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CARTACEO: Intervista a Maria Mn.

C00/00352/02/00/00005/000/0011
Intervista a Maria Mn.
Maria Mn. nasce a Dignano d'Istria nel 1935 da una famiglia di contadini. Nel 1948 parte da Dignano e si dirige in Italia. Dopo una breve sosta al Silos di Trieste è inviata al campo di smistamento profughi di Udine, e da qui al centro raccolta profughi di Chiavari, dove resta fino al 1949, anno del suo trasferimento a Torino. Qui è ospitata all'interno del centro raccolta profughi della Casermette di Borgo San Paolo, dove resta fino al 1956 anno in cui le viene assegnato un alloggio nel Villaggio di Santa Caterina. E' stata intervistata il 6 dicembre 2007. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo un po' di dati anagrafici. Quando e dove è nata?

R.:"Io sono nata a Dignano d'Istria, in provincia di Pola - come dicono tutti i papiri adesso - il 30 ottobre 1935".

2) Può parlarmi della sua famiglia: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori...

R.:"Si. Mio padre era un contadino benestante. Siamo in sette: cinque figli e mio papà e mia mamma. Io ero la più grande. Quando siamo venuti via di lì io avevo undici anni e il piccolo aveva venti mesi. Era piccolino, proprio, e io me lo sono allevato. E si stava bene, poi è venuto il '45 ed abbiano sentito un po' di [paura]. Come quando c'erano i tedeschi. Prima c'erano i tedeschi. Che mio padre, essendo contadino, andava a lavorare in campagna. E lì c'è stato una volta un rastrellamento: era al tempo delle olive, che mio padre era su un albero, ed erano lui, mia mamma e cinque persone. E sono venuti i tedeschi e fanno il rastrellamento, e prendono anche mio padre e lo volevano uccidere, perché ne avevano ammazzati di tedeschi. Un tedesco ucciso, dieci cittadini. E uno veniva ucciso... E quello lì era mio padre, solo che cinque figli, piccoli, quello e quell'altro e si sono un po' commossi. Poi in quel periodo lì c'era un mio zio anziano - che è morto a Torino - con due giovani in una valle vicino e li avevano presi anche lì. Che questo mio zio sarebbe un fratello di mio nonno, e hanno preso lui e tre giovani. Hanno preso loro e li han portati un po' distanti in una valle, e lì erano pronti proprio per ucciderli. Però non so chi è venuto, se è venuto qualche cosa, c'è stato un subbuglio e li hanno salvati. Però questi qui... Infatti uno è morto di spavento, un giovane, e l'altro giovane dopo due anni è morto di crepacuore, dello spavento che ha preso in quella valle lì. E lì abbiamo preso paura. Poi si lavorava... Poi i tedeschi arrivavano in casa mia, perché mio papà aveva una stalla, ed era d'inverno. Perché a novembre si raccoglieva le olive, a novembre, che era freddo, perché mi ricordo i tedeschi che erano vestiti da inverno, con sto cappello. Io li vedevo dalla mia finestra della cucina, perché la cucina era a piano terra. C'era un pezzo di legno e poi il vetro, e io vedevo la testa, il fucile e il loro passo. Erano vestiti duri, e quello mi è rimasto proprio...Ancora tutt'ora mi fa proprio male sentire quel passo. [Avevo] paura perché mio padre e mia madre shhh!, mi dicevano di stare zitta, di non far rumore e di non parlare perché lì c'erano loro [i tedeschi]. E dormivano anche nella stalla, con quattro, cinque, sei cavalli. Avevano preso la stalla di mio padre che aveva gli animali e li aveva messi nel cortile. Allora, quello spavento lì, poi è venuta anche la guerra. Mi ricordo gli apparecchi che passavano bassi, bassi, e allora si scappava. Noi andavamo in campagna: tre volte siamo scappati con un piccolo carrettino in campagna, in una casetta. Perché quelle casette erano grandi in campagna, cioè nella terra di mio padre che aveva in due o tre parti delle casette grandi che una persona ci stava. Erano delle casette fatte con delle pietre, e una persona ci stava, stava in piedi. E lì andavamo tutti quanti con gli altri parenti che c'erano, poi quando si sentiva che c'era un po' di pace si usciva tranquilli. E per due anni [è durata]. Poi lì c'era la paura di cucinare, perché anche poi sono venuti i tedeschi e i partigiani, era tutto un miscuglio. Perché anche quelli lì [i partigiani], mio padre che andava in campagna, portava da mangiare per loro. Perché avevamo un cugino o due che erano nei partigiani e si portava da mangiare. E infatti mia madre diceva a mio padre: Francesco - perché si chiamava Francesco mio padre - non ti fidare tanto, perché tutte le mattine che andava in campagna, gli portava da mangiare a sti giovani che erano là. E allora, gli spaventi! Io che ero bambina, che avevo undici anni, sentivo anche io. Perché si sapeva: ti prendono e ti uccidono. Si sapeva che la fine era quella lì. Io sentivo, vedevo, ma avevo undici anni e non sapevo se erano gli uni o gli altri. Poi un'altra cosa... Un mio cugino - aveva dodici anni - voleva andare prete, perché era un ragazzo speciale! E andava a prendere lezioni da un sacerdote in una casa. E questa casa di fronte al prete, era la [casa] cantoniera, sa quelle lì rosse? E lì era occupata dai tedeschi: loro dalla soffitta si sono affacciati - sai dalla soffitta devi avere una finestra piccola - e li hanno visti. E infatti mio cugino l'hanno proprio ucciso, gli hanno sparato. Dodici anni aveva. Era una finestra piccola, e infatti tutti dicevano ma come hanno fatto a vederli? Io non so dirle.. E lì infatti è stato veramente spavento. E anche il prete è andato ko, perché sa, avere un ragazzino di dodici anni vicino, e diceva poteva capitare a me. Poi anche il fatto che non si poteva cucinare... Perché mio padre non poteva fare cuocere [niente], perché se vedevano il fumo... Si che noi avevamo la stufa... Perché allora il pane si andava a fare nel forno, e lì non lasciavano più cuocere. Avevano chiuso tutto, e mia madre faceva un po' di pane nella stufa, perché poi ci avevano dato anche i biglietti... Perché, alt, allora non si poteva lavorare, si doveva dare tutto al municipio."

3) Mi scusi, ma questo già con Tito...

R.:"Si, con Tito. Poi i tedeschi non so come mai, non mi ricordo, son spariti i tedeschi. E noi eravamo contenti che non li avevamo in casa, eravamo felici: potevo andare nel mio cortile, nella mia stalla, c'era un cortile grande con il pozzo che si prendeva l'acqua. Noi eravamo liberi, per noi era una festa già. Però no. Perché si, ero piccola, ma dovevo andare a fare la fila per il pane. Eravamo cinque bambini, e mio padre doveva lavorare in campagna. [A fare la fila] andavo con la mamma di questo bambino che avevano ammazzato - era mia zia - e lei faceva la fila per me, mi teneva il posto. Perché andavo a fare la fila per il pane e per la carne. Perché si, avevamo delle galline - poche - e mia mamma a fare la fila non andava, perché aveva da fare, e mio padre stava in campagna a lavorare. Però era da darglielo anche a loro, alla cooperativa. E le dico questo: dovevi dare non so... Quello che prendeva mio padre dal raccolto - grano e farina - ce lo portavano via. Doveva darlo alla cooperativa. E allora mio padre diceva: ma come, devo mandare una ragazzina a fare la fila che io sono possidente di tanto terreno? Noi avevamo la casa piena di ogni ben di dio, che anche quando siamo andati via a settembre abbiam lasciato stalla e cantina piene di tutto, di grano e di vino, che c'era la vendemmia da fare. Perché noi, essendo possidenti, si chiamava sempre dei lavoratori per tagliare il grano, per quello e quell'altro, e mio padre diceva: ma come si fa a vivere qui, a fare sta vita? Mandare una bambina a fare la fila? Con cinque figli? Ma no, come si fa? Non si può. Poi anche lo spavento di Tito, noi avevamo anche spavento de lori. Come per esempio andare a scuola: noi eravamo di chiesa, e togliere via il Gesù e tutto quanto e mettere Tito lì, e a scuola anche! Uno spavento che non glielo so spiegare... E parlare subito il croato. Io non ho imparato una parola, perché poi siamo andati via! Ecco, tutte quelle cose lì... Perché poi anche questo ci ha fatto spavento: un mio zio, fratello di mia mamma , aveva quarantadue anni - era più giovane di mio papà - e una sera era a casa, i partigiani comunisti hanno bussato alle dieci e lo hanno portato via. E non si sa che fine ha fatto. Senz'altro lo hanno portato in questi campi di concentramento, non lo hanno mai trovato. Non si è mai saputo... Poi un altro mio cugino lo han portato via. Lui lo han portato veramente in Siberia, che è tornato a casa che aveva i piedi congelati, che non poteva camminare. I titini lo hanno portato via. Erano i compagni, diciamo. E quando noi siamo andati via gli abbiamo lasciato la casa a questo qui, che era un mio cugino. E poi per esempio anche quella roba delle foibe, che mio padre diceva agli uomini e alle donne che parlavano... Perché noi bambini sa, andate via, andate via, ma fino a un certo punto, perché poi parlavano direttamente: sai, han preso quello, quell'altro è sparito, e si parlava di queste foibe. Ma non le chiamavano foibe, per noi bambini dicevano un buco grande che va a finire in mare. Ma come? Ma si, un buco grosso che va a finire in mare. La parola foibe no, dicevano buco, buco. Dei buchi grossi e fondi che vanno a finire in mare. E dicevano: poverini, perché, insomma, nei paesi si sapeva."

4) Ecco, quindi era una cosa che si sapeva...

R.:"Si parlava di questi buchi, però non si sapeva se li avevano buttati in foiba o se li avevano portati via nei campi come mio zio. Perché le persone le vedevi la notte e poi di giorno, al mattino, non le trovavi più, non si vedevano più."

5) Quindi voi delle foibe ne conoscevate l'esistenza fin da subito.

R.:"Si, si, si sentiva subito. Non come nome foibe, ma buchi. Dicevano dei buchi profondi che vanno a finire in mare. E noi pensavamo: ma poverini! Poi anche quello: quando sono venuti gli italiani, non erano nella stalla mia, ma in quella di mio cugino. Era una stalla grande, e c'erano degli italiani coi cavalli. Che li portavano ad abbeverare. E noi il mattino ci mettevamo io, mio fratello e degli altri ragazzi con le mani così [a conca] e ci davano le carrube. Eravamo felici! E loro erano bravi, perché ci accarezzavano. Perché allora era già tre o quattro anni che c'erano queste cose qui."

6) Lei mi può descrivere Dignano?

R.:"No, il mio pese era bellissimo, diamine! Aveva quasi ottomila abitanti. Perché ora è città! Io pensavo che fosse un paese piccolo, ma mio fratello mi ha detto: no Maria, ma scherzi! Aveva quasi ottomila abitanti. Parla pà gli ho detto! Perché adesso è città, hanno tutto come qui, hanno costruito, si sono allargati. Prima, quando sono andata via io, era quasi ottomila abitanti, che io pensavo solo seicento persone. E poi era un paese, perché noi le campagne le avevamo fuori. E poi il nostro campanile, era il più grande! Noi ce l'abbiamo con quelli di Rovigno per il campanile!"

7) Ed era un paese agricolo?

R.:"Si, si, agricolo."

8) Non c'erano quindi fabbriche...

R.:"Si, si, quella dei tabacchi a Pola. Qualcuno lavorava [lì], ma ben pochi, rari, erano tutti contadini."

8) E invece dal punto di vista della composizione della popolazione?

R.:"Tutti italiani, tutti, tutti."

9) E gli slavi, dov'erano?

R.:"Ah, fuori, sa, come quelli che adesso abitano nelle cascine, perché erano distanti. Erano tutti fuori, distanti da noi."

10) E c'erano dei rapporti tra italiani e slavi, oppure no?

R.:"Si viveva tranquilli, sereni. Perché mio padre era contadino, la domenica andava in piazza, sa, in piazza, però non si sentiva dei giovani... Cose tranquille. I rapporti con loro non c'erano, non esistevano. Gli slavi... Ecco, quando noi abbiamo lasciato le case sono scesi gli slavi, e chissà da dove sono arrivati, da dove sono scesi ad occupare le nostre case. Non ci incontravamo, non si vedevano. Dopo si, chissà da dove sono scesi sti slavi, da dove arrivano e dove abitavano."
11) Le chiedo solo più una cosa relativa alla guerra che ho dimenticato di chiederle prima. La sua famiglia era contadina, quindi suppongo che non abbia patito la fame...

R.:"No, grazie a dio no."

12) Si ricorda se c'era la borsa nera, gli scambi?

R.:"Ultimamente si, ma proprio ultimamente. Mi ricordo che, per esempio, mia mamma aveva un bracciale... Ma questo è successo prima di venire via. Noi non avevamo soldi, ne avevamo pochi. Però sapevamo che dovevamo venire via, e a casa non avevamo la cucina bella, sapevamo di venire in Italia e pensavamo che la roba venisse con noi. E allora mio zio era a Pola e lui aveva uno zio ingegnere di fabbrica di mobili da cucina. E allora mia madre non aveva soldi ed è andata da loro per comperare questo mobile. E lì ho preso anche spavento, perché per andare a Pola c'erano i partigiani che non ci facevano passare: ci visitavano, guardavano se avevamo soldi, e infatti io che ero bambina mi ero spaventata, perché mi avevano tutta toccata. E anche lì mi ha fatto male, perché ho visto tredici alberi con le croci. Non sapevo, ma quando ho visto [ho capito] che lì avevano ucciso tredici persone. Tredici alberi con le croci e quello, lì dove c'era il posto di blocco, mi ha fatto veramente male. Perché dicevano che uccidevano, e io lì ho visto le croci, tredici. Allora siamo andati lì a comperare la cucina bella."

13) Prima mi ha parlato di questi buchi, riferendosi alla foibe. Posso chiederel, secon do lei, cosa stava alla base di queste violenze? Cioè perché la gente finiva nei buchi?

R.:" Ma guardi, neanche mio papà lo sapeva. Si spariva così e si lasciava perdere. Non si sa il motivo, sparivano. Alzavi le spalle alla mattina e dicevi: ah poverino anche lui, guarda che fine! Tutti giovani [erano], neh! Infatti come un mio cugino è scappato via, perché se non anche Tito lo prendeva e se lo portava via."

14) Parliamo ora dell'esodo. Quando parte?

R.:"Nel 1948, era di settembre."

15) Che ricordi ha della partenza?

R.:"Eh, un po' brutta, perché...Ecco, un momento. Perché mio padre fa: stare lì, questi ci chiedono di lavorare per loro, e cosa faccio qui? Cosa le do da mangiare ai cinque figli? E poi non stava a questa lingua che noi dovevamo imparare: io, italiano italiano, devo imparare e andare sotto di loro? Andare come una cooperativa, perché loro prendevano tutto e lui doveva lavorare per loro. E' per quello anche. Loro prendevano: quello che è mio è tuo, era così. E mio padre: no, io non ci sto, io sono italiano e devo optare per quello lì? No, no, io sono italiano e rimango italiano. E ha deciso di partire."

16) Della sua famiglia siete partiti tutti o qualcuno è rimasto?

R::"Si, sono rimasti. Tanti erano già partiti, anzi uno è ancora tutt'ora lì, quello della Siberia, poverino. E loro sono rimasti perchè la moglie era al centralino, poi si sono sposati e noi abbiamo lasciato la casa a loro e sono venuti ad abitare lì. E tutt'ora sono lì: si son fatti una casa, i figli hanno studiato, si sono laureati e loro adesso sono altro che benestanti! Poi anche tanti altri sono rimasti."

17) E posso chiederle secondo lei perché sono rimasti?

R.:"Ma, non lo so neanche io. A parte che ne sono rimasti solo uno, perchè è rimasta la mamma di questo mio cugino e il mio cugino che poverino aveva i piedi congelati."

18) Lei si ricorda Dignano in quei giorni, se era una città dove la gente andava via, che si svuotava?

R.:"Eh no, perché noi siamo stati quasi i primi. Proprio nel '48, siamo stati i primi."

19) E come siete partiti?

R.:"Eh, in treno. E con noi è venuta mia zia, quello che mio cugino non l'hanno più trovato. Lei aveva due maschi e fa a mio papà: Francesco, mi prendi con te, perché cosa faccio con due ragazzi? Uno aveva la mia età, e l'altro ne aveva nove. E mia zia diceva, perché qui cosa faccio con due bambini? E, va ben, vieni con noi, vieni. E allora siamo partiti che eravamo in dieci. E siamo partiti in treno, da Dignano fino a Trieste."

20) E con voi cosa avete portato?

R.:"Ah, niente. Con le mani in tasca! Abbiamo lasciato tutto lì."

21) Ma avete lasciato tutto lì perché magari pensavate di ritornare?

R.:"No, no, perché abbiamo visto com'era la faccenda. Mio padre diceva: ma come, mi prendono tutto e cosa faccio qui? E poi: ma come, sono italiano e devo cambiare cittadinanza e parlare il croato? No, da Tito non ci stiamo! Ma subito. Tutti quelli che sono andati non han mai pensato di [ritornare]. Si, magari se cambiava, se ritorna italiana si, altrochè. Se no no, sotto di loro no! Come, da essere padroni ad andare sotto uno che ti comanda! Come mio padre che aveva tanta di quella campagna! Che adesso dopo tanti anni - appena adesso - ci hanno liquidati, pensi! Si, ma per prendere un caffè!"

22) Quindi lei è partita da Dignano fino a Trieste. Il viaggio, se lo ricorda?

R.:"Guardi, quello che mi ricordo veramente tanto è stata quella notte al Silos a Trieste. Proprio ancora adesso guardi, io chiudo gli occhi e vedo quelle lampadina blu. Perché siamo arrivati al pomeriggio e poi...Ah si, quello si: ci hanno dato una pagnotta così di pane bianco. Ah, a tenerla! Perché noi avevamo pane di grano, scuro, perché ultimamente non c'era il pane, ce lo davano loro. Ecco come quando poi arrivavano - adesso vado da una parte all'altra, ma son tutte cose che mi ricordo - gli americani, allora ci davano i pacchi e di tutto: i cicles [chewing-gum] e le gallette dei militari, sa quelle dei militari. Questo a Dignano, prima di venire via."

23) Gli americani dunque se li ricorda?

R.:"Ah si, si, ci davano i pacchi da dieci chili e c'era un po' di tutto. I pacchi UNRRA [United, Nations Relief and Rehabilitations Administrations] e mi ricordo anche i camion della GRA."

24) Lei mi diceva di ricordarsi molto bene il Silos. Perché?

R.:"Perché io mi ricordo benissimo che [c'] era una scala da fare, c'era un quadrato, noi eravamo in dieci, ed eravamo lì, seduti tutta la notte. Non c'era niente, una notte seduti così, uno a fianco all'altro. Un box; noi lo chiamavamo lo stanzone, ma c'erano tanti di questi ripostigli."

25) E lì al Silos c'era tanta gente?
R.:"Eh si, venivamo tutti lì, ma non ci conoscevamo, perché mettevano una famiglia lì, un'altra lì e un'altra lì. E quella notte me la ricordo sempre: con quella lampadina blu, appiccicati così e zitti. Ecco, sempre paura. Ancora adesso ho paura: da piccola [avevo paura] per i tedeschi - e mio padre zitti che si sentono - e ancora tutt'ora ho paura. Brutto, veramente brutto."

26) Cerchiamo ora di ricostruire il suo percorso. Da Trieste dove è andata?

R.:"Una notte siamo stati a Trieste. Poi il mattino ci hanno portato a Udine, e lì era il campo di smistamento: infatti anche lì ci ha fatto male, perché le donne e i bambini in un padiglione - sempre in un campo, com'era qui alle Casermette - e mio padre da un'altra parte. Si figuri mio padre e mia madre, lasciarci cinque bambini e la moglie! E' stato duro lì. Due giorni [soltanto], meno male."

27) Quindi eravate separati. Ma non vi vedevate?

R.:"Mio padre veniva, si, però..."

28) E lì vi han dato dei vestiti o qualcosa?

R.:"Lì ci han dato delle coperte, sa quelle con tutti i quadri."

29) Poi da Udine dove siete andati?

R.:"Da lì era da spostarsi. E ci mandavano o a Caltanissetta o a Chiavari. E mio padre, essendo contadino, [ha detto]: lì cosa vado a fare a Caltanissetta? A Chiavari, boh, neanche. Però noi avendo già mio nonno - i genitori di mia mamma - a Torino, e anche la sorella di mia mamma con il marito - perché loro erano già partiti prima di noi- ha cercato di avvicinarsi il più possibile a Torino. Loro erano già alle Casermette e lui ha cercato di avvicinarsi, perché [diceva] laggiù [a Caltanissetta] cosa vado a fare? [Mentre] a Chiavari mi aggiusterò. Infatti a Chiavari siamo stati bene, per il fatto che mio padre si dava da fare, andava con il camion GRA a fare la spesa: andavano a Genova a prendere da mangiare. A Chiavari siamo arrivati nella colonia di Mussolini, che è andato anche mio figlio con la Fiat. Sa quelle colonie come a Marina di Massa, e anche qui al Sestriere c'è la colonia Mussolini."

30) Perciò a Chiavari c'era una vecchia colonia adibita a campo?

R.:"Si, si, lì si stava bene. Si stava bene perché lì il mangiare ce lo davano buono, poi il fatto che lì ci hanno messo all'ottavo piano. Perché sotto, al primo piano, c'era l'infermeria, c'era anche l'ascensore, però [andavamo] tutti a piedi, per forza, con tante persone che c'erano!"

31) Perché a Chiavari c'erano tante persone?

R.:"Oh, guardi! Mia zia l'hanno messa al secondo piano perché lei era vedova. Le separavano le vedove, loro avevano la preferenza, perché non avendo il marito... Il secondo piano era tutto delle vedove, ci han divisi così. E lì siamo stati venti mesi, ma siamo stati bene. Perché da mangiare, le cose che ci davano!"

32) Cosa mangiavate?

R.:"Di tutto. E poi noi, essendo in cinque, noi bambini prendevamo la porzione dei grandi. Poi per mio fratello piccolo di venti mesi [c'era] un pranzo speciale, perché era come un ammalato, gli davano il dolce e tutto. Anche agli altri, ma a lui di più. Ecco, il pranzo che gli davano al mio fratellino ci bastava per tutti e quattro gli altri. Perché mio papà è andato sempre a lavorare con sto camion: andava a Genova e aiutava nel mangiare, andava ad aiutare la cucina. Lavorava nel campo: lavorava, aiutava e quindi aveva pezzi di formaggio, insomma prendeva sempre qualcosa. Però, quello che ci davan da mangiare era una grazia di Dio! Al primo piano c'era il refettorio, c'erano dei tavoli rotondi e noi eravamo quasi sulla punta del mare, perché eravamo in dieci, c'era anche mia zia."

33) E lì a Chiavari quante persone ci saranno state?

R.:"Tutto pieno, tutto pieno, tutto pieno, pieno, pieno. Pensi che stamattina contavo. Noi eravamo all'ottavo piano, eravamo sulla punta e avevamo la finestra. Perché c'era l'angolo che divideva le colonne, ma c'era solo un muretto che divideva l'altra parte del piano. Perché il piano era grande, però avendo le finestre in mezzo, c'era un muretto che divideva un camerone dall'altro. C'erano dei cameroni, due cameroni. Nel nostro camerone eravamo sette, e poi combinazione c'era anche la zia di mio marito, guardi che destino. Avevamo sette brandine e due o tre di sua zia: in dieci eravamo. Ed eravamo divisi dalle coperte, perché poi dall'altra parte ce n'erano altri dieci. E stamattina contavo: erano quaranta persone per piano, senza le stanze per le persone anziane. Infatti prima dell'ascensore, a destra e a sinistra, c'erano due stanze per parte."

34) E lì eravate solo giuliani oppure c'erano anche altri profughi?

R.:"No, lì eravamo solo giuliani. I greci li abbiamo trovati a Torino, ma lì erano tutti nostri."

35) Senta, a Chiavari qualcuno riusciva a lavorare?

R.:"Niente, niente, perché loro ci davano da mangiare, tutto pronto. Quindi niente."

36) Le chiedo un'altra cosa. La colonia dov'era fuori dal paese?

R.:"No, in centro al paese."

37) E il rapporto con gli abitanti com'è stato?

R.:"No, benissimo! Perché si andava e noi non è che chiedevamo niente. Avevamo rapporti, magari quando si andava a vedere il mercato, quando si andava a scuola."

38) A scuola dove andava, nel campo o fuori?

R.:"No, no, a Chiavari, io lì ho fatto la quinta. Un bel rapporto con i compagni, anche perché, in fin dei conti, il nostro dialetto era come l'italiano, si capiva benissimo. Comunque no, no, ci siamo trovati bene, eravamo contenti. Alla domenica andavamo a fare la passeggiata con mio papà, e mi ricordo il viale degli aranci, perché noi le arance non le avevamo e quando abbiamo visto queste arance: papà, le arance! E lui: non mangiarle che sono amare! Lo sapeva prima. E mi ricordo questi alberi belli di aranci, che a Dignano arance non ce n'erano."

39) Le chiedo scusa, ma ho dimenticato di chiederle una cosa. Lei prima mi ha detto che suo padre ha scelto di venire a Chiavari invece che a Caltanissetta. Ecco, ma su quale base una persone era mandata in un posto piuttosto che in un altro? Cioè si andava in base alla disponibilità di posti oppure si teneva conto anche delle esigenze personali?

R.:"No, in base a che mio padre sceglieva. Ecco, lui poteva andare lì oppure di là, ti davano due possibilità."

Mario M.:"A loro han dato possibilità, invece a noi non ci han dato mica scelta, ci hanno spediti. Noi siamo arrivati nel '49 e c'era già più gente, mentre invece lì i campi erano ancora abbastanza vuoti, e allora c'era la possibilità - magari - di sistemare da una parte e dall'altra. Invece noi che siamo arrivati nel '49, oramai l'esodo era stato già abbondante."

40) Torniamo alla Colonia di Chiavari. Si ricorda se all'interno c'erano delle strutture di svago, degli spacci alimentari e degli altri servizi?

R.:"Si, c'era il cinema, adesso non mi ricordo. Ma era in paese. Lì nel campo non c'era niente. Anche se lì non era un campo recintato, c'erano solo abitazioni, non era come alle Casermette con il recinto. C'era solo un cancello, e basta. Che io dopo tanti anni, con il gruppo anziani del Comune sono andata anche a vederlo. Pensi che noi stavamo in spiaggia, e mia mamma al pomeriggio ci buttava il panino dall'ottavo piano, si figuri. Adesso si ride, ma allora. Perché, scusi, otto piani son tanti, dicevo a mia mamma buttami giù il panino. E lei lo buttava."

41) A Chiavari è stata venti mesi, e poi è venuta qui a Torino.

R.:"Si, a maggio del 1950."

42) Come mai siete venuti a Torino?

R.:"Ecco, come le avevo detto. Io sono venuta prima in treno, con mia mamma, perché era morto suo papà. Proprio quando c'è stato l'apparecchio di Superga, guardi. Contenti eravamo, perché si, il papà di mia mamma era mancato, ma c'era la nonna e la sorella di mia mamma sposata, poi anche la sorella di mio papà - quella del bambino che l'hanno ucciso dal prete - con un altro figlio, e si sono sposate già prima di venire via. Si sposavano per venire via già con la famiglia. Siamo venuti e mio padre ha chiesto il trasferimento. Però, da Chiavari, tanti andavano anche in Venezuela e in Australia e allora anche noi avevamo fatto tutte le carte, fotografie e tutto per andare in Australia, perché mio papà diceva: cosa facciamo qui? Lui voleva andare lì perché sapeva che tanti andavano, ma a noi non ci hanno presi - per fortuna - perché sa, con cinque figli piccolini... E allora mio papà ha scelto Torino, per essere vicini ai parenti, perché sapendo che i parenti vivevano in campo profughi, [ha scelto Torino] anche per quello. Poi [anche perché] sapendo che a Torino anche se eri contadino era più facile trovare un lavoro e dopo quindici giorni l'ha trovato."

43) Lei arriva a Torino. Si ricorda qual è stato il suo primo impatto con la città?

R:"Eh, un po'... Sa, essendo a Chiavari in una colonia, al mare, sto campo è stato un po' una cosa grigia per dire, mi ha fatto impressione quello. E sto cancello lì - allora dicevamo un'altra parola, la garitta, quella dei militari - che c'era il custode. E vedere tutti sti capannoni - che era un campo di militari - lì allora subito ci hanno assegnato, perché loro sapevano dove metterci. Era pieno. Poi eravamo contenti perché lì c'era anche un'altra mia zia poi - una zia di mia mamma - e nell'altro campo c'era la sorella di mio papà. Perché c'erano due campi: noi eravamo nel campo dove c'era la chiesa e l'infermeria. E nell'altro campo c'erano gli uffici, dove si andava a fare le docce e il campo di pallone. E in quel campo lì è andata anche mia zia, perché lì era per le vedove."

44) Quindi le vedove le mettevano sempre separate?

R.."Si, si, erano separate. Perché poi anche gli scapoli erano separati, loro erano nel nostro campo, li separavano."

45) Torniamo a quanto mi diceva prima. E' stato un impatto grigio. Posso chiederle perché?

R.:"Perché...Ah, un momento... Io penso da Chiavari, perché a Chiavari si stava bene. A Chiavari, pensi, avevamo sette lettini ed eravamo chiusi dalle coperte col filo, mentre invece qui a Torino ci hanno dato uno stanzone, la nostra stanza, separata da una parete di cartone. Che noi la fortuna è che eravamo in sette, e allora ci han dato questo camerone da soli con la finestra. Per noi era... è andata già bene, veramente! Però Chiavari era meglio, mi trovavo il mangiare pronto, e tutto! Mentre a Torino dovevamo fare da magiare noi."

46) E questa stanza com'era, riesce a descrivermela?

R.:"E'arrivata la mobilia da Trieste, eh già! Noi avevamo la mobilia, quelle famosa cucina. Che l'avevamo parcheggiata a Trieste, anche con la camera da letto di mia mamma, era una bella stanza da letto. Io i mobili non lo so [come sono arrivati], hanno fatto tutto loro. Però sono arrivati in campo."

47) Lei si ricorda come si passava il tempo libero alle Casermette? Non so, mi han detto, ad esempio, che c'era un cinema...

R.:"Ma si, facevano dei film. Ma noi eravamo tutti uniti, ma una cosa da non credere! Perché c'erano i ragazzi all'oratorio e noi donne - ragazze - andavamo a imparare a cucire, ci tenevano occupati. Perché la maggior andava a scuola - molti han fatto la quinta - e molti andavano a Torino alla Plana. Andavano lì a studiare, ragazzi e ragazze. Tanti. Io no, per il fatto che ero la più grande, e mia mamma aveva bisogno, perché sa, i ragazzini e poi mio papà l'hanno chiamato subito dopo quindici giorni a lavorare."

48) Posso chiederle come è riuscito a trovare lavoro suo padre?

R.:"Ma niente, hanno fatto tutto loro. Dopo quindici giorni... Pensi che mio papà quella volta lì aveva avuto da scegliere due posti: alla Ceat gomme e alla Fiat. Lui ha scelto la Ceat gomme, vent'anni poverino ha fatto lì."

49) Mi ha detto che han fatto loro. A chi si riferisce?

R.:"Non so, il campo o il prete, non so chi. C'era don Giuseppe [Macario], che si, aiutava a trovare lavoro, è vero. Mio padre ha fatto domanda e, grazie a dio, dopo quindici giorni l'han preso. Poi a Lucento e alle case, dicevano che mio padre era uno dei rossi, era comunista, perché lui non andava mia in chiesa. [Ma] mio padre, ha lavorato come un orologio, eravamo in cinque da mantenere. Dicevano che era comunista perché non lo vedevano andare in chiesa, ma invece lui aveva tutte altre idee da quella lì. Mio padre era una persona che, poverino, stava a casa dal lavoro a pasqua e a natale, lavorava sempre. Dodici ore, e in bicicletta. In bicicletta da via Veglia a largo Palermo: pioggia, neve, vento, tutto, lui sempre in bicicletta; attraversava Torino, per vent'anni, poverino!"

50) Posso chiederle di descrivermi com'era la sua vita in campo, che cosa faceva?

R.:" Guardi, non lo so...Perché poi eravamo giovani, eravamo tutti contenti. La chiesa guardava, cioè c'erano le suore - quelle della Consolata - che guardavano le ragazze, mentre i ragazzi c'era don Giancarlo. No, no ci tenevano tutti. E quando andavamo in chiesa eravamo tutti uniti, a quell'età lì eravamo tutti uniti. Facevamo tante cose: ad esempio io ero nel coro Picon - che hanno fatto il coro- cioè mio marito lo chiama Picon, ma non ha niente a che vedere, era un coro, che andavamo a cantare nelle caserme e in tante parti, per tanti anni. Poi è andato anche avanti quando eravamo fuori dal campo, quando poi ci hanno dato le case."

51) Parliamo dell'accoglienza dei torinesi. A Chiavari mi ha detto di essere stata accolta bene. A Torino invece come è andata?

R.:"Ah, benissimo. Noi andavamo a fare la spesa al mercato di via Di Nanni o in corso Racconigi, poi andavamo da Viecca, che era un negozio di vestiti in piazza Sabotino che lì, guardi, quando siamo andati via hanno pianto tanto, tutti i negozianti! Perché pensi noi, anche la pulizia! Ad esempio noi ragazze andavamo a lavare i piatti, per stare di più fuori. Non fuori, perché sa, eravamo tutte lì, quindi o si usciva da un portone o da un altro ma eravamo sempre tutte lì. E noi andavamo a bollire l'acqua per lavare le pentole e lucidarle. Perché sa, quando senti i ragazzi... Perché i lavandini dove che si lavava erano di fronte ai lavandini dove ci si lavava, e allora lì ho conosciuto anche mio marito, come tante altre. Sa, noi ragazze andavamo lì a farci vedere, si lucidava e magari loro [i maschi] erano lì allo specchio davanti alla finestra a farsi vedere che si facevano la barba. Era una cosa, guardi! Ci siamo trovati veramente bene. Poi ballavano. C'era uno di Valle che suonava la fisarmonica. Sempre nel nostro campo, nell'atrio del campo."

Mario M.:"Si, che io mi sono dimenticato di dirglielo l'altra volta che c'era quello lì di Valle che suonava la fisarmonica, nell'atrio, praticamente. Che diceva: domani si balla nel padiglione 7, e mettevano magari il sabato l'avviso che si ballava nel padiglione".

R.::"E allora noi ragazze andavamo a pulire il padiglione, e lo preparavamo. Poi pulivamo anche l'entrata del nostro padiglione, le piastrelle, le tenevamo tutte belle pulite. Doveva vedere, belle lucide!"

52) Mi interessa molto questa cosa del ballo...

R.:"Sempre il sabato, tutti i sabati e anche la domenica pomeriggio. C'era uno con la fisarmonica, Libero di Valle, che suonava e noi ballavamo. Ed è anche lì la faccenda, che sul più bello, che ho imparato a ballare ho conosciuto lui [il marito]! E quindi niente, perché lui andava poi a giocare al pallone! Vede cos'è anche bello, che si andava al borgo tutti in gruppo, però ci si aiutava e se uno non aveva che gli mancava quelle poche lire gliele si dava, e si andava a ballare tutti in gruppo. Eravamo più che fratelli."

53) Quindi un rapporto buono. Ma anche con gli abitanti del borgo?

R.:"Si, perché andavano a ballare anche fino al Serenella. Andavamo lì, perché... poi lavoravano, perché tutti i ragazzi a diciotto anni lavoravano già, tutti andavano a lavorare."

Mario M.: "Poi andavano anche al ballo che era di fronte all'Eliseo, che lì c'era un ballo, e mio fratello andava sempre lì, tant'è vero che ha trovato anche la moglie!"

54) Dalle Casermette lei si sposta poi a Lucento. Si ricorda quando?

R.:"Si, nel '56. E lì è stato un po' brutto."

55) Perché?
R.:"No, brutto no. Pensando a quando ce l'hanno data eravamo felici e contenti. Non [c'] era strade, noi eravamo i primi, siamo andati via i primi, nel '56, era a gennaio- febbraio, col freddo. E, diamine, avere una stanza, il bagno, la doccia, la tua vasca da bagno che lì andavamo nell'altro campo a fare il bagno. Ed eravamo contente con le amiche: andiamo a fare la doccia oggi? Andiamo! E poi c'era la stireria: andiamo a stirare? Si, andiamo a stirare. Era come un gioco dai, non era pesante. E poi in casa invece eravamo contenti, diamine, avevi una casa tua! E poi il parlare: sempre shhh! Perché dovevi sempre parlare piano, perché alle Casermette si sentiva tutto, per forza! Si, si sentiva perché la stanza era divisa da un compensato duro, però si sentiva tutto. Ecco, eravamo abituati a quei rumori lì, perciò in casa era meglio."

56) La casa è stata quindi una conquista?

R::"Eh si, si. Avere una camera, una cucina grande - perché noi eravamo in sette - era... L'alloggio era grande - o meglio ci accontentiamo - anche se non era una piazza d'armi, ma eravamo contenti. Avevamo la cameretta, il bagno, i servizi. Io e mia sorella dormivamo in cucina, ma hanno fatto delle cose... Va bene che era casa nostra, chiudevi la porta e nessuno ti sentiva, quello lì si, ma pensare come ci hanno sistemati! Perché a me è andata bene, ma quelli che erano in quattro [sistemati] in camera e cucina! Perché dopo poi forse l'avrà saputo, che hanno dovuto fare di tre alloggi, farne due. Siccome che erano abituati che eravamo appiccicati con due coperte e una brandina, devono aver calcolato quello! Perché pensi, anche lì. Mia madre aveva la stanza bella stava una piazza e mezza e una brandina per i miei fratelli, appiccicati. E loro dormivano lì, mentre io e mia sorella in cucina con il divano letto."

57) Perché prima, parlando delle case, mi ha detto che però arrivare lì è stato brutto?

R.:"Ma no, per il fatto che... Non brutto, ecco. Eravamo contenti lo stesso, perché - diamine - casa tua, chiudi la porta, parli, dici quello che vuoi, però per il fatto che eravamo troppo appiccicati. Ecco, per quello."

58) E quel rapporto di amicizia che si era creato nel campo, è rimasto anche a Lucento nel villaggio?

R.:" Eh si, perché eravamo tutti i nostri istriani del mio paese. C'è stato sempre, è rimasto ancora adesso."

59) Lei fino a che anno è rimasta lì?

R.:"Noi siamo rimasti fino al '67".

60) Lei ha lavorato?

R.:"No, no. Ah, un momento... Allora, io in campo profughi per tre anni sono andata a imparare a cucire in un atelier in borgo San Paolo. Eravamo in tre o quattro, tutto il giorno. Ci portavamo da mangiare e stavamo lì tutto il pomeriggio, ma non ci davano niente di paga. Poi dopo, sapendo cucire, mio papà mi ha mandato a scuola di taglio, in corso Francia. Sono andata a scuola , ma sono andata con l'idea di sapermi aggiustare per me - infatti ho cucito sempre per me - e non sono andata all'esame, perché avevo paura. Ma a me mi bastava quello che avevo imparato in tre anni, mi bastava. Non è che volevo mettere su una sartoria, quello e quell'altro. Tutto lì."

61) Quindi lavorava facendo la sarta in casa...

R.:"No, cucivo così, per qualcuno. Poi in casa ho sempre cucito io per i miei fratelli, le camicie, i pantaloni. E anche per i figli, poi quando è uscita la Benetton, mio figlio non ne ha voluto sapere!"

62) Torniamo a parlare del villaggio. Lei riesce a descrivermi com'era il quartiere all'epoca?

R.:" Era bello, perché eravamo tutti uniti. Lì non c'era niente, non avevamo neanche la chiesa, che all'inizio era in un appartamento sull'angolo di corso Cincinnato. Andavamo in quell'appartamento sull'angolo, eh già! Provvisorio andavamo in quella casa lì, poi dopo ci hanno mandato a Lucento."

63) E di negozi c'è n'erano?

R.:"I negozi li hanno fatti così. E anche poi hanno messo il mercato, però la maggior parte andavano a Porta Palazzo, perché c'era il pullman e mio padre andava a Porta Palazzo a fare la spesa."

64) Lei oggi vive a Carmagnola. Quando è arrivata?

R.:"Nel '67".

65) E come si è trovata?

R.:"Bene, perché eravamo tutti giovani, avevamo tutti i bambini della stessa età. Perché io son venuta a luglio, che mio figlio ha finito la classe. Mi manca solo i parenti, però guardi, qui siamo ventotto famiglie, [viviamo qui] da quarant'anni ed è sempre stato perfetto."

66) Le faccio ancora due domane, poi abbiamo finito. La prima è questa: lei ritorna a volte a Dignano?

R.:"Si, sono ritornata due volte, e ho trovato piccolo! La mia impressione è stata quella di strade piccole, e dire che una volta le vedevo larghe! E' un paese."

67) E che effetto le ha fatto ritornare?

R.:"Si, sono andata, contenta di rivedere la mia casa e tutto, però non è che mi è dispiaciuto di essere venuta via. Si, è casa mia... Si, un momento... E' stata la volontà così, perché mio padre e anche io essendo italiana, non volevo stare. Che poi mio cugino è lì e allora noi italiani quando andavamo, loro anche se conoscevano l'italiano non ci davano la risposta."

68) Questo è un altro risvolto interessante. E cioè quello dei rapporti tra voi esuli e chi invece è rimasto. Posso chiederle come sono i rapporti?

R.:"Ma, all'epoca... Loro non avevano bisogno, però mandavamo dei pacchi, perché lì non c'era quello e non c'era questo. Che mia madre diceva [perché li mandiamo?]. Lavorava solo mio papà e poi non glieli hanno mandati più, perché qui lavorava solo mio papà. Però gli faceva piacere se arrivava caffè, pasta e zucchero, cose che lì non c'erano."

69) L'ultima domanda che le faccio è questa. Lei, oggi, ha nostalgia di Dignano?

R.:"No, nostalgia no, oramai mi sento torinese. Se vado mi fa piacere, ma quindici giorni, perché c'è il mare, è bello, anche i bambini andavano volentieri, ma non di abitarci. Di abitarci lì no."
06/12/2007;


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Miletto Enrico 07/07/2009
Pischedda Carlo 07/07/2009
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Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019