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CARTACEO: Intervista ad Elisabetta V.

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Intervista ad Elisabetta V.
Elisabetta V., nasce a Patrasso, in Grecia, il 29 ottobre 1937. In seguito agli avvenimenti bellici è espulsa dalla Grecia nell'ottobre del 1945: parte per l'Italia e, dopo una breve sosta a Bologna, arriva al centro raccolta profughi della Caserma Perrone di Novara da dove, nel 1946, si trasferisce alla Caserma Passalacqua di Tortona. Qui conoscerà il suo futuro marito, esule istriano. E' stata intervistata a Tortona il 1° dicembre 2005. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
"Mi chiamo [Elisabetta V.] e sono nata a Patrasso il 29 ottobre del 1937".

1) Quando è partita dalla Grecia?

R.: "Siamo partiti nel mese di ottobre del 1945, con tutta la famiglia. Siamo stati espulsi perchè italiani."

2) Ecco, può spiegarmi bene questa cosa?

R.:"Beh, mio papà pescava, aveva il moto peschereccio e il negozio di pescheria. Avevamo due case e però quando è venuta la guerra gli hanno sequestrato tutto. Lui lavorava a Patrasso per il comando base degli italiani. L'han portato anche in campo di concentramento per sei mesi. Noi eravamo da diverse generazioni in Grecia ma con cittadinanza italiana. Mio papà era cavaliere di Vittorio Veneto, è andato in Italia a fare la grande guerra. Poi Mussolini ha dichiarato guerra alla Grecia perché gli voleva spezzare le reni. La guerra l'abbiamo persa, ci hanno sequestrato il tutto e ci hanno imbarcati per l'Italia. Però potevamo rimanere diventando greci, ma mio papà diceva sempre: italiano sono nato e italiano morirò, perché noi non avevamo niente da fare coi greci. Noi avevamo la nostra piccola comunità a iniziare dalla chiesa e dalle scuole. Quartiere Santorre di Santarosa: noi avevamo le nostre suore italiane che poi tra l'altro sono venute via con noi ad Ivrea, avevamo il nostro parroco Don Giovanni e così, però noi avevamo dei buonissimi rapporti con i nostri vicini. Anche durante la guerra qualche figlio moriva dei vicini, però loro dicevano: signora [V.] voi non avete colpa, voi siete brave persone, sono venuti gli italiani a bombardare! Noi avevamo un rapporto buono coi vicini greci. Ci avvertivano, perché noi avevamo una zia che aveva sposato un italiano e lo nascondevamo in casa, e quando c'era le pattuglie dei tedeschi che facevano ricognizione i vicini ci dicevano: signora [V.] arrivano i germani, i tedeschi, e allora mio zio si nascondeva in un buco che aveva fatto. Ed era un rischio, perché si poteva essere fucilati. E poi mio papà è stato sei mesi in campo di concentramento perché italiano, poi ci han portato via tutto, però mio papà è riuscito a collocare, a vendere qualcosa dai vicini, perchè a noi non permettevano di portarci via niente di mobili, solo due valigie. Mi ricordo che mio papà era un appassionato di opera e aveva questi quadri dell' Otello e del Trovatore che gli aveva fatto un pittore greco, e lui aveva staccato le cornici e li aveva messi arrotolati nelle valigie ma ce li hanno sequestrati prima di salire sulla nave."

3) Qual è stato il suo viaggio?

R.:"Io avevo otto anni quella volta, però mi ricordo che stavo tanto male. Con le suore abbiamo viaggiato: in nave da Patrasso a Bari. Poi da Bari ci hanno trasferito con la tradotta a Bologna, in un padiglione che io mi ricordo che avevo tanto freddo, perché era pieno inverno, novembre o dicembre era, ed ero senza niente. Poi il destino o il signore non so, ha fatto scoppiare un caso di morbillo e allora noi eravamo infettivi e ci hanno messo in quarantena in una casa littoria. Lì ci hanno dato dei materassi e delle coperte e, devo dire la verità, stavamo bene. Ci chiamavano con il megafono alla mattina di svegliarci che la colazione era pronta e te la portavano su e ci lasciavano i vassoi per la paura di attaccarsi il morbillo. E lì abbiamo fatto un bellissimo natale, pieno di regali, perché eravamo tutti di noi, tutti dalla Grecia. Poi di lì ci trasferiscono subito dopo natale e ci mandano a Novara. Però, devo dire, alla stazione ci aspettavano e ci davano il mangiare."

4)Questo è molto interessante...

R.:"Si, ci davano il mangiare nelle sale sotterranee della stazione, tipo dei punti di ristoro."

4) E si ricorda chi si occupava di tutto?

R.: "La stessa città. Noi arrivavamo ed era già tutto allestito: ci portavano non roba di plastica, perché in quegli anni forse non esisteva neanche, piatti, e bistecche milanesi, che non me le dimentico perché avevo tanta fame, insalata verde e pastasciutta. E poi ci hanno fatto partire e ci hanno spedito a Novara. Ed eravamo solo noi greci, io mi ricordo che tutta la comunità, circa 149 che a Bologna eravamo 149, eravamo lì, e poi a Novara ne abbiamo trovati altri."

5) Mi parli di Novara...

R.:"A Novara non stavamo male, ci davano anche da mangiare buono. Poi c'era una famiglia che era molto culturalmente preparata e aveva cinque bellissime ragazze, che erano senza papà perché il papà non era venuto, si era fatto greco o era greco, non ricordo...Lui era rimasto lì per tenere i suoi possedimenti e in Italia c'erano la mamma, un fratello, e queste cinque ragazze, tutte bellissime. C'erano in questa caserma [la Caserma Perrone] i questurini di guardia, che un pochino molestavano una di queste ragazze. Lei lavava i piatti e aveva le mani impegnate, e il questurino di dietro voleva toccarla. Lei stava risciacquando con la pasta di alluminio, e reagisce e gli stacca l'orecchia al questurino. E per punire lei, tutta la comunità greca l'hanno trasferita a Tortona. Però c'erano anche famiglie che si sono fermate prima di noi a Firenze."

6) Quando è arrivata a Tortona?

R.:"Siamo arrivati a ottobre nel 1946, abbiamo aperto il campo di Tortona, siamo stati i primi abitatori. Però mio papà non ha scelto quelle camere che poi hanno diviso con le coperte gli altri. Ha voluto una camera con la porta che si chiudesse a chiave, perché eravamo in dieci, otto figli eravamo. Avevamo una camera che era dodici metri per sei, e il soffitto era affrescato di angioletti, simboli del fascio. Poi tra l'altro tornando un passo indietro in Grecia, mia sorella e mio fratello, che erano i primi, venivano in Italia in colonia perché Mussolini le mandava lì. Però mio papà non ha mai voluto iscriversi al partito, perché quando nascevano i figli Mussolini mandava il servizio di piatti dell'Asinori, mandava tante cose, ma lui non ha mai ricevuto niente perché non ha mai voluto iscriversi al partito. Né camicia nera, né niente. Però i benefici che dava come le colonie, gli assegni familiari, e queste cose si, ma poi chiuso lì con Mussolini. In casa non si parlava di politica. Noi eravamo bambini e vedevamo con occhi da bambini. Quando siamo arrivati a Tortona, appunto, la distribuzione ci dava il panino e mia mamma ci diceva, ognuno si prenda il suo, perchè poi viene quello che ha più fame e ve li mangia. E noi li mettevamo tutti sotto al cuscino. Io avevo nove anni, ma quello che non mi dimentico è il freddo. Il freddo, il freddo. E poi mio papà ha cominciato a mettere un banchettino di frutta e verdura e ha detto: non prendiamo più il rancio. Davano al posto del rancio i soldi, e allora abbiamo cominciato a fare le nostre usanze, i nostri piatti."

7) Questo sempre nel campo...

R.:"Si, nel campo. Mia mamma mi ricordo che portava le teglie al forno, in Corso Alessandria che c'era un forno, e faceva i pomodori ripieni, che era della cultura greca. Poi baccalà e patate, le seppie al forno e poi i dolci che io li faccio tutt'ora. Il kourambiedes, che è un dolce stupendo, il dolce natalizio tipico dei greci. In Italia c'è il panettone, in Grecia c'è il kourambiedes, fatto di mandorle e anice. Abbiamo preso molto dalla loro cucina, ma dato che i miei nonni erano delle Puglie, abbiamo preso qualcosa anche da quella cucina: le orecchiette, le braciole e così. Ma abbiamo preso poi anche qualcosa di qui di Tortona."

8) Cosa ha preso di Tortona?

R.:"Gli agnolotti, ma chiuso lì. Poi noi ragazzi ci siamo sposati e io ho sposato uno dell'isola di Veglia e così, anche un po' la convivenza con lui..."

9) E lei l'ha conosciuto in campo?

R.:"Si, in campo e quando siamo usciti dalla caserma ci hanno dato la casa vicina e ci siamo innamorati. Perché loro volevano farci uscire prima dalla caserma: volevano darci 50.000 Lire per uno e poi lavarsi le mani di noi. Ma mio papà ha detto: si, io prenderò quattro milioni e mezzo, che negli anni Cinquanta non erano pochi, e poi però? Con questi bambini piccoli come faccio? No, no, mi hanno mandato via dalla Grecia perché ero italiano e l'Italia deve pensare a me."

10) Si ricorda se c'erano in campo dei pacchi dono, dei pranzi o degli aiuti?

"Le signore dei comitati di beneficenza a natale si facevano vedere con il panettone, a vedere quei poveri bambini che insomma, le scarpe che si aveva erano passate da cinque piedi prima di arrivare a me o a un altro, non si buttava via niente. Poi arrivavano quei pacchi dell'UNRRA, il latte condensato, che era buonissimo, il formaggio giallo, e poi ci mandavano nelle colonie. Poi in campo c'era un'infermeria, c'era un medico, un'infermiera, la chiesa, i cori. Abbiamo fatto una piccola città nella città."

11) Mi è stato detto, tornando al campo, che c'erano tre cucine. Mi spiega questa cosa?

R.:"Io non mi ricordo tanto, ma mio papà ha usufruito solo pochi mesi della cucina, perché lui ha detto: compriamo una stufa, anche perché mio papà prima di partire dalla Grecia aveva realizzato qualcosina in oro, e ogni tanto ne cambiava una, lui magari prendeva le scarpe e a natale e a pasqua con quei soldi faceva il pranzo. Queste tre cucine, le tre, io non me le ricordo tanto. Mi ricordo soltanto la distribuzione della legna e poi la pasta, che la mamma non la mangiava, perché le faceva schifo. Toglieva via i vermi e poi diceva bambini mangiate che è buona. Lei non la mangiava, preferiva magari mangiare un pezzettino di pane e mortadella".

12) Lei il greco continua a parlarlo?

R.:"Si, lo parliamo ancora, anche in famiglia, specialmente quando non vogliamo farci capire. Perché non saperlo? I miei figli si son pentiti che non l'hanno imparato."

13) Sa che è una grossa differenza rispetto agli istriani, nel senso che io durante le mie interviste ho riscontrato un netto rifiuto, una chiusura, verso il croato e lo sloveno da parte degli italiani d'Istria.

R.:"Mia suocera è così. Lei non ha mai parlato il croato, ed è nata a Veglia. Mio marito lo parlava, ora è morto, perché aveva un negozio di parrucchiere. A quattordici anni lui ha iniziato a lavorare, perché la sua è una razza che si tramanda il mestiere, li chiamano infatti i barbieri, e di cognome lui faceva [B.]. Il loro negozio è ancora lì requisito dallo Stato. Comunque, lui lo parlava il croato. Lui è arrivato qui nel 1948-1949 e per la prima volta è rientrato nel 1968. La mamma non lo ha lasciato mai ritornare, perché lei proprio non è mai più tornata. Non parla il croato, non una parola."

13) Com'è stato l'impatto con Tortona?

R.:"Tortona era distrutta dalla guerra, era tutta una maceria, e per questo tutta questa gente di qua non è che ci vedeva bene, perché diceva delle bocche in più da dargli da mangiare, credevano che ci avrebbero mantenuto loro, o che lo stato avrebbe fatto per noi e non aiutato loro. Comunque noi non avevamo tanti rapporti con i tortonesi. Io racconto un fatto che è successo a i miei fratelli. Una sera uno dei miei fratelli è andato con uno di Tortona che dal Verdi fino alla caserma gli parlava male dei profughi, e mio fratello gli diceva hai ragione, son venuti qui a prendersi tutto, e dobbiamo mantenerli. Tutta la strada così, può immaginare che tratto che è, sono quasi un chilometro. Arrivati davanti alla caserma mio fratello gli dice ti saluto, vado, sono arrivato a casa! Poi noi siamo diventati subito amici dei signori guerra, che hanno il negozio di tessuti, che mio papà andava a comperare il tessuto, lo pagava e gli diceva di tenerlo fino a quando non poteva farci il vestito. Poi cosa vuole, i ragazzi hanno cominciato a lavorare, hanno visto che eravamo brava gente, e non abbiamo mai avuto fatti giudiziari e quindi pian piano, ma con difficoltà, ci siamo inseriti. Poi le racconto una cosa: le scuole. Le scuole elementari qui a Tortona le abbiamo fatte dentro il campo profughi che la campanella era il bidello che usciva e gridava: fioi a scola! Poi è arrivata la quinta elementare e mia mamma non mi ha fatto più studiare perché avevano bisogno in casa e poi ho fatto qualcosa di serale di avviamento, ma poca cosa."

14) Perciò anche per voi profughi dalla Grecia l'accoglienza non è stata delle migliori...

R.:" Lei deve capire che eravamo in 1.500 in quella caserma. C'erano delle bellissime ragazze, però quando sbagliava una ragazza si diceva che era, non so se posso dirlo...ma sì, si diceva quella puttana profuga."

15) Questo è interessante, perché era una sorta di luogo comune associare la profuga alla donna di facili costumi...

R.:"Si, è vero eravamo considerate facili, e mio papà si arrabbiava tantissimo, anche perché la loro comunità, quelle dell'Istria, erano tutte brave ragazze, belle, e avevano un modo più nordico, di divertirsi e di scherzare con i ragazzi, ma senza niente di fondo, erano così. Noi invece avevamo una cultura diversa, che la donna doveva rimanere in casa ad aiutare. Io ad esempio non ho mai lavorato fuori, ho imparato a cucire, ricamo, donna di casa e cuoca, quelle cose lì che mi insegnava la mamma. Poi con mio marito invece ho incontrato un'altra cultura."

15) E come è andata?

R.:"Ah, benissimo, anche per quello che riguarda la cucina, che è quello che le interessa. I miei menù della Grecia, la mia cultura, mio marito era matto, come io mi son innamorata della loro cucina: le palacinke, che le faccio ancora adesso alle bambine, gli gnocchi che faccio alle mie figlie che mi dicono mamma se vengo a mangiare fammi gli gnocchi, il brodetto, il pesce fritto, la minestra orzi e fasoi, la jota, e le faccio ancora adesso anche per le figlie che le portano a casa ai mariti. Pensi che mia figlia ha sposato un piemontese, uno che mangiava solo salame prima, e a desso gli piace la cucina fiumana. Io cucino di tutto, basta sapere le persone che vengono a mangiare e io cucino di tutto."

16) E lei per sé cosa cucina?

R.:"Adesso che sono sola qualche volta un panino vicino al lavandino per non sporcare, quando invece invito i miei figli mi sfogo!"

17) Parliamo dell'esodo ora. Suo marito le ha mai detto perché è partito?

R.:"Come perché? Lì sparivano gli italiani la sera dalla casa e li portavano nelle foibe e non ce n'era più neanche uno rimasto vivo. Hanno cominciato ad andarsene prima molta gente, tra cui lui. E' andato a Migliarino pisano e si è messo a lavorare da un parrucchiere e sua mamma e sua sorella sono rimaste là. Però poi è venuto l'esodo, il grande esodo, che o optavano per rimanere lì o se ne dovevano andare. E son venuti via. E badi bene che mio marito ha fatto il servizio militare sotto gli italiani e appena rientrato ha fatto tre anni sotto la Jugoslavia. Lui è venuto via nel 1948 e io credo che il motivo principale era la paura, perché lì non potevi dire, lui mi raccontava, non potevi dire qualcosa contro il regime o contro la loro situazione che sparivi. Di notte, tanti suoi amici sono spariti e poi è venuto fuori che erano andati a finire nelle foibe. E invece la nonna si è fatta jugoslava per mantenere tutte le terre che aveva, e di conseguenza anche una figlia. Noi siamo tornati nel '68 dopo vent'anni che era venuto in Italia. Lì sono rimasti tanti italiani, perché lì non si parla in croato, si parla in italiano: in tutti i negozi tutti lo parlano l'italiano. Poi le dico un'altra cosa. Mio marito era anticomunista. Li serviva, perché aveva imparato anche il silenzio, lui era tifoso di tutte le squadre ma diceva che teneva il Derthona, ma nel suo cuore aveva un'altra squadra. Però per lui tutti i clienti avevano ragione, perché ci davano da mangiare. E lui ha lavorato nove anni sotto padrone, dal '50 al '59 e poi ha aperto un suo negozio dal '59 fino che è morto e ci dava da vivere a me che non lavoravo e a due bambini."

18) L'ultima cose che le chiedo è questa: dal punto di vista delle usanze e della cultura culinaria, i greci hanno portato qualcosa qui a Tortona?

R.:"Ah, i dolci nostri li fanno tutti qua. Tutti vogliono la ricetta, tutti vogliono i pomodori ripieni, le ricette, tutti. Io sono andata in ospedale a farmi curare un braccio, e il dottore mi ha detto che dovevo tenerlo da novembre a dicembre. Allora io gli ho detto ma come? Lui sa cosa mi ha detto: non preoccuparti, che prima di Natale sarai pronta, però io ti faccio guarire prima di natale, ma tu devi portarmi i dolci! Io infatti ora i dolci li faccio per gli altri."
01/12/2005;


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Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019