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CARTACEO: Intervista a Luigi B.

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Intervista a Luigi B.
Luigi B. nasce a Pola nel 1934. Nel 1946 abbandonare con la sua famiglia la propria città natale a bordo di una nave che, dopo un lungo viaggio, li conduce al porto di Venezia. Dopo una sosta di poche ore nella città veneta giunge a Torino trovando una sistemazione alle Casermette di Borgo San Paolo, dove resta fino al 1953, prima di trasferirisi in un'abitazione privata nel quartiere di Santa Rita, a Torino. Il 1953 è un anno significativo: Luigi B. esordisce nella prima squadra del Torino iniziando la sua carriera di calciatore che lo porterà ad indossare, oltre a quella granata, le maglie di Napoli, Bologna e Atalanta. Oggi vive a Lavagna, dove è stato intervistato il 26 ottobre 2009. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: quando e dove è nato?

R.: "[Sono nato] a Pola il 28 febbraio 1934."

2) Mi può parlare un po' della sua famiglia di origine: quanto eravate, cosa facevano i suoi genitori...

R.: "Ma guardi, mi son già fatto tanto sangue marcio che va ben così! La mia famiglia, come tante altre... Mia mamma io l'ho cominciata a capire quando sono arrivata a una certa età, perché da ragazzo certe cose non le vedi, ma ho visto cosa ha lasciato e allora, veramente, ho capito cos'era per mia madre impazzire o non essere una persona tranquilla. Perché ha lasciato case, ha lasciato terreni per miliardi di roba e allora questa roba qua dico: adesso capisco perché mia madre si è trovata in una caserma divisa quando [invece] aveva cinque o sei case dichiarate ancora lì sui documenti. Capisco cosa ha sofferto, aveva gente che lavoravano per lei. Perché mio padre era un grosso personaggio di campagna, aveva una della campagne più grosse di vigne e quella roba lì, mia mamma invece era di una famiglia che era ricchissima, che avevano tutti i negozi industriali. E quindi ho capito, tardi, perché questa donna aveva sofferto: io non l'avevo mai vista ridere: quando è venuta via da questa città io non ho mai più visto ridere mia mamma. E quando gli ho preso la casa, che era vicino allo [stadio] Filadelfia [a Torino], che avevo preso i primi soldi del contratto e allora le ho preso la casa lì da andare ad abitare, l'ho portata fuori dalla Casermette e ho visto sta donna che era di una contentezza, perché poi lì dentro [al campo] son rimasti ancora anni! Quindi sai avere una casa grande a Pola e si son trovati in una caserma divisa con le coperte, chi fa da mangiare, chi scopa, chi fa le sue cazzate, parolacce e di tutto, allora ho capito perché aveva sofferto. Però si capisce tanto, perché da ragazzo non si capisce niente."

3) Riesce a descrivermi Pola: che tipo di città era?

R.: "Era una città che aveva delle grandi industrie. Intanto aveva il bacino di Scolgio Olivi, che tutte le navi che venivano colpite nel Mediterraneo venivano lì a farsi riparare, che io avevo [anche] due fratelli che lavoravano lì dentro. Poi c'era la Fabbrica dei Siluri, la Fabbrica dei Lucchetti, c'erano tante fabbriche, era tutto sul porto. Poi c'era st'arena che era bellissima...Era una città bellissima, e poi era industriale perché c'era l'Arsenale, c'era tutti i militari di tutte le specie. Io mi ricordo che dove abitavo io c'erano cinque caserme, in mezzo avevamo la caserma della Marina, e c'eran tutti militari: c'era il Battaglione San Marco, c'era i Bersaglieri, c'era la Fanteria, erano tutti militari, perché Pola era un posto, come si dice, di battaglia."

4) E dal punto di vista della distribuzione della popolazione era una città italiana...

R.: "Tutta italiana. Io son venuto via perché mia mamma c'ha un documento scritto dove dichiara [che] in questa casa si parlerà solo ed esclusivamente italiano. Una volta son venuto da scuola, che avevo fatto tre o quattro mesi di scuola, ci avevano messo nelle scuole croate, slave anzi non croate. Perché col croato adesso io ho molti amici, mentre prima con lo slavo non avrei neanche salutato, mi sarei girato di là. Allora, io andavo a scuola, scuola slava, perché ci avevano messo lì, vado a casa e ho detto una parola in slavo a mia mamma. Lei mi ha detto una cosa e io le ho risposto in slavo: mi ha tirato uno schiaffo! E mi ricorderò sempre che mi ha detto con questo dito [con il dito indice]: ricordati una cosa, che in questa casa si parla solo italiano! Mia madre era una persona dura: ricordati che in questa casa si parla solo ed esclusivamente italiano."

5) E i rapporti tra la componente italiana e quella croata com'erano?

R.: "Ah, era la guerra, come Toro - Juve! Solo che lì era un po' più pesante, era veramente guerra. Perché io ho visto una volta un cervello che saltava in mezzo alla strada! A una donna le han portato via il marito, gli ha corso dietro con una mannaia, gliel'ha data in testa e gli ha spaccato la testa in metà! Avevo dieci o undici anni e ho visto sta roba...Ho visto fucilazioni, cioè era un odio proprio...E' sempre stato odio. Io mi ricordo, quando ero bambino, che quando si parlava della gente in campagna, si parlava come l'americano con il negro: noi dicevamo s'ciavo. [Dicevamo]: non parlar con quello che è un s'ciavo, non davamo confidenza, neanche come famiglia. Erano proprio due mondi separati; poi è chiaro che ci sarà stato qualcuno che parlava anche slavo, che sarà stato amico, io [però] parlo di casa mia [dove] questa amicizia non c'è mai stata. Un giorno io esco da scuola, che andavo in terza elementare e avevo un maestro che poi è morto a Vergarolla, che nessuno ha mai parlato di Vergarolla...E allora io vado fuori e mi aspettavano gli slavi - perché una volta si parlava italiano e slavo - , mi hanno aspettato e allora lì ci siamo cominciati a menare. Perché lì c'era sempre guerra: calci, pugni, fiondate. Mi hanno aspettato in sei o sette, e allora poi è venuto fuori il maestro e mi ha visto che ero lì. Mi viene a separare e mi dice: ma allora tu sei italiano?! Come no, maestro, si, si, sono italiano. Da quel momento sto maestro era cambiato da così a così. Che non pensava, pensava che io fossi di una famiglia slava. Io mi menavo con questa gente qui che mi aspettavano fuori, perché già allora io ci tenevo a dire che sono italiano. Molto, io ho sempre avuto questa roba. Io c'ho mia nipote che fa scherma, e le dico - perché questa andrà alle Olimpiadi, si ricordi quello che le dico- quando vai devi sventolare la bandiera bianco, rosso e verde dicendo lo faccio per mio nonno! Ogni tanto si trovavano e c'eran dei pestaggi, che arrivava la polizia da Fiume, da Trieste e da tutte le parti per separare. Che poi la stessa cosa si faceva [tra] Poa e Fiume, Fiumana, quella di Sergio Vatta: eran botte da orbi! Abbiamo fatto botte da orbi anche in Casermette tra noi, eh... Noi polesani con i fiumani non era tanto un buon rapporto. "

6) Quindi tra la componente italiana e quella slava il rapporto era tutt'altro che idilliaco, mi sembra di capire. Ecco su questa situazione secondo lei incidono le politiche portate avanti dal fascismo nei confronti dell'elemento slavo?

R.: "Certo, certo [che c'entra] perché i fascisti, bisogna dirlo, ne han combinate di tutte i colori. Bisogna dire le cose giuste, a me piace dire le cose che ho vissuto. C'è stato sempre odio, però il fascismo aiutava, perché guardi io mi ricordo che cosa facevano i fascisti, perché ero piccolo e queste cose rimangono che non le dimenticherai mai. Non mi dimenticherò mai. Perché poi parlano solo delle foibe, quando dicono la giornata del ricordo. Ma cos'è il ricordo?! A noi non ce ne frega niente di Trieste, proprio non ce ne frega niente! Quanto foibe ci sono in Istria? Le hanno mai contate? Quanti morti c'è lì dentro? Questa è la storia, che mai nessuno l'ha voluta dire! Quanta gente hanno ammazzato? Io una volta sono andato in spiaggia la mattina, che avevamo tagliato la scuola come si fa da bambini. Sono andato in spiaggia e ho trovato un cinquanta cadaveri legati con le mani [dietro la schiena] e chi l'aveva fatto questo? Lì c'era i partigiani, perché io ho avuto due fratelli che erano coi partigiani e sono andati in Germania. Però erano partigiani italiani, e non andavano d'accordo coi partigiani slavi. Mio fratello ogni tanto raccontava, e diceva: noi in bosco mangiavamo patate, loro mangiavano la carne, quindi anche lì [c']era odio. Anche tra camerati."

7) Prima lei mi diceva di ricordare alcuni episodi legati alle azioni dei fascisti...

R.: "Ne han fatte di tutti i colori, ammazzavano gente, bambini, ed è chiaro che poi c'era la rivalsa dall'altra parte, perché poi ci son state cose che io storicamente non mi ricordo, però [ci son state]. Io so che a Spalato, questo sempre per sentito dire da gente più grande di me, c'era stato un massacro da parte dei fascisti che avevano fatto nella piana di Spalato. Poi [c']era odio, e [c']era odio tra fratelli, tra cugini: io ad esempio avevo anche dei cugini che erano fascisti e avevo dei fratelli che erano partigiani. E poi si trovavano di sera, durante il tempo di guerra, la sera a mangiare a casa, perché io ero sfollato a Valle [d'Istria]. E si trovavano la sera a casa di mia mamma a mangiare e bere, poi andavano fuori e si sparavano uno contro l'altro, cose da non credere! C'era dell'odio, devo dire la verità. Io ad esempio son cresciuto con quell'odio là: se lei mi diceva fino a cinque anni fa, vai in guerra contro quella gente lì, io parto subito, anche a piedi, ma oggi non me ne frega più niente, anche perché vado in Croazia e ho degli amici. Che poi vieni grande e si capiscono tante cose, ma anche quando parlo, io vedo che anche lì questo odio c'è sempre rimasto. Io poi sono uno che non ho paura e né che gliele manda a dire e c'ho degli amici, me se mi rompono le palle gli tiro uno schiaffone!"

8) Seppure tra le righe, ne ha parlato prima. Posso chiederle che ricordo ha della guerra?

R.: "La guerra, quanti ricordi ho! I bombardamenti, mi ricordo che andavamo sempre di corsa: io penso che sono diventato un calciatore perché ero sempre di corsa, si correva sempre per andare nei rifugio."

9) Quindi Pola è stata molto bombardata...

R.: "[Pola] è stata molto bombardata: si diceva allora che dopo Taranto [c']era Pola, perché Pola era il bacino dove andavano tutte le navi da guerra, perché c'era anche l'Arsenale di guerra. Pola c'era l'Arsenale e c'è Scoglio Olivi, che adesso si chiama Uljanik mi sembra, e poi sempre nel porto, quando si entra nel porto, c'era la Fabbrica dei Siluri e la Fabbrica Lucchetti e poi c'era anche il Muliino, che faceva la farina e quella roba lì. E poi lì c'era Zona A e Zona B, da una parte la Zona A e dall'altra la Zona B. E mi ricordo che c'era un affare, una trave, e c'era la Zona B, e lì si sparavano uno con l'altro."

10) Dunque le bombe l'hanno colpita molto...

R.: "Le bombe mi hanno colpito molto, perché le prime bombe che son cadute, mi han distrutto la casa e la scuola."

11) Altre testimonianze raccolte mi hanno parlato di un fiorente mercato nero durante la guerra. Lei che ricordi ha in proposito?

R.: "Guardi, la fame no, [non l'ho sofferta] perché i miei fratelli si arrangiavano abbastanza, perché, come dicevo, io stavo vicino alle caserme e avevamo preso un sacco di vestiti e di difese. Allora [i miei fratelli] andavano per le campagne - tutti facevano così - a scambiare: gli davano la farina e il prosciutto e noi gli davamo la roba da vestire. La fame no, non l'abbiamo sofferta. Io avevo due fratelli grandi, poi avevo mio cognato che stava già con noi ed era maresciallo della Marina e quindi aveva i buoni per il mangiare. Io la fame quindi, davvero non l'ho sentita."

12) Però il discorso della borsa nera esisteva...

R.: "Eh si, hai voglia, andavano! Ogni domenica i miei fratelli partivano in bicicletta e andavano a cambiare, e poi la sera mi ricordo che tornavano con le bottiglie d'olio, di vino, di grappa, chi portava un pezzo di prosciutto, di maiale. No, la fame no. Torno a ripetere: io avevo dei fratelli che erano grandi, che conoscevano tutte la zone. Fame si, c'era fame, ma ricordo quando i miei amici mi vedevano mangiare il panino col burro, insomma, ero già fortunato!"

13) Le chiedo ancora un po' di cose sulla guerra. La prima riguarda i tedeschi: lei se li ricorda?

R:: "Si che me li ricordo, cazzo me li ricordo si! Ho visto ammazzare tanta gente dai tedeschi...Ho visto due o tre fucilazioni di partigiani e contro gli stessi fascisti; che i fascisti avevano fatto un casino a Valle, e ho visto quando hanno fucilato tutta questa gente. Poi ho visto una fucilazione a Pola: avevano ammazzato un maresciallo tedesco e loro [i tedeschi] sono andati in prigione e hanno preso venti persone, perché era dieci partigiani per uno di loro, li hanno messi lì su una conchetta, li hanno mitragliati tutti e poi li impiccavano. Son dure a nove anni, dieci anni, vedere sta roba: mia madre mi ha detto che di notte mentre dormivo saltavo sopra il letto come un pazzo! Poi di notte, ad esempio quando ero a Valle, c'erano le sparatorie: c'erano i partigiani che venivano dai boschi e i fascisti erano dentro nelle scuole e si sparavano. Quindi era tutto un mitragliamento, di notte, e non dormivi mai!"

14) Due suoi fratelli, mi diceva, erano partigiani...

R.: "Erano partigiani e son stati deportati in Germania, ma poi son riusciti a scappare. Loro erano partigiani e stavano in bosco."

15) Prima parlavamo delle foibe. Ecco, vorrei sapere se voi ne conoscevate l'esistenza...

R.: "Si, si, sapevamo che nei boschi c'erano anche delle foibe, perché dei cacciatori andavano a prendere i colombi che erano dentro e gli sparavano. Cioè, si sapeva. Delle volte [dicevamo]: è sparito quello lì, chi è sparito? Eh, è sparito Toni... Eh, el g'avran butà in foiba si diceva in dialetto. Quindi le foibe erano conosciute in quelle zone lì."

16) Ecco ma dell'utilizzo che ne veniva fatto eravate a conoscenza?

R.: "No, no, assolutamente, perché poi questo è venuti fuori dopo la guerra. Le foibe...eh, han trovato una foiba, per esempio quella di Pisino... Che quanti ne han buttati là dentro? Ne han tirati fuori un centinaio!"

17) E' una cosa che, dunque, è venuta fuori dopo...

R.: "Si, si, dopo, dopo. Sparivano, e noi si diceva eh, lo avran buttato in foiba."

18) Dunque si spariva...

R.: "Uno alla sera c'era e la mattina non c'era [più], e i familiari dicevano: eh, son venuti ieri sera i s'ciavi e me g'han portà via mio marì, in dialetto. E allora pensavi, non vedendolo più tornare, che l'avevano buttato lì. Oppure lo trovavano ammazzato per la strada. Questa era la cosa."

19) E in foiba secondo lei come mai si finiva. Magari per rancori personali?

R.: "Quello sicuro, anche io parlo con rancore, proprio me lo sento che parlo con rancore. Ad esempio, la cosa di Vergarolla..."

20) Ecco, parliamo di Vergarolla...

R.: "Io e mia moglie tutti gli anni andiamo al duomo di Pola a commemorare, perché finalmente, dopo un po' di anni è venuta fuori Vergarolla. Vergarolla era la festa di una società sportiva, di cui io facevo anche parte: facevo non dico calcio, ma correvo. Lì io ho perso sei cugini, sei o sette cugini: c'eran queste mine appoggiate sulla spiaggia e a un certo punto son scoppiate, e son morte più di cento persone. E c'era anche il mio maestro, c'era."

21) Lei cosa ricorda di quel giorno?

R.: "Di quel giorno il ricordo ce l'ho, perché mi sembra come se fosse stato ieri che uscivo di casa alla mattina con mia sorella, e le dico: guarda, dobbiamo arrivare per le dieci a Vergarolla perché io devo fare la gara; dovevo fare una gara anche io, di podismo. E come siamo usciti, che eravamo nel portone, abbiamo sentito una bomba, uno scoppio bestiale, tremava tutto, finestre e vetri che andavano giù...Niente, poi abbiamo continuato e abbiamo incominciato a sentire le sirene, un casino. E la gente diceva ah, è scoppiata questa roba qua. E infatti dovevamo andare a Vergarolla perché avevamo i nostri cugini che ci aspettavano, e allora siamo andati in un'altra spiaggia a Vancale, che non era lontano e allora arrivavano notizie. Mio fratello faceva parte della polizia inglese, è andato in questa spiaggia, trova mia cugina e le dice: Mirella alzati di là, non vedi che casino che c'è?! Era morta, con la spina dorsale che le era saltata dalla botta, e mio fratello l'aveva presa [credeva] che stava lì ancora a prendere il sole: io ho perso cinque o sei cugini, ma lì ne son morti tanti. Ma poca gente [sa]; proprio i polesani sanno questa cosa, Vergarolla a noi ci è rimasta impressa. Io perché l'ho sentita proprio scoppiare, poi perché avevo dei cugini, avevo dei maestri, avevo degli amici. Ad una festa sportiva, che senso aveva? Come fai a non odiare sta gente, poi? Come si fa a non odiare sta gente?"

22) Parliamo un attimo dell'esodo: lei quando parte?

R.: "Parto che mia madre mi dice: partiamo domani mattina e siamo partiti sempre dal porto di Pola, sulla Toscana."

23) Si ricorda in che anno?

R:: "Nel 1946: eravamo il quinto scaglione, se non mi sbaglio, o il quarto. Ci siamo trovati con mia madre dentro la nave, dove portavano le merci, con una coperta, buttati per terra a dormire. Abbiamo fatto tre giorni [di viaggio] per arrivare a Venezia, perché ogni tanto dicevano: stiamo facendo attenzione alle mine, perché [c']erano le mine nel golfo, quindi piano piano, nebbia, un casino, una paura della Madonna! Finalmente siamo arrivati a Venezia, e lì ci hanno beccato con gli insulti. Bella roba questa, eh?"

24) Ma chi vi beccava, i portuali?

R.: "La gente, tutta: ci riempivano di tutto! Fascisti, cosa venite qui a prenderci il lavoro! Era triste sta roba, eh...Molto triste...Poi mi son trovato sul treno che mi han portato a Torino. La destinazione era Torino: ti mettevano un affare [sul petto] come quelli che erano in campo di concentramento, una scritta, Torino-Casermette. Arriviamo a Torino, camion e Casermette."

25) Tornando a parlare del viaggio, posso chiederle che ricordi ha del suo viaggio a bordo del Toscana?

R.: "Tristi, eh dormire per terra... Anche paura, perché era buio, ed io ero un bambino: quando andavo sulla coperta a vedere cosa succedeva perché sentivo dei rumori, poi avevo paura che scoppiasse una mina e mi dicevo: io mi butto in mare! Che non ero un bambino tanto tranquillo, eh! Mi buttavo in acqua e nuotavo!"

26) E si ricorda l'atmosfera che si respirava a Pola in quei giorni?

R: "Tristezza, tanta tristezza: coma si fa a non essere tristi? Vedevi gente che piangeva, che lasciava la casa. Mia mamma che piangeva come una pazza [e che diceva]: lascio la casa, dove vado, senza niente?"

27) Era dunque una città che si svuotava...

R.: "Infatti han fatto un film, La città fantasma, se non mi sbaglio."

28) No, la Città dolente, di Mario Bonard...

R.: "Io sono tornato con mia moglie nel 1960, che ero molto amico di Vucas quando giocavo nel Bologna. Siamo stati invitati, perché lui aveva giocato nella [nazionale] europea, e Tito gli aveva fatto un regalo e mi aveva invitato anche a me. E siamo andati a Spalato e Tito era a tavola con noi, Tito e la Jovanka e a Spalato c'era l'erba per le strade, c'erano ancora i negozi sbarrati con i legni, era una tristezza e mia moglie ci era rimasta proprio male. Cara, [le ho detto], qui c'era 55.000 persone, ne son rimaste 2.000 le altre [sono andate via]."

29) Al momento dell'esodo, lei era un bambino e quindi si è trovato a seguire quelle che sono state le scelte della sua famiglia. Posso chiederle, secondo lei, quali sono stati i motivi che hanno spinto la sua famiglia a partire?

R.: "Non si voleva parlare slavo, questo era uno dei motivi. Non accettavamo di essere sotto Tito."

30) E la paura ha inciso su questa scelta?

R.: "No, ma la paura era loro, perché dicevano noi veniamo giù e comandiamo noi e vi ammazziamo tutti. La stessa cosa che facevano i fascisti che dicevano ah, tu ce l'avevi con me e io ti ammazzo. Ma che cazzo di ragionamento è !?"

31) Una minima parte di popolazione italiana, e lo accennava prima, è invece rimasta. Secondo lei perché?

R.: "Ma, gente anziana che non aveva voglia di lasciare la casa [e che diceva] dove andiamo? C'è molta gente che è poi tornata lì entro l'anno, che non si trovavano: gente che è andata a Milano e che poi è tornata; io ho degli amici che son tornati. Io se avessi avuto non so, vent'anni, non so se venivo via."

32) Sul fatto di restare ha inciso secondo lei anche una componente politica?

R.: "No, no, era il motivo che uno non lasciava la casa. Mia madre non avrebbe mai lasciato la casa: dove vado? Senza niente, sena né mobili né niente, lasciando tutto quanto lì. "

33) Lei ricorda l'ingresso dei titini a Pola?

R.: "Una mattina mi sono alzato e ho trovato i titini, con le mitraglie per la strada, che tu uscivi e andavi direttamente a scuola. La stessa roba quando sono arrivati i tedeschi. Sentivi e vedevi tutti questi con la stella rossa... Noi non abbiamo mai accettato il comunismo di Tito. Poi, è stato il primo ad andare contro Stalin, e se si presentava così, forse non andava via la gente."

34) Lei prima di partire, passa dall'Italia alla Jugoslavia, vedendosi dunque catapultato in un mondo nuovo. Cosa cambia?

R.: "C'era un po' di carestia: insomma, nei negozi non è che trovavi tutto. In più, avevi ancora di queste minacce... Che poi non eran tutti che minacciavano, per l'amor di dio, perché bisogna sempre distinguere tra l'imbecille e quello che è un po' più imbecille dell'altro. Però noi non ci faceva piacere stare e parlare slavo. Almeno, io parlo per me: a me parlare slavo, proprio non mi è mai andato."

35) Torniamo al viaggio. Parte, arriva a Venezia e mi diceva che l'accoglienza è stata brutta...

R.: "Ma tutti! Quelli che son passati da Bologna ancora peggio, gli han tirato anche dei sassi! Almeno detto così dai nostri compaesani. E anche Torino non è che ci hanno accolto bene, dicevano tutti: eh, son venuti questi qui, chi sono, fascisti? Perché sa, Torino era tutta rossa allora. E, insomma ragazzi..."

36) Lei arriva a Venezia e poi...

R.: "E lì c'era già il treno pronto [per Torino], come quelli che andavano in Germania, la stessa roba."

37) Quindi da Venezia arrivate poi a Torino...

R.: "Direttamente a Torino, nel 1946."

38) A Torino va alle Casermette. Che ricordo ha del campo? Riesce a descrivermelo?

R.: "Oh il campo, belin il campo... Come entravi c'erano due caserme dove c'erano gli uffici e la polizia, che da una parte abitavano e dall'altra c'era l'altro. Poi andavi dentro e c'era delle grandi distese e in fondo c'era il campo di calcio, me lo ricordo come fosse qui. Che da una parte, quando si entrava, c'era una grande palestra dove si andava a prendere da mangiare. Poi c'erano cinque caserme, con le scale davanti che poi la sera ci si metteva lì a chiacchierare. Poi andavi dentro, ti guardavi, ti davano una corda e ti dicevano: mettete le coperte e dividete il vostro pezzo. Eran dolori, eran dolori veramente: io le prime notti non dormivo, mia madre per l'amor di dio! Poi dovevi sistemarti, [dicevi] va bene lì faccio da mangiare, mentre poi il bagno era lì in fondo...Era triste, era molto triste."

39) Nel campo c'era l'oratorio, il bar, gli spacci... Era una città nella città...

R.: "Si, c'era l'oratorio e la chiesa, che io ho fatto la cresima lì."

40) E la vita quotidiana come la trascorreva?

R.: "La vita quotidiana... Si usciva e partite di calcio: c'era il campo proprio lì davanti dov'ero io, e facevamo partite contro i tunisini, partite contro i fiumani, partite contro i greci...Facevamo partite di calcio dalla mattina alle otto alla sera alle dieci."

41) E cosa mi dice del rapporto coi greci?

R.: "Non eran male, ma noi si andava abbastanza d'accordo; non si andava tanto d'accordo con gli stessi italiani."

42) C'era differenza nel vivere il campo tra un bambino e gli adulti?

R.: "Il campo per noi [bambini] era pesante, perché dovevi andare a mezzogiorno a prendere da mangiare, a fare la coda perché dovevi prendere da mangiare. E certo che per i genitori è stato peggio, molto peggio [che per noi]: immagini andare a prendere con una gamellina da mangiare."

43) Posso chiederle come mai ha scelto do venire a Torino?

R.: "Allora, a Torino son venuto perché mio fratello, lavorando nel cantiere, aveva scelto Torino: era un meccanico e quindi [l'aveva scelta] per la Fiat o per la Lancia, per questa roba qui. Poi mia sorella è venuta a Genova in Manifattura Tabacchi."

44) A Sestri, dove c'era la Manifattura Tabacchi...

R.: "Si, perché si tenevano il posto e le davano il posto; poi si doveva sposare con questo marinaio che era della Sardegna e quindi aveva il posto anche lui in capitaneria e quindi son venuti là e si son sposati poi a Genova. E miei fratelli e mia mamma son morti tutti a Torino. "

45) Quindi secondo lei la destinazione si poteva scegliere...

R.: "No, no, si poteva scegliere; almeno mio fratello, mi ricordo che diceva: io son meccanico e ho scelto di andare in fabbrica; non avevano molte scelte, eh!"

46)Parliamo un attimo dell'accoglienza. Poca fa mi ha detto che a Torino non siete stati accolti bene...

R.: "Ma, ma neanche male. Era piuttosto fredda [la gente]; cioè, come si dice, ci hanno studiato, poi ci hanno apprezzato. [Ma prima] ci hanno studiato, non è stata poi un gioia subito. Subito dicevano: ah, vengono qui e ci portano via i posti di lavoro. Invece poi ci hanno apprezzato perché han visto che le gente era lavoratrice; e difatti a Torino i più bei posto, oggi, ce li hanno i figli nostri. Cioè, ce lo siamo costruito: non siamo andati né a rubare, né a rompere i coglioni alla gente."

47) In campo voi ricevevate qualche tipo di assistenza?

R.: "Io non mi ricordo, non mi ricordo. Però ci sarà stato."

48) Lei diceva di essere stato accolto male...

R.: "Ma non male, erano freddi! Perché la gente, giustamente, arriva questa gente e magari avevano paura di perdere il posto, però poi han capito che eravamo gente [a posto]: poi ci si conosceva, si parlava, ti facevi il fidanzato, poi magari avevi l'amico te che lavoravi, parlavi... E allora gli facevi capire che non siamo andati là per rompere le palle alla gente, ma siamo venuti per lavorare. E allora ci siamo fatti, però piano piano. E infatti oggi mi risulta che a Lucento c'hanno tutto i miei compaesani: c'hanno un bar che si trovano, si frequentano, c'hanno una sede. Insomma, poi son stati apprezzati perché, torno a ripetere non hanno mai fatto stupidaggini. Cioè, arriva il terrone e magari - si sentiva - capitava che ti va a violentare la persona, va a rubare. Degli istriani no, non hai mai sentito sta roba. Perché saremo stati noi i primi a [punirli]; perché noi ci piace le persone che fanno il loro dovere. Almeno, io sono uno testa matta, perché io nel calcio se avessi dato retta a certa gente avrei fatto molta più strada, però non mi è mai piaciuta la parola rubare, non mi è stata inculcata. Io vado volentieri giù nel mio paese, anche se ci sono i croati, però c'è la disciplina, non è che fai casino."

49) Lei prima mi diceva che siete stati studiati. C'è però un grosso stereotipo, sbagliato, e cioè quello di essere considerati fascisti...

R.: "Ma questo dappertutto. Io una volta ho saltato la rete al Filadelfia, perché avevano dato un calcio a mio fratello. Io l'ho visto e mi hanno dato cinque mesi di squalifica. Ho saltato la rete, l'hop preso e l'ho buttato giù. Fascista... Ma che fascista, cosa c'entra il fascista? Noi siamo venuti via perché non volevamo accettare il comunismo di Tito, punto e basta. Se lui si presentava, e questo lo dico che non sono un politico, per bene io ero ancora lì di sicuro perché i miei non venivano via. Invece dicevano: veniamo lì, se non parlate slavo vi ammazziamo! Hanno terrorizzato la gente, e allora si scappava."

50) Parliamo ora dell'integrazione nella città. Quali sono state le chiavi che vi hanno aiutato?

R.: "Ma, senz'altro il lavoro, poi ci hanno conosciuto. Poi tutta la nostra gente giocavano a calcio e per questo hanno fatto molta amicizia con la gente di Torino. Perché c'era la squadra del Pino Maina che c'eran tutti fiumani, poi c'era un'altra squadra della Posta che giocava anche mio fratello e che giocavan tutti. E quindi l'integrazione è stata conoscerci, han capito che eravamo gente alla buona che ci piaceva la compagnia, mangiare, bere e far casino e quindi ci si è integrati. Poi anche andare a ballare. Io qualche volta andavo, ma non ero capace! Andavamo in giro, da tutte le parti: Cenisia, Borgo San Paolo, Borgaro. No, ci si muoveva bene. Eravamo additati come gente che era fascista che era venuta lì, ma sempre perché la politica era sballata, non puoi dire certe cose."

51) Prima parlavamo del lavoro. Molti giuliani sono andati a lavorare nelle fabbriche. So anche che in campo profughi c'era don M. che aiutava l'inserimento...

R.: "Io quando giocavo nel Torino avevo delle amicizie alto locate, non so gente che era alla Pirelli, alla Michelin, alla Lancia. E allora gli dicevo: guarda che c'è un mio amico, e se c'è la domanda mettila sopra anziché sotto, ma a livello di amicizia. Quanta gente ho aiutato a entrare a lavorare? Infatti quando arrivavo o col Bologna o col Napoli a giocare, io finita la partita avevo cinquanta profughi dietro di me, che poi andavamo a mangiare ed è chiaro che pagavo io. Festa per tutti! Io c'era un periodo che quando giocavo e prendevo i premi, era festa per tutti i miei amici."

52) La sua carriera com'è andata, la ripercorriamo un attimo?

R.: "Subito al Toro."

53) Ma lei a Torino ha lavorato oppure ha subito giocato a calcio?

R.: "Io son stato licenziato sette volte: dove andavo mi cacciavano via, perché io quando c'era allenamento le dicevo che andavo a lavorare e il padrone mi diceva ah, se vai a fare l'allenamento non venire più. E io dicevo: allora non vengo più! E non tornavo più. Perché mi dicevano: prima il lavoro e poi l'allenamento e io invece volevo prima giocare. Poi il Torino mi ha dato un posto da un tifoso del Torino, che poi avevo portato anche degli amici a lavorare lì."

54) Ma questi lavori erano in fabbrica?

R.: "Fabbriche, si. Ho fatto bulloni, poi ero in una fabbrica di biciclette che si facevano i raggi, ho girato un po' di posti. Solo che se mi davano il posto per fare l'allenamento andavo, se no io scappavo subito."

55) E quando ha iniziato a giocare nel Torino?

R.: "Nel '46-'47, il Torino vecchio era ancora vivo. Ho iniziato con la juniores e poi sono arrivato alla prima squadra nel 1953. La prima partita è stata nel '53. Poi sono andato a Bologna, al Napoli e all'Atalanta. Poi avevo quasi smesso per uno strappo e non riuscivo più a guarire. Poi ho fatto l'allenatore, ma giocare avrò perso dieci anni di serie A. Purtroppo capita, son cose che capitano, si, si. "

56) Senta, posso chiederle cosa rappresentava allora, in quell'Italia, il calcio?

R.: " Tutto. Poi il Torino... Il Torino era il Torino. Il Torino era il Toro eh! Poi avevamo delle persone nostre: c'era Grezar che era triestino, c'era Loik che era di Fiume e quindi."

57) E c'era un rapporto tra loro e gli esuli?

R.: "Si, c'è sempre stato. Noi quando andavamo al Filadelfia si conosceva un po' tutti. Io ho frequentato il Filadelfia che ero bambino, poi sono andato a giocare. Però siamo sempre lì: quando sei qualcuno ce li hai tutti in giro, quando smetti non vedi più nessuno."

58) La sua famiglia è stata alle Casermette fino a che anno?

R.: "Fino al 1952 -1953, poi hanno avuto le case della Fiat al Lingotto. A mio fratello gliel'hanno data al Lingotto, perché lavorava alla Fiat. Io a Lucento non avevo alcun familiare, abbiamo fatto da soli la nostra strada."

59) Posso chiederle qual è stato il suo impatto con Torino?

R.: "Torino è una bella città, più che altro è però stato il carattere. Eravamo molto differenti dai tornesi, però io ho visto che con Torino abbiamo avuto subito un bell'impatto, specialmente con le donne, perché molta gente si è sposata con le torinesi. Io ho tutti i miei amici sposati con delle torinesi. Poi ti frequenti, ti conosci e rompi il ghiaccio, perché quando poi ti conoscono... Difatti adesso quando vado in Istria trovo sempre più torinesi che polesani. Ma poi tutti: ad esempio tutti quelli che lavoravano alla Fiat, si son tutti sposati con una torinese."

60) Lei ha nostalgia di Pola? Le manca?

R.: "Io sono innamorato della mia terra, io sono uno che mi può far tutto quello che vuole, ma io all'estate devo andare lì. Torno sempre, io tutti gli anni torno. Io è dal '60 che torno tutti gli anni. Adesso appena sono uscito dall'ospedale, ho voluto che mi portassero giù. Perché io non posso guidare e mi han portato giù."

61) L'ultima domanda è questa. Lei trasmette e racconta le sue esperienze di esule alle nuove generazioni?

R.: "Si, si. Difatti tutti i miei figli, anche loro d'estate vengono giù. Mia moglie è genovese e anche lei tutti gli anni come le dico partiamo è tutta contenta. E anche i nipoti. E io gli racconto anche le storie, che delle volte mi guardano come dire è vero o non è vero? Purtroppo è vero, e voglio fargli capire questa cosa. Voglio fargli capire che la vita che abbiamo avuto noi loro non l'hanno avuta. E' stata dura è stata. Più che per noi che eravamo ragazzi, per i nostri genitori."
26/10/2009;


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Miletto Enrico 30/10/2009
Pischedda Carlo 04/11/2009
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Come citare questa fonte. Intervista a Luigi B.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD14191]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019