discorso del genere, non la manderei, mi disse il capo del personale. Faccia lei: guardi, l'ingegnere mi ha chiesto, voi mi avete chiamato per fare un colloquio, io vi ho detto come la penso, se no torno al mio posto e tutto è come prima. Mi hanno spostato agli acquisti. Io agli acquisti ho trovato uno che si intendeva di macchine vecchie, del museo, un altro che era ragioniere e quando gli presentavi un pezzo di ferro e gli chiedevi quanto valeva loro dicevano eh! Sai almeno quanto costa il ferro al chilo? Ma sai con che macchina devi grattarlo? No. Allora loro si facevano fare tre offerte, quella che era più bassa trattenevano ancora il cinque, sei o sette percento e così... Quando sono arrivato io, il mio metodo era diverso. Allora, siccome il mio metodo non piaceva a questi qua e volevano farmi fuori, sono andato da un ingegnere e gli ho detto: senta ingegnere, lei ha un servizio che è tutto bucherellato. Io non dico che sono disonesti, dico che sono incapaci, ed è diverso. Poi ci sarà l'onesto e il disonesto. Lei vuole cambiare sistema, vuole sapere che cosa compra per l'azienda? Vuol sapere quanto vale quello che compra? Si? Allora, guardi, io ho fatto l'allievo Fiat, ho due o tre amici che non saranno bravi a fare gli acquisti ma son bravi a fare i preventivi. Lei in mezzo a questo ufficio di sessanta persone, metta un gabbiotto con dentro due che fanno i preventivi. Quando comperiamo andiamo a chiedere i preventivi fuori, ma devono essere allineati con questi preventivi, oppure andiamo a discuterli se qualcuno sbaglia, perchè padreterno non c'è nessuno. E' nato un nuovo sistema agli acquisti, hanno portato qualche decina di miliardi di risparmio e sono diventato capo ufficio. Quando son diventato uno dei tre capo ufficio che c'erano, la Ferriera si è sciolta, e siamo diventati industria Acciai Inox, e io sono andato in Corso Regina, ed ero già quadro aziendale. Non potevo diventare dirigente perché non ho la laurea però, onestamente, mi pagavano. Ma io facevo gli acquisti e il direttore diceva sempre, pubblicamente, che l'unico che prende la tangente è [A.], perché ogni anno a lui i soldi io glieli do! Perché sapeva che io avevo litigato con troppi fornitori: quando un fornitore voleva venirmi a impormi cosa io gli devo dare, e magari sapere anche quanto costa, allora con me litigava. Se invece veniva lì e mi diceva: senti, c'ho trenta operai, c'ho due o tre macchine che sono ferme e non posso permettermi [di perdere l'appalto], mi dai il lavoro di quel tipo? E io dicevo, certo che te lo do. Perché io ero in grado di sapere quale era il lavoro di quel tempo, ma io gli dicevo guarda che la mia azienda lo vuole a questo costo. E lui diceva va bene, e io facevo lavorare la sua azienda. E c'era invece chi veniva lì e diceva: sent, 't dago 'l des per cent, però aumenta un po' i prezzi, dammi un po' di lavoro. E quello non veniva più una seconda volta! Ognuno ha i suoi metodi."
26/10/2007;
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