C00/00352/02/00/00005/000/0026
Intervista a Luigi D.
Luigi D. nasce a Dignano d'Istria nel 1935 da una famiglia contadina. Nel 1948 lascia l'Istria e si dirige in Italia. Dopo una breve sosta al Silos di Trieste è trasferito al centro di smistamento di Udine dove gli viene assegnata come destinazione il campo di Calambrone, nei pressi di Tirrenia in provincia di Livorno dove resta fino al 1950. L'anno successivo si trasferisce a Tortona, alla Caserma Passalacqua e successivamente a Torino, dove trova sistemazione alle Casermette di Borgo San Paolo. Nel 1953 viene assegnata alla sua famiglia un'abitazione Fiat al Lingotto. Di professione musicista vive a Torino, dove è stato intervistato il 29 giugno 2009. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?
R.:"[Sono nato a ] Dignano d'Istria, provincia di Pola, il 18 aprile 1935."
2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori...
R.:"Noi siamo, come famiglia D., siamo varie famiglie D. nel nostro paese, perché lei sa, nei piccoli centri ci sono sempre i soliti cognomi. Dunque, la nostra è una famiglia di cinque componenti: papà, mamma, io e mio fratello che siamo gemelli, e un altro fratello più vecchio di me. Il nostro paese, parlo intorno agli anni prima che venisse occupata l'Istria dalla Jugoslavia. Insomma, siamo di origini molto semplici e umili: mio padre era un contadino, lavorava la terra, e poi faceva anche altri lavori, come per esempio il barbiere. Lui faceva il barbiere per i contadini, e [loro] venivano a farsi si la barba e i capelli, ma non pagavano, ma si pagava con la questua. Cioè, ogni anno - e lo ricordo anche io - io e mio padre andavamo con la cariola e con una misura e ci davano del grano, e noi venivamo quindi pagati in questo modo: niente soldi, ma ci davano da vivere e quindi granoturco, grano oppure, non so, formaggio, e così via. Mio padre dunque faceva questo lavoro qui, il contadino, [mentre] l'altro fratello più grande faceva il parrucchiere anche lui, con mio padre, poi invece è andato a Pola a lavorare sempre come barbiere ma, diciamo, in un centro più evoluto, perché Pola era la provincia nostra e c'era più possibilità. Mia mamma era prettamente casalinga, e quindi aiutava il papà. E questa è la famiglia. Noi, da parte nostra come figli, eravamo scolari: io ho fatto le scuole fino alla quarta elementare giù a Dignano, dopodiché passavano obbligatoriamente - perché oramai, nel '45 c'era già Tito - a studiare il croato, saltando la quinta [elementare] e andando alla settima. Perché? Per poter imparare il serbo-croato, che io conservo ancora la grammatica. E quindi, la quinta, mi dicevo: quando la farò? Mah, insomma, poi è arrivato il tempo di fare anche la quinta... Ma, fermiamoci ancora a Dignano. A Dignano, praticamente, eravamo studenti, e avevo dodici anni quando ho lasciato le scuole e siamo venuto via con l'esodo nel '48."
3) Ecco, parliamo ancora un attimo di Dignano. Dal punto di vista economico, riuscirebbe a descrivermi che tipo di città era?
R.:"Era [un paese] piuttosto di tutti contadini, e quindi quasi tutti lavoravano la terra. Non eravamo pescatori perché il mare distava tre chilometri più distante, però arrivava il pesce fresco, anche da noi! Eravamo molto semplici, molto umili, non avevamo altre risorse e quindi si lavorava in campagna. Ricordo che anche io andavo con mio padre ad arare la terra, ma ero piccolo, e quindi andavo solo più a gustare la frutta quando c'erano le albicocche, le ciliegie, l'uva e così via. Poi io ero sempre portato verso la musica, io sono un musicista, e quindi ho studiato. Ho suonato uno strumento, che era la fisarmonica, ma non potevo avere altro, e all'epoca avere una fisarmonica voleva dire già avere molto, e quindi io ho incominciato a studiare musica, e quindi facevo anche lo studente di musica sotto l'insegnamento di mio fratello perché studiava anche lui musica e suonava nella banda."
4) E da un punto di vista demografico, cioè della distribuzione della popolazione, Dignano che città era?
R.:"Guardi, intanto tutta l'Istria, come lei saprà, è stata per sette secoli sotto la Repubblica Veneta, per cui anche il nostro dialetto è prettamente veneziano, e se dopo si è mischiato con il triestino e così via, quella è una conseguenza. Ma il nostro è un paese dove si parla italiano - dove si parlava italiano - e soprattutto si parlava in tutti i posto il dialetto, tranne che a scuola, ovviamente, e negli uffici. Quindi, demograficamente, altro che italiano! Anzi direi che quando eravamo sotto l'Austria e sotto l'Ungheria, sotto l'Impero austro-ungarico, mia mamma ne parlava molto bene: allora c'era la possibilità di camminare dritti, veramente sul filo del rasoio, allora non si transigeva. E noi abbiamo assorbito l'educazione austro-ungarica, ma soprattutto italiana e soprattutto veneta."
5) Quindi la parte croata della popolazione era distribuita più verso l'interno...
R.:"Dunque, l'Istria aveva anche delle isole croate, ma non croati venuti dopo l'occupazione di Tito, ma prima. Ma queste isole erano poche: per esempio la città di Pisino era croata, vicino Dignano, per esempio Peroi, un piccolo borgo, quello era ortodosso, per dire... Poi se andiamo su verso Fiume e verso Sussak, quelli parlavano veramente il croato e soltanto in zone circoscritte parlavano l'italiano e il dialetto."
6) Com'era il rapporto tra la componente italiana e quella croata?
R.:"Direi che erano molto buoni, ma ripeto parlo di quei croati che non venivano dall'interno della Jugoslavia, per cui anche la cultura era diversa e quindi ci si intendeva. Ripeto, questi croati non avevano preso possesso del territorio dopo Tito, ma molto tempo prima, per cui i rapporti erano, veramente, sempre buoni, questo si. Anzi, so che c'erano dei traffici commerciali di piccola portata come uova, eccetera, eccetera, oppure anche addirittura le fascine per fare il fuoco, perché noi non avevamo in casa né elettrodomestici né niente, tanto meno l'acqua corrente, perché la prendevamo dai tini. E quindi i rapporti con tutti son stati sempre buoni."
7) Le ho fatto questa domanda perché io so che in dialetto esiste un termine per definire la componente croata, s'ciavo o s'ciavone...
R.: "Si, esatto...La parola s'ciavoni è usata proprio con disprezzo: cosa se venudi a far qua sti s'ciavoni! Per dirla in dialetto... Ecco, [questa parola] è stata praticamente non dico coniata, ma ripresa per dare questo scherno a questi croati che son venuti dopo, perché questi hanno portato allo scombussolamento della nostra terra. E quindi, come le ho detto, noi abbiamo sempre avuto ottimi rapporti [coi croati] e anche il rapporto così, sociale, non era assolutamente d'ingombro o di conflitto con noi, no."
8) Prima di arrivare a parlare dell'esodo, vorrei chiederle un po' di cose sul periodo della guerra. Lei cosa ricorda di quegli anni, ovviamente con l'occhio di chi a quei tempi era un bambino...
R.:"Ecco, noi eravamo poco più che bambini... Nel '44, per esempio, ricordo benissimo che c'era la guerra, c'erano i bombardamenti a Pola. Ricordo... Beh, si, ricordo che le truppe tedesche, per esempio, marciavano su Dignano, e mi ricordo questo perché queste truppe camminavano, anzi cadenzavano per le vie, cantando in tedesco, e quindi per noi era anche una novità sentire così. Ma però c'erano anche dei momenti molto brutti, perché tra tedeschi e partigiani ricordo che c'erano veramente delle azioni di rastrellamenti e contrasti tra di loro, e quindi venivano presi, fucilati, eccetera , eccetera. Ricordo soltanto questi, che in piazza di Dignano i fascisti avevano rastrellato dei nostri concittadini e [alcuni] non so che fine abbiano fatto, mentre altri li hanno trovati a Dignano [in un posto] che lo chiamano proprio il rione 213, dove in un giardino avevano impiccato non so quanta nostra gente per questioni politiche, penso. E poi ricordo ancora un camion di partigiani fermato nella piazza, che veniva sbeffeggiato dalla popolazione, gli sputavano addosso, li insultavano e mi sembrava proprio peggio della passione del Cristo. E poi so che sono stati portati via. Era un camion di partigiani italiani, dove appunto chi collaborava era anche gente del paese, perché come potevano andare a rastrellare o sapere chi si interessava di politica o chi avesse fatto del male o meno...E a rastrellare erano i tedeschi e i fascisti, si, si. Poi ricordo ancora uno che è stato fucilato in piazza, ma non so perché. Per quanto riguarda invece la guerra del '43 e del '44, dei bombardamenti di Pola, ricordo che suonavano le sirene, e noi di notte, piena, andavamo in campagna, caricavamo tutta la nostra famiglia sul carro trainato dagli asini e andavamo a ripararci e sa dove? Sotto gli ulivi, ma roba da matti! Sotto gli ulivi a tre o quattro chilometri di distanza dal paese, proprio per evitare magari che coi bombardamenti non rimanessimo sotto. Ecco, e ricordo proprio quelle notti lì, vicino alle masiere, e noi eravamo lì al riparo, come se le fronde degli ulivi ci facessero da tetto! E io ricordo ancora adesso queste palle di fuoco che, non so da dove, andavano a finire a Pola, e poi [ricordo] anche gli aerei che ronzavano e andavano a bombardare Pola. Questo ricordo durante la guerra. E poi non ho chiaro questo concetto e questa visione, perché sa, noi eravamo bambini e più di tanto... Eravamo in casa, relegati e sapevi quello che dovevi sapere e poi sa, le nostre famiglie verso i figli erano abbastanza riguardose, non lasciavano che anche i ragazzini sapessero, c'era una tutela e anche un'educazione sotto questo aspetto."
9) Sul periodo della guerra le faccio ancora una domanda. Io so che a Dignano arrivava molta gente, soprattutto da Pola, a cercare del cibo. Vorrei dunque chiederle se c'era borsa nera...
R.:"Si, si, In effetti molti di Pola venivano proprio a Dignano come sfollati. Avevamo anche noi una famiglia, e adesso non ricordo bene, mi sembra che il cognome era C., mi pare... Famiglia C.. Avevano portato con sé tutto, anche il mobilio, che ancora adesso ce l'ho qui a Torino a casa di mia figlia, ma di questo parleremo dopo. E venivano, veramente. Ma si, la borsa nera c'era. Però sa, noi eravamo contadini, per cui dico non che non ci mancava, però...Insomma, noi avevamo tutto ma non ci mancava niente. Però non so, del pane, il granoturco eccetera si scambiava, chi aveva dei formaggi li scambiava coi formaggi, ma comunque non era proprio una borsa nera, nera, quella che si approfittava. Sapevamo come dovevamo trattarli, che erano tra virgolette fratelli, eravamo a otto chilometri di distanza e siamo praticamente tutti parenti. La borsa nera esisteva, e qualcuno ne aveva anche approfittato, soprattutto con l'olio. Siccome Dignano produceva molto olio, vino, e anche di qualità, allora sicuramente ne approfittavano."
10) Parliamo ora della foibe. Vorrei chiederle se voi ne eravate a conoscenza della loro esistenza...
R.:"Si, ne avevamo sentito parlare, e infatti c'era un detto popolare tra di noi che quando uno commetteva qualche cosa, le nostre donne dicevano: buttalo in foiba! Cioè, sapevamo che erano delle profondità, ma fino ad allora non sapevamo che la foiba fosse veramente un luogo di far finita una certa popolazione. Quindi la foiba c'era, e ce ne sono parecchie in Istria, anche a Dignano c'era una piccola foiba, in Santa Lucia, vicino alla chiesa di Santa Lucia, ma di foibe, cioè di questi orrori, non si era mai sentito parlare. Le foibe, come orrore, si sono presentate a noi solo con la venuta di Tito. Cioè Tito voleva, praticamente, annientare l'Istria dall'italianità, e quindi, come dire, la colpa più grande per quelli che venivano infoibati era perché erano italiani. Non perché avessero commesso chissà cosa, e lei questo lo sa benissimo."
11) Voi vi rendevate conto di quanto stava accadendo?
R.:"No, assolutamente, no. Il fatto delle foibe, il terrore che poi si è concluso con l'esodo, noi l'avevamo sentito solo quando Tito, praticamente voleva annientare non solo la gente italiana, ma voleva annientare anche la tradizione, la lingua, il dialetto, tutto, annientando anche la religione, perché bisogna dire che il popolo istriano era prettamente religioso. Questa è una parentesi, ma glielo posso dire, che quasi tutti i contadini in casa loro, compreso mio padre, avevano un piccolo altarino e cioè una mensola con l'icona di Gesù, due candele e questo, diciamo era un segno di religiosità. E quindi con l'avvento di Tito, che lui diciamo si è avventato con la nostra gente, e questa è una politica sua, che ha detto: beh, qui vogliamo far fuori tutti gli italiani. Noi abbiamo avuto paura delle foibe proprio quando incominciavano a rastrellarli, a rastrellare la nostra gente, e portarli, soprattutto, prima senza processo e senza niente nel castello di Pisino, dove lì gli facevano un processo molto sommario, con mille colpe ma senza una verifica, e venivano buttati nelle foibe. Allora, visto e considerato che le truppe titine venivano da noi, e manifestavano tutto il loro odio e soprattutto l'odio contro di noi, che poi non avevamo fatto assolutamente niente. Venivano da noi manifestando quelle false promesse: libertà ai popoli, morte al fascismo e così via. Al punto che anche nelle pagelle - che io ho ancora delle pagelle, visto che ho fatto un anno e mezzo di croato - scrivevano Smrt Fascismo Slobodanor, cioè morte al fascismo e libertà ai popoli. E allora abbiamo capito che non era la nostra gente, che non era la nostra cultura e avevamo capito che l'avevano contro di noi senza un perché. Quindi poi tanto per dire, mio padre sempre sotto l'occupazione di Tito - e siamo intorno al '45-'46 - che aveva questo negozio di barbiere, un giorno doveva passare la processione...Ebbene mio padre per aver chiuso la bottega è stato denunciato e a momenti andava in prigione: [delle religione] non volevano saperne. E infatti Tito ha abolito la religione: ha chiuso le chiese, guai a chi vedeva andare in chiesa e, se lavorava, perdeva il posto. E questa era la libertà, ma che razza di libertà è questa? Quindi abbiamo capito che si trattava di convivere con un regime che non era assolutamente il nostro. I nostri genitori avevano già in precedenza fatto un esodo, quello del '15-'18, ed erano andati in Stiria, insomma in giro per il mondo, e dopo di che finita la guerra del m'15-'18 sono ritornati nel paese. Questo [è stato] il primo esodo, il secondo esodo è stato il nostro. E poi ricordo anche che a Dignano, per farci vedere che portavano l'allegria si mettevano a ballare tutti, e il ballo era il ballo del kolo, dove si abbracciavano e si giravano intorno. Boiate, insomma! Ma dico, ma per noi cosa sono ste pagliacciate!? Cioè, noi eravamo abituati a lavorare, e sodo, non a fare queste manifestazioni così, che non avevano nessun senso...Se questa era la libertà, non lo so. Quindi la libertà ci mancava, e questo era, di primo acchito, il primo aspetto dell'occupazione titina, e dopodiché c'erano anche tante malefatte nei confronti di noi, per cui chi ha dato il via per l'esodo sono stati innanzitutto prima i polesano, perché Pola si èp svuotata. Anche se, guardi, tutta l'Istria si è svuotata."
12) Parlando delle foibe lei mi ha detto che i titini erano soliti venire a prendere le persone coi camion. Ha mai assistito a scene di questo tipo?
R.:"Dunque, no, perché venivano di notte, per cui...Venivano tutti di notte, bussavano alle porte col fucile, e quindi era terribile. Può capire il terrore che vivevano le nostre famiglie. Un terrore...immagini, adesso vengono a prendere i nostri uomini. Eh, insomma....Va ben, noi eravamo giovani, però prendevano tutti, eh! Dai diciotto anni in su, ma forse anche prima."
13) E che lei ricordi a Dignano ci sono stai episodi di infoibati?
R.:"Beh, si, infatti, hanno preso ad esempio due miei cugini. Due miei cugini, un certo F. e un certo B.. Però questi, nessuno mai ha più saputo dove sono andati a finire. Poi, dopo tanti anni, abbiamo visto in un registro degli infoibati compilato da un certo Luigi P., un bel libro spesso, dove c'erano questi due nomi. Due miei cugini: presi, portati e buttati nelle foibe."
14) Ricorda l'ingresso dei titini a Dignano?
R.:"No, no. Ma guardi, se questo avveniva, avveniva o al mattino presto o alla sera, per cui noi [non lo potevamo vedere]. C'erano però delle adunanze che facevano nelle piazze e facevano dei comizi, dei lunghi comizi, lunghissimi. Però vista entrare questa gente, no. Li abbiamo visti così, come dico, danzare il kolo, il kolo di Tito lo chiamavano, una cosa pazzesca. Ecco, anche per la dignità che il nostro popolo aveva e ha tutt'ora, a vedere queste cose qui dicevo: ma cosa venite? Ma questa è civiltà? E ancora questo ricordo: prima di andare via, abbiamo fatto le cosiddette votazioni, le opzioni. Ricordo che quando mio padre doveva votare - logicamente erano lui e mia madre che dovevano votare - avevano questo seggio - chiamiamolo così - che era all'ingresso della pretura, e avevano due cassette con due grandi fori, e davano una pallina di gomma [di un colore diverso] a seconda se eri per Tito o per l'Italia. Allora, mio padre doveva andare dentro due volte, nella prima urna e nella seconda, e lasciar cadere la pallina, ma sti disgraziati erano dietro, e quindi sapevano per chi votava e veniva segnalato! Ma l'ingenuità, la furbizia, stupida, perché questa è una furbizia stupida, e dico: ma cosa, ci prendete proprio per dei cretini! Ecco, si votava in questo modo! Ma a parte questo, visto che mancava la libertà, mancava il rispetto, mancava la religione, che era il cardine della nostra gente, e poi avevano costituito le cosiddette cooperative, che lei, come in tempo di guerra, doveva andare lì con la tessera a chiedere quello che le serviva, e quindi altro che libertà e abbondanza, questo non c'era! E quindi abbiamo visto che non c'era rispetto e mancavano tutti questi valori umani, e allora hanno messo queste opzioni, e noi abbiamo optato per venire via."
15) Parlando sempre della Jugoslavia. Lei ricorda l'esistenza di alcune pratiche particolari, come ad esempio il cosiddetto lavoro volontario?
R.:"Ah ecco, si, bravo, bravo! I più grandi venivano presi e portati al lavoro - che lo chiamavano lavoro volontario - che si andava proprio lontano, in Jugoslavia, a mettere su la ferrovia Samak-Sarajevo. Io ricordo anche la musica che ci facevano cantare Samak-Sarajevo eccetera, eccetera, e prendevano i più grandi che andavano a lavorare. Lavori forzati, altroché!"
16) Immagino gratuiti...
R.:"Ah, certamente! E non passavano assolutamente niente, e quindi le nostre mamme dovevano arrangiarsi, peggio che in tempo di guerra. Questo era il cosiddetto lavoro [volontario] e poi, chi non andava, oppure chi non rispettava le regole, veniva chiamato nemico del popolo. Infatti mio padre, perché aveva chiuso il negozio nel periodo della processione gli è stato detto nemico del popolo. La processione passava e lui ha chiuso bottega, ma solo nel momento del passaggio e l'hanno richiamato subito."
17) E dal punto di vista della vita quotidiana come si stava in Jugoslavia? Alcuni testimoni mi hanno riferito di quanto fosse difficoltoso vivere, anche dal punto di vista dell'approvvigionamento...
R.:"Eh si, è vero questo. Diciamo che non c'era molte possibilità di sostentamento. I contadini, ancora, ancora, poi la nostra gente andava a lavorare a Pola all'Arsenale militare, per cui c'era poco anche lì. Molte delle nostre donne andavano a lavorare alla Fabbrica Tabacchi, sempre a Pola o a Rovigno, e quindi si, c'era carenza. Ricordo solo che i miei zii e i miei cugini non avevano proprio da mangiare. Tra l'altro avevamo anche un cugino che da giovane, sedici-diciassette anni, era andato in seminario a Capodistria, e dovevano sostenere le spese del seminario, dovevano mangiare, mio zio lavorava all'Arsenale... Mio padre lavorava in campagna, e per fortuna c'eravamo noi che davamo [loro] il sostentamento, soprattutto pane, perché ricordo che si mangiava, spesso, polenta e latte. Polenta e latte. C'era una miseria e anche il sapone ricordo che non c'era... E lo facevano in casa, con delle ossa, non so io... Ricordo benissimo che facevano anche queste cose qui."
18) Mi ha parlato prima delle opzioni. Le chiedo se per aver optato avete subito [mi interrompe]
R.:"Delle angherie?"
19) Esatto...
R.: "No, no. Certamente si stava sempre nella paura che magari, un giorno o l'altro, venissero a bussare alla porta di notte, prelevarti e magari mandarti via. Però l'opzione era praticamente una legge, e con il governo italiano si erano messi d'accordo, naturalmente, [dicendo] noi accettiamo i profughi però voi dovete dare il rispetto a quella gente. Se si sentono croati rimangono, se si sentono italiani vanno via. Per venire via noi non abbiamo avuto nessuna discriminazione, però per venire via dovevamo fare domanda di tutto quello che si portava via, ma di tutto: cinque camice, quattro bottoni, quattro pentole e così via. Con la lista. E prima di andare via, prima di caricare nei cassoni sul treno, veniva la cosiddetta guardia popolare con la lista e diceva: vediamo un po' cinque camicie? No, ce ne sono sei, e via, una la toglievano. Radio? No, la radio non si porta, questa è roba nostra! Si impadronivano [di] tutto. Ricordo che avevo un cannocchiale [e che mi dissero] no, questo è nostro! Un violoncello, che mio padre suonava il violoncello, niente, loro! Insomma si sono impadroniti loro. E non solo, poi si sono impadroniti delle campagne e delle case: [era] tutto nazionalizzato quando siamo venuti via."
20) E il discorso della nazionalizzazione, anche delle campagne, penso abbia inciso sulla scelta di partire nella vostra famiglia, che come mi ha detto era essenzialmente contadina...
R.:"Beh, guardi, diciamo che la decisione per andare via veniva oltre che dal trattamento, dalla mancanza di libertà e dalla mancanza di rispetto soprattutto per un cosa, perché, sa com'e... Insomma, quando uno prende una ciliegia, poi ne mangia due, ne mangia tre, e così una attira l'altra. Quando poi hanno incominciato a sfollare, qui non c'è stato poi nessun freno: avanti, giù, tutti quanti via! E quindi siamo venuti via."
21) Quindi siete stati anche un po' influenzati da ciò accadeva, da questa catena di partenze?
R.."Influenzati no, direi convinti, soprattutto, perché la convinzione l'abbiamo avuto [vedendo] il modo del loro vivere, del loro trattarci."
22) Mi diceva che lei va via nel '48...
R.:"Precisamente il 9 dicembre 1948."
23) La ricorda com'era Dignano in quei giorni?
R.: "Eh beh, era sempre brutta! Cioè imposte chiuse, poca gente che girava per la città diciamo che era un mortorio. Si sentivano anche da noi quelli che inchiodavano le casse per portare via le masserizie che erano più necessarie. Quindi era veramente una città morta, non c'era più quella vivacità... Ed è vero quel che si dice oggi: Dignano potrebbe essere ancora bella, ma manca la nostra gente, per cui, assolutamente niente. Era una città che moriva, praticamente, poco per volta."
24) Mi racconta il suo viaggio?
R.:"Dunque, precedentemente, quando le guardie popolari sono venute a controllare quello che noi volevamo portare via - quelle poche masserizie - l'indomani o due giorni dopo noi potevamo prendere il treno. Allora, caricandole sul treno queste masserizie andavano tutte a finire al Silos di Trieste. Dunque, noi siamo partiti il 9 dicembre, quindi il giorno dopo della festività della Madonna... Siamo partiti con l'amarezza alle cinque del mattino, lo ricordo bene, e abbiam preso il treno. E pensi che per fare si e no cento chilometri di treno ci abbiamo praticamente messo otto o nove ore. Insomma, siamo arrivati molto tardi la sera a Trieste, al Silos."
25) Come lo ricorda il Silos di Trieste?
R.:"Mi ricordo benissimo, guardi io dall'esodo in poi mi ricordo tutto! Beh, guardi, per noi ragazzini era un'avventura, perchè inconsci di quello cui si andava incontro. Certamente quello che ci dava tristezza è vedere i nostri genitori piangere e avviliti a salire sul treno. Insieme a noi c'erano altre famiglie anche, caricate la mattina sul treno, e siamo arrivati a Trieste praticamente alle otto o alle nove di sera. E per noi [ragazzini] era un'avventura: non eravamo mai stati in treno a fare così tante ore di viaggio! Poi quando siamo arrivati al Silos così, senza niente, visto che avevamo soltanto quel poco che ci avevano dato da mangiare i parenti, ci hanno messi in un grande camerone a dormire per terra con una coperta, ma forse neanche quella o comunque non per tutti, e siamo stati due notti. Due notti. Per noi l'indomani quando ci siamo svegliati vedere il pane bianco, cioè la cosiddetta pastadura che la chiamavano pasta bianca era...uh [una felicità]! Perché abituati a non mangiare pane più, che si mangiava solo polenta, allora eravamo veramente felici! Poi sa, nell'inconscio di un ragazzino di dieci dodici anni, era veramente un avventura! Comunque, lì [a Trieste] siamo stati due giorni, dopo di che ci hanno smistato in una caserma a Udine."
26) Parliamo di questa caserma...
R.:"Non ricordo il nome, ma ricordo che siamo stati una settimana e abbiamo dormito in una caserma proprio sulle brande dei militari a castello: sotto mia madre, mio padre sopra e noi fratelli su un altro castello. Lì ci davano da mangiare con la gavetta, non c'erano sicuramente le mense come si vedono oggi, e siamo stati praticamente lì in attesa che in altri centri di raccolta profughi si facessero liberi qualche posto per poterci sistemare. Che poi qualcuno andava via, partiva anche per le Americhe, anche perché, le sa, l'esodo era iniziato un anno prima con il Toscana che partiva da Pola nel '47, e noi siamo partiti un anno dopo."
27) E la destinazione si poteva scegliere oppure da Udine si era smistati a seconda dei posti liberi?
R.:"No, non si poteva scegliere, [anche se] c'era qualcuno che poteva anche scegliere: siccome si erano smebrate le famiglie o la parentela, tutti cercavano almeno di poter andare nello stesso campo profughi. Noi non avevamo altri parenti da [raggiungere] per cui siamo andati liberamente dove ci hanno mandato. E allora, dopo una settimana di caserma, diciamo di vita proprio militare, siamo stati trasferiti a Tirrenia, veramente a Calambrone. Calambrone era una frazione vicino a Tirrenia, e Tirrenia è sotto Livorno."
28) E lì c'era un centro di raccolta profughi?
R.: "C'era un centro di raccolta profughi, ed era una vecchia colonia, che si chiamava colonia marina di Firenze, e qualcuno l'aveva anche definita Colonia Pontificia di Firenze. Sarà stata anche una colonia del Vaticano, comunque siamo arrivati in questo posto."
29) E lei riesce a descrivermi la struttura?
R.:"Dunque, era proprio, come dire, una bella colonia! Aveva un grande palazzo nel centro dove c'erano gli uffici con dei corridoi tutti chiusi e poi c'erano le cosiddette caserme, cioè dove andavano a dormire i villeggianti, questi delle colonie. E lì ci avevano dato uno spazio per stare: c'erano sei braccia sia verso il mare, sia all'interno del campo, e in questi sei bracci dovevamo sistemarci.E sistemarci voleva dire che ci davano a disposizione quattro metri per quattro, e quindi un grande camerone diviso con dei fili di ferro divisi con le coperte. Quattro metri per quattro metri, e lì si viveva con un letto - quello che c'era -, con un fornello a carbone, perché non c'era ancora neanche quello con la pompetta e tanto meno quello elettrico. Quindi in questi quattro metri eravamo in cinque, abitavamo in cinque."
30) Nel campo eravate soltanto giuliano dalmati?
R.:"No, era misto perché venivano anche dalla Tunisia o da altre [parti]. Comunque io ricordo che nel campo profughi a Tirrenia noi facevamo praticamente tutto: mancava il carbone? Bene, andavamo noi giovani nella pineta - una bellissima pineta che poi porta a Marina di Pisa - a prendere i rami dei pini per fare il carbone. Ma quante volte abbiamo fatto tante carbonare! Ecco, solo per dire che ci sapevamo aggiustare. A quel tempo lì poi io suonavo già la fisarmonica, avevo tredici anni, e davo lezioni, pensi! A tredici anni, ricordo, io davo lezioni di fisarmonica, e tenevo dei concerti, e allora sa, tutti quanti, a vedere un bambino che suona...E lì siamo stati un anno e mezzo."
31) A Calambrone ricevevate un qualche tipo di assistenza?
R.:"Si, si. Dunque, intanto i primi mesi andavamo con la gavetta in fila per prenderci il rancio in campo. Era proprio una specie di campo militare: c'erano grandi pentole ed era appunto gestito dai militari. E, piaceva o non piaceva, ci davano da mangiare quel che c'era. La razione era quella, punto. Abbiamo vissuto in questo modo un po' di tempo e dopo ci facevamo noi da mangiare, ci davano un sussidio che era proprio una miseria, mica come quelli di oggi che hanno tutto, e hanno anche il rispetto eccetera! Insomma, eravamo trattati veramente come bestie, e gli italiani , cioè un uomo di governo mai fatto una visita, mai una presenza. Oppure, non so, fateci pervenire un saluto da parte di qualche autorità, niente, abbandonati a noi stessi. E quindi noi stavamo bene, praticamente nel campo profughi."
32) A Calmbrone qualcuno dei profughi ospitati in campo riusciva a inserirsi in qualche contesto lavorativo?
R.:"No, no. Per potersi arrangiare bisognava uscire dal campo, e cioè ritirare la buonuscita. Però per uscire bisognava trovarsi un lavoro. Però allora sia mio padre, sia i miei fratelli non avevano assolutamente possibilità. Si faceva solo qualche lavoretto così, tra di noi. Eravamo dei mantenuti, praticamente. Ma molto male anche, perché non avevamo quella dignità di dire: guarda, ci mantengono ancora! Noi invece volevamo vivere per conto nostro."
33) Parlando ancora dell'assistenza ricevevate anche vesti, pacchi dono o cose di questo tipo?
R.:"No, no, [era] tutto sulla nostre spalle, vivevamo con quello che avevamo. Ricordo che appena arrivati c'erano delle assistenti, forse le vecchie assistenti della colonia, ex coloni, che mi ricordo che mi avevano portato, per e mio fratello una sciarpa di lane e dei guanti fatti a meno e del pane bianco: mamma mia, per noi era una grande festa! Ecco, questo msi, ma da parte dell'amministrazione del campo no, mai avuto niente."
34) E questo campo, mi diceva, era gestito dai militari?
R.:"No, solo la cucina, il resto erano civili, c'era l'ECA, si. Non abbiamo mai avuto nessuna cosa a Tirrenia. Però si, adesso che mi ricordo, ci davano dei pacchi dell'UNRRA, che venivano dall'America, dagli inglesi, ecco, quello si. Ma [ce li davano] ogni tanto, non so, uno ogni quattro o cinque mesi. Mi ricordo ancora adesso le scatole con i fagioli, lo zucchero, il latte condensato - che noi ne eravamo ghiotti - i formaggini di cioccolato, i cereali e per noi era na grande festa! Ecco, quello si. Poi, dopo, la gente si arrangiava e sicuramente qualcuno sarà anche andato in cerca di lavoro a Livorno, a Marina di Pisa o a Pisa, o lì intorno."
35) E la gente del luogo come vi ha accolti?
R.:"Beh, tutti con molta diffidenza, tutti, tutti. A partire, diciamo da quando siamo arrivati, che tutti dicevano: ma cosa vogliono questi, vengono a mangiare il pane nostro? E questo lo avrà anche saputo, come quando i treni si dovevano fermare a Bologna e invece abbiamo avuto il gran rifiuto..."
36) Le ho fatto questa domanda perché le zone di Livorno e di Pisa sono politicamente connotate, e c'era un grande stereotipo legato agli esuli, e cioè quello di essere considerati fascisti...
R.:"Si, si, mamma mia! Fascisti, esatto. E infatti noi ancora oggi passiamo per fascisti, ma dico, io non so neanche cosa voglia dire fascismo! E lì c'era questa cosa, si, si, c'era eccome. Ma ancor di più al campo profughi di Tortona. Le voglio anche dire un'altra cosa [su Calambrone]: io per aiutare la famiglia, per arrotondare, facevo l'aiutante fotografo a un certo Ciccio, che era un fotografo di spiaggia, sa con quelle cassette degli acidi e con quelle macchine tutte coperte, e mi dava qualche cosetta. Oppure non so, c'era una persona molto brava, perché vicino al campo profughi c'era l'ospedale SMOM, che era l'ospedale dell'Ordine Militare di Malta, e mi ricordo che il mattino andavamo a prendere sotto la sabbia una bottiglia di caffelatte che, di nascosto, questo signore ci dava. Oppure io e mio fratello andavamo nelle colonie, perché lì intorno era tutto colonie, andavamo nella colonie dei figli di italiani all'estero a prendere i fondi del caffè che loro buttavano via - noi li chiamavamo i fondacci - per fare il caffè, e facevamo il caffè così! Quindi altro che assistenza, eravamo abbandonati a noi stessi! E a questo SMOM andavamo anche alla messa e a divertirci al cinema."
37) Quindi il tempo libero lo passavate anche al di fuori dal campo...
R.:"Beh, non tanto, anche perché eravamo praticamente vicini, confinava, quindi...Poi dal campo non si poteva uscire, dovevamo avere dei permessi - e questo è giusto - eravamo praticamente sempre controllati. E tra la nostra gente non è mai successa una discordia, mai un reclamo, mai niente. Noi abbiamo affrontato l'esodo veramente con la dignità, con la nostra dignità, con la dignità della nostra gente, e non siamo andati coi cartelli in giro a fare baccano."
38) Nel campo di Calambrone, c'erano anche dei servizi interni come ad esempio scuole e infermerie?
R.: "Beh, c'era intanto un ufficio anagrafe e quindi qualsiasi si aveva bisogno si andava lì. Poi nel campo c'erano anche le scuole. Però siccome io dovevo andare alle medie ma non potevo perché non avevo la quinta, io ricordo che ho fatto la quinta elementare in una colonia fuori dal campo, lì vicino, [alla] Colonia Monterosa. Ecco, e ho fatto la quinta. E sa che una volta si facevano gli esami di passaggio dalla quinta alla prima media, e ho fatto l'esame a Pisa. E mi ricordo che era quasi il periodo di uscire dal campo. Però lì stavamo bene, perché il mare lo avevamo a 150 metri, ci spogliavamo, facevamo due corse e via, nell'acqua. Da marzo fino a settembre eravamo in acqua, e per noi era una pacchia! Ecco, questa era la vita dei campi. Ecco, per quanto riguarda Calmbrone voglio dirle ancora una cosa: quando avevamo qualche soldino in più, andavamo a comperare non so, qualche cosa come il fornello a carbone, a Livorno e precisamente al mercato coperto, dove avevano scoperto in quel canale le facce di Modigliani, false. Poi dopo è però arrivato il momento che volevamo avvicinarci e venire a Torino, perché a Torino c'erano i miei zii, la sorella di mia madre. Però per raggiungere lo stesso campo profughi dovevamo prima fare una domanda, e andavamo a carico dei miei zii. Ma questo, però viene in seguito, perché prima arriviamo a Tortona."
39) Si ricorda, a grandi linee che anno era?
R.: "Io sto a Calmbrone un anno e mezzo, quindi era intorno al 1950. E nel '50 arriviamo alla Caserma Passalacqua [a Tortona]. E ricordo che siamo arrivati di novembre, con una nebbia fittissima, e questa ce l'ho proprio presente, con quei grandi cameroni... Ci avevano messo al secondo piano, in un camerone dove non c'erano neanche i vetri, e quindi un freddo! Giuro che abbiamo patito veramente il freddo, un freddo pungente, con la nebbia che entrava di sera dentro. Eravamo trattati peggio dei prigionieri, perché a Tortona era molto più severo il campo."
40) In che senso?
R.:"Intanto perché era impossibile uscire anche di giorno dal campo, dovevamo chiedere il permesso. Volevano che so, andare in duomo a sentire la messa? No, [non si poteva] perché avevamo la chiesa interna. Lì ci recavano poi anche spesso le visite, visite mediche, come anche a Tirrenia avevamo il servizio sanitario, si, insomma c'era proprio quel servizio tipo da mutua. Invece a Tortona siamo stati, devo dire, non tanto bene, anche perché non eravamo trattati proprio bene bene come a Tirrenia. Perché a Tirrenia essendo piccolo il campo, invece la Caserma Passalacqua era immensa, ed eravamo non so quante persone. Tanti a Tortona incominciavano già a trovare lavoro: chi ha trovato lavoro non so, nell'industria, mio fratello, ad esempio, ha trovato da lavorare come barbiere, ricordo, in piazza delle Erbe, e poi noi eravamo ancora molto giovani e dovevamo finire le scuole. Io ricordo che io e mio fratello abbiamo fatto la scuola Cardone che era una scuola di avviamento professionale che non abbiamo neanche finito, perché dopo di là siamo arrivati a Torino. Quindi alla scuola professionale anche lì, con molta diffidenza, ci hanno trattato molto male."
41) In che senso?
R.:"Adesso le faccio proprio un esempio lampante. Noi non avevamo né quaderni, né libri, niente insomma. E chi ci dava i soldi? E chi ci dava la possibilità di inserirci nell'istruzione e nella società? Allora, io e mio fratello andiamo a scuola, che mi ricordo era sopra il cinema sociale a Tortona, sopra al primo piano c'erano le scuole. Io e mio fratello eravamo in classe insieme, e ricordo che la maestra ci aveva fatto fare un tema di italiano. Abbiamo chiesto ai nostri compagni di darci almeno un foglio. Ci hanno dato il foglio, abbiamo fatto il tema e glielo abbiamo consegnato. Due giorni dopo, questa indignata prende il foglio e dice: ecco, questi sono i profughi! Si vede che sono nati in una stalla! Perbacco! Io che avevo l'inchiostro lì, perché avevamo il banco che aveva il calamaio, ho preso il calamaio e gliel'ho tirato, va bene? E l'ho imbratta d'inchiostro! Non so chi mi aveva dato il coraggio, ma sentire che noi siamo nati in una stalla! Volevo vedere io se fosse stato detto a lei...Fatto sta che il preside ci ha chiamato e io sono andato con mio padre e altri ragazzi, che hanno testimoniato e hanno detto queste cose, e hanno sospeso per mesi la maestra e dico: toh, un'altra volta impari ad avere anche rispetto! E non solo mio fratello e mio padre, ma son venuti anche altri profughi dignanesi a farsi le ragioni: ma come, questo è il modo di trattare i profughi? Da allora, guardi, abbiamo avuto poi tutto: matite, quaderni, tutto gratis!"
42) Quindi anche a Tortona un'accoglienza non bellissima...
R.: "Si, diciamo che oramai erano già abituati, a Tortona avevano già un sacco di profughi. A Livorno invece era più piccolino e si stava anche bene."
43) Quanti sarete stati a Calambrone?
R.:"Mah, non so, dico un numero...250, ma neanche. Poi sa, a Marina di Pisa c'erano gli inglesi, e anche a Livorno, per cui si stava bene, qualche cosa ci mandavano e ci portavano... Ma poi c'erano anche quelli delle colonie che ci portavano qualcosa, perché dicevano: poveri profughi!"
44) Dall'altra parte, invece, c'era chi vi considerava fascisti...
R.:"Fascisti, fascisti...Soprattutto i più sfegatati, e ancora adesso passiamo per fascisti."
45) A Tortona quanto si ferma?
R.:"Mah, diciamo due anni e mezzo, quindi poi siamo passati a Torino. Questo però, cioè per passare a Torino abbiamo chiesto l'autorizzazione ai parenti se ci davano la garanzia, quindi loro prestavano il nome e noi dovevamo entrare a Torino. E siamo arrivati, appunto, presso le Casermette Borgo San Paolo, richiesti da un certo mio zio G., Egidio G., che ci ha garantito, che ha garantito la nostra famiglia che non eravamo dei delinquenti,, che non avevamo la cosa [fedina] penale sporca. E bom, chiuso, ci ha garantito e siamo arrivati a Torino. A Torino, innanzitutto c'era la possibilità della Fiat, c'era la possibilità di lavoro, ed eravamo quasi 10.000 istriani qua, in questa zona...E perché? Perchè andavano tutti a lavorare grazie alla Fiat, grazie a padre Agnelli. Quindi ha incominciato a lavorare mio fratello, ed è poi andato anche l'altro mio fratello gemello. Noi intanto qui abbiamo fatto il campo profughi, e parliamo del campo profughi...Noi in campo profughi siamo stati anche molto bene: [a Torino] avevamo due campi e in un campo c'era il campo sportivo e dall'altra parte c'era invece il campo dove c'era la chiesa. Ed io ero, mi ricordo, al settimo padiglione secondo braccio, era questa la nostra ubicazione. Intanto ci siamo trovati molti di noi istriani, ma soprattutto dignanesi e quindi ci siamo sentiti più una famiglia. Abbiamo cominciato, diciamo, a lavorare, non tutti naturalmente però parecchi e noi ragazzi dovevamo pure mantenerci, e mi ricordo che allora facevamo i cosiddetti corsi dei disoccupati. E che cos'erano questi corsi dei disoccupati? Mi ricordo che andavamo in via Tonel in un piccolo fabbricato dirimpetto alla Fabbrica Tabacchi a Regio Parco. Dalle Casermette prendevamo il 13, sa un tram di quei piccoli, e facevamo tutto il giro fino a su in corso Belgio, e si arrivava a Regio Parco. Facevamo mattina e pomeriggio e ci davano, se non sbaglio, 300 Lire al giorno come sussidio, insomma per non lasciarci in strada. Ed era già una cosa molto bella. Allora [Amedeo] Peyron era il sindaco di Torino, e cosa succedeva? Che in qualche modo dovevamo procurarci da vivere e anche cercare un avvenire futuro. Noi facevamo questi corsi di disoccupati. E pensi, io musicista che non ero capace di mantenere una lima in mano, mi hanno dati il diploma di aggiustatore meccanico! E abbiamo fatto [questi corsi] per non ricordo quanti mesi, e mi son preso due diplomi e mi son serviti. Ma cosa succede? Io, patito della musica studiavo: invece di fare merenda mi erp portato il Bona [manuale di solfeggio NdA] e solfeggiavo, solfeggiavo. E mi ricordo che uno degli istruttori mi dice: ma perché non vai al conservatorio? Per me il conservatorio voleva dire un posto da signori...Uh, per carità, neanche lo pronunciavo, perché sarà stata una cosa difficile dove [credevo] andassero solo i figli dei signori. Comunque, fatto sta che questo istruttore ha fatto la domanda al sindaco Peyron e il sindaco dopo un po' di tempo mi ha praticamente chiamato e mi ha detto: io ho riferito al direttore del conservatorio - che era un certo Lodovico R. - e adesso allora tu puoi andare in conservatorio gratis. E fu così che io entrai al conservatorio, e son stato lì praticamente tutti i miei anni di studio e tutti gli anni che io ho insegnato, quindi ho fatto la mia vita musicale in conservatorio. Questo grazie a un istruttore che amava la musica - che era un patito di Bellini - e che mi ha fatto la domanda, [perché] io da solo neanche immaginavo di avvicinare un sindaco."
46) Da Dignano a Calambrone, poi a Tortona e infine a Torino, una grande città. Posso chiederle che impatto le ha fatto?
R.: "Eh, beh...Le dirò che intanto mio fratello più grande dopo che era arrivato a Torino da Tortona, aveva trovato lavoro presso la Fiat, e lui abitava in via Romani, dietro la chiesa della Gran Madre con altri, noi non avevamo ancora la casa. Finito di vivere nel campo profughi dove, ripeto, si stava bene, avevamo una nostra corale, io ero già organista e sostituto del coro, c'era la banda, c'era la filodrammatica e , insomma, si cominciava già a respirare aria di inserimento e la gente incominciava già a lavorare, chi da una parte e chi dall'altra, siamo arrivati nel periodo del 1953, quando ci hanno dato le case popolari qua , in via Nizza. Siamo entrati nelle nostre case e da quel momento abbiamo incominciato a fare la nostra vita civile. A vivere non più da profughi."
47) Nel campo delle Casermette, almeno a giudicare dalle foto che ho raccolto, si passava anche il tempo libero. Non so, mi viene in mente che ad esempio c'era un campo da calcio...
R.: "Eh, si, c'era un certo M., il vecchio M., il papà di due di loro [i figli], insieme a G. - che era libico - che era un allenatore del Torino e aveva formato anche una squadra. C'era tutto: il calcio, la banda, il cinema e c'erano anche tre preti che organizzavano anche delle gite, che tra l'altro una di queste gite è andata a finire male, perché, mi pare, avevano organizzato una gita a Cumiana e il pullman si ribaltò e, poveretti, morirono anche delle persone. Dunque, l'impressione ch3e ci ha dato Torino... Noi da giovani non potevamo girare, tanto meno uscire dal campo, ma non appena abbiamo preso la casa qui [in via Nizza] abbiamo iniziato a conoscerla."
48) E il quartiere qui com'era?
R.:"Come adesso, praticamente. Certo, si è ampliato, c'era tutta Italia 61 che doveva ancora nascere, e quindi rientrati in casa noi abbiamo finalmente gustato la grande città. Siccome mio fratello lavorava ed aveva anche delle conoscenze, mi portava allo stadio, quello vecchio, naturalmente, a vedere la partita. E quindi c'era già un altro modo di divertirsi e avevamo anche le sale da ballo. Io suonavo anche in varie balere e poi ho cominciato a prendere lezioni seriamente. Andavo a lezione di fisarmonica da un certo S. in piazza Sabotino, e poi andavo a lezione da via Nizza - pensi - fino a Lucento, dove c'è la chiesa di Lucento in bicicletta con la fisarmonica sulle spalle da un certo maestro Riccardo D.. E mi ricordo che lì ho imparato a studiare musica e poi ho fatto parte di un complesso di fisarmonica a Torino, il complesso Tricò. Era un complesso di sette fisarmonicisti e abbiamo fatto delle attività: suonavamo nelle balere, ai giardini Reali, accompagnavamo Rita Pavone - che mi ricordo veniva qui alle case popolari a prendere lezioni - e siamo andati a fare il campionato del mondo in Inghilterra e abbiamo anche fatto Primo Applauso e suonavamo anche all'avanspettacolo cominciando a fare la vita. Era bello! Nel frattempo i miei fratelli lavoravano alla Fiat, mentre mio padre - che qui c'era ancora Italia 61 in costruzione - andava coi disoccupati a fare i giardini. Lui lavorava lì e io andavo spesso a trovarlo, poi ho iniziato a studiare e sono entrato in conservatorio."
49) E i torinesi invece come vi hanno accolto?
R.:"Ma no, direi che non c'è stata proprio quella diffidenza... Con qualcuno c'era, ma direi molto sporadica, direi che Torino ci ha ancora accolto molto, molto bene."
50) Mi diceva prima delle case di via Nizza...
R.:"Si, erano case della Fiat, come corso Spezia. Corso Spezia, via Nizza, Lucento e anche Falchera sono zone nostre, praticamente."
51) Posso chiederle per finire se lei ha nostalgia di Dignano?
R.:"Dunque, guardi, la nostalgia è di tutti, è di tutti. Al punto che noi tutti gli anni festeggiamo il nostro patrono, che è San Biagio, e ci raduniamo a Torino con tutti i dignanesi che vogliono venire anche dalle vicine città. E tutti gli anni facciamo invece un raduno nazionale dove vengono anche dall'America, dall'Australia, da tutte le parti del mondo dove festeggiamo il nostro patrono."
52) Lei è ritornato a Dignano?
R.: "Si, si, io ho anche delle relazioni ottime con certe istituzioni . Certamente ritornare a Dignano per poterci abitare o per poter riavere la nostra casa è alquanto difficile. Anche loro checche ne dicano sono diventati tutti titini, tutti s'ciavoni, va bene? Perché vedono solo Tito, padre della patria, ma non hanno capito cosa hanno fatto alla nostra gente."
53) Mi sta dicendo che secondo lei chi è rimasto ha fatto questa scelta anche per Tito?
R.."No, no, soprattutto. Io ho dei parenti ancora giù e loro sono rimasti perché erano titini, perché credevano nella libertà, nella libertà dei popoli, nell'abbondanza, in tutto quello che era il vero comunismo, che poi si è rivelato quello che era. Che era poi ancora un comunismo all'acqua di rosa, non era il comunismo russo! Poi, insomma, ci siamo inseriti nella nostra società. E noi, comunque, ricordiamo spesso le nostre terre, abbiamo un giornale nostro dove prendiamo le notizie, e abbiamo 900 abbonati in tutto il mondo, solo dignanesi. E ricordiamo anche la storia di Dignano: c'è chi scrive libri, chi dipinge, mentre io invece, per ricordare il martirio degli infoibati, ho scritto una cantata per soli coro e orchestra che è stata eseguita nel '99 al teatro Carlo Felice di Genova. Ed è una cantata dedicata proprio a questi poveri infoibati, che ha avuto un grande eco musicale. Modestamente mi considerano il musicista degli esuli, per cui noi abbiamo spesso concerti, ritrovi e anche pranzi sociali, solo per ricordare la nostra città."
29/06/2009;
Accessibile
presente in archivio
Archivio Istoreto