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Intervista a Selina S.
Nata a Biella nel 1926, si trasferisce pochi giorni dopo a Rovigno dove raggiunge il padre direttore dell'Istituo di biologia Marina. Resta nella città istriana fino ai giorni precedenti l'8 settembre 1943, data nella quale il padre, per il timore delle ripercussioni jugoslave, abbandona il centro e la sua direzione. Si trasferisce a Biella dove vive attualmente. Intervista e trascrive Enrico Miletto
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nata?
R.:"Io? Io sono nata nel convento di San Gerolamo, anzi è un monastero perché era di frati non di monache, il 12 ottobre del 1926. Circa quattrocento anni dopo la scoperta dell'America!"
2) E questo monastero dove si trova?
R.:"Eh, a Biella! E' una collina che domina la fabbrica Sella, che è sotto sulla collina del Cervo. E da quando Napoleone aveva scomunicato i conventi, li aveva espropriati, è stato acquistato dalla famiglia S. ed è diventato la sede di un ramo della famiglia di Giuseppe V. che era il mio bisnonno. Quindi era la casa di famiglia e sono nata lì."
3) Ecco, a proposito della sua famiglia di origine. Mi può parlare dei suoi genitori?
R.:"Si, si, posso, posso. Allora, la mia famiglia di origine... I miei genitori, perché quello è il cuore della famiglia, la famiglia nucleare. Mio padre era... E' una storia un po' lunga però, bisogna che lei a un certo punto mi fermi... Allora, mio padre era l'unico maschio di quattro figli, di Carlin S. e Clara P.. Clara P. era la figlia del medico condotto di Candelo, un paese qui vicino, [mentre] Carlin era il primogenito dei maschi della famiglia, figlio di Clementina e di Giuseppe V., quello che aveva preso possesso di San Gerolamo. Naturalmente in quel momento la famiglia era prettamente industriale per la lana: la fabbrica di Ponte Cervo, di Biella, era stata una discesa a Valle da Valle Mosso. L'origine della famiglia era Valle Mosso. Però nella famiglia c'erano già stati dei medici, avvocati e preti: non era solo industriale e commerciale e comunque, da questo momento, San Gerolamo era sede della famiglia, e Carlin era quello che gestiva la fabbrica. Se mi posso anche dilungare... Però è pericoloso! Lui diceva sempre dei suoi fratelli, che erano Vittorio il fotografo, Gaudenzio il fondatore della banca ed Erminio l'ultimo, diceva sempre: a van a fer gli espluratur e mi a sun chi che ruio la pulenta! Diceva Carlina. Il figlio Massimo, ed arrivo a mio padre, non ha inteso di seguire la strada dell'industria perché era portato verso la scoperta, le scienze, ed era un allievo di Alfonso S., che era un fisico, figlio di Quintino, fratello di Giuseppe V.. E in seguito a questa sua devozione ed ammirazione verso questo cugino aveva deciso di andare a studiare scienze naturali a Roma, cosa che infatti ha fatto, ha puntualmente fatto. Allora lui non era un industriale, non lo è mai stato, ed è stato invece uno scienziato e poi verrà il momento di dire come è andato a Rovigno. Ha sposato Edwige M. che era la figlia, una delle due figlie, di Guido M., un imprenditore edile della Valle Cervo. Io non so se lei sa come nella Valle Cervo la massima parte degli uomini, delle persone, erano originalmente muratori o picapere per via delle cave, e poi diventarono impresari e sono andati in giro per il mondo. Tanto è vero che molto spesso le donne della valle erano famose per restare a casa da sole e gestire la famiglia, l'orto, i polli, le vacche, i figli. E quindi erano donne piuttosto risolute, energiche, camminavano su per le valli, eccetera. Questo per dire praticamente la cultura della Valle di mia madre, a Quittengo, dove tra l'altro lei è stato. Allora, intanto Massimo si è invaghito di Edwige, e viceversa, che veniva ospite lì della Valle: si sono conosciuti presso una di queste famiglie, parenti, tra l'altro che dopo aver fatto i denari in giro per ilo mondo aveva costruito una grossa villa nella valle, e si sono poi sposati. Quindi io sono nata da un uomo che veniva da una famiglia acculturata, oltre che industriale, ma che aveva scelto la scienza, e da una donna che era nata nell'ambito di una cultura particolare, quella della valle. Questa piccola valle ristretta, con la sua atmosfera un po' chiusa delle donne che lavoravano in casa e anche fuori. Ma io ho sempre pensato questo: che mio padre, sposando una persona di quell'ambiente, abbia manifestato da subito la sua non convenzionalità. Mentre le sue sorella hanno sposato uomini importanti, o per soldi o per censo, a lui non importava niente altro che la genuinità della relazione e del rapporto. C'è un piccolo episodio della loro fase pre fidanzamento, quando in questa villa di Roreto dove si sono conosciuti, che c'era tutto un gruppo di persone benpensanti e borghesi, eccetera, e c'era Massimo, mio padre, che leggeva un libro su una sedia a dondolo, su un marciapiede che era vicino alla casa e loro erano fuori che prendevano il the. A un certo punto, questa sedia a dondolo è andata troppo vicino al bordo e lui è caduto giù. E allora mia madre pare che abbia riso di questa cosa, e a lui è piaciuto molto che lei abbia riso, l'ha trovata genuina e autentica. Come anche quando andava sulle giostre, lui vestito con una camicia, un po' scamiciato invece che con i vestiti dell'Ottocento o del principio del Novecento, le tirava la stelle filanti. Cose un po' così, di altri tempi, ma d'ogni modo autentiche e sincere. Ecco, questa è la storia."
4) Benissimo. Allora, lei prima mi ha detto che suoi padre è andato a Rovigno. Arriviamo così a parlare del nocciolo della nostra intervista, vale a dire Rovigno e l'Istria. Io volevo quindi sapere quando suo padre si trasferisce a Rovigno e come mai...
R.:"Saltiamo un periodo della vita... Quando questi qui si son sposati, hanno avuto tre figli, e io sono l'ultima, dopo quattordici anni dal mio primo fratello e dieci dal secondo. Allora, l'avventura di Roma non è finita con lo studio, ma lui è diventato assistente del professor G., che era questo scopritore del ciclo della malaria, e poi è venuta la guerra eccetera. A un certo punto ha poi preso anche la libera docenza A Roma, però poi probabilmente c'è stato un bivio nella sua vita. Un bivio nel senso che lui aveva le carte in regola per seguire una strada accademica e diventare docente a Roma, oppure andare in America perché era stato invitato dalla Rockefeller Association per mettere su delle campagne antimalariche perché era particolarmente esperto in quello. A quel punto lì, da Rovigno, gli è venuta l'offerta di [diventare] direttore di questo Istituto di biologia marina. Era il 1923. E lui ha accettato, è andato in questo avamposto, che era l'Istria, per prendere la direzione dell'istituto. Io non ero ancora nata, perché sono nata nel '26, [ma] so dalle storie familiari che abitavano - anzi anche io ho abitato - all'Istituto, nel piano in alto. In realtà, che io sappia, è nel '24 che proprio preso in mano la direzione [dell'Istituto]. Ecco, questa è la storia."
5) Suo padre diventa direttore di questo centro di ricerca marina di Rovigno nel 1924. E fino a quando sta a Rovigno?
R.:"Fino al 1943, vent'anni."
6) Lei, quindi, ha dei ricordi più o meno vivi della città di Rovigno...
R.:"Oh, si, si."
7) Ecco, che tipo di città era? Riesce a descrivermela?
R.:"Beh, intanto bisogna dire che io all'epoca la posso ricordare solo con gli occhi di bambina e di ragazza, anche se poi sono tornata sempre a Rovigno. Quando stava a Venezia vi abbiamo anche passato delle vacanze estive, e poi viaggi, sono sempre andata. Comunque Rovigno, da quel che io ricordo della mia infanzia, posso solo ricordarla, come posto, attraverso le fotografie di mio padre, e dei miei ricordi più recenti, di quando sono andata dopo a Rovigno. Beh, io penso che... Ecco, per cominciare posso dire questo, e questa è la caratteristica di questo tipo di incontro, che smuovono delle memorie, un po' come le soluzioni che tengono le sostanze a depositarsi sul fondo e bisogna scuotere il recipiente perché riprendano a girare... Comunque... Quando sono andata per la prima volta a Rovigno, e questa impressione è durata molte volte, e forse dura sempre, quando arrivando dalla strada di Trieste si comincia a vedere, da lontano, il campanile di Rovigno, che svetta su Rovigno vecchia, sul suo colle, è stata un'impressione fortissima, perché direi che quella forse è l'immagine: questo campanile in alto che, naturalmente aveva un effetto e un impatto emotivo molto forte. E lì ho avuto questo pensiero e quando sono andata per la prima volta non era ancora così libero l'accesso A Rovigno, bisognava avere dei permessi, ma non era solo quello...Era che un passato chiuso per me, come se io avessi avuto dalle idee un permesso di accesso. Ho proprio formulato questo pensiero, di poter andare a vedere i luoghi proibiti oramai, e non so come dire. E' una questione interiore ovviamente... Di poter visitare, un po' come Orfeo, che però poi ha perso Euridice, e forse anche io un po' mi son voltata un po' troppo a guardare Rovigno in seguito, e si è un po' persa questa qualità misteriosa e arcana di una città perduta, di un luogo perduto per sempre, perché quella Rovigno è un luogo perduto per sempre. Come Ignazio era morto, sapete, quella famosa poesia si Garcia Lorca, Il lamento per la morte di Ignazio, che finisce dicendo che tu sei morto per sempre. Un sigillo, come tombale: quella Rovigno è morta per sempre. Abbiamo le fotografie."
8) Ecco, le fotografie di suo padre. Documenti straordinari, perché rappresentano una testimonianza vivissima di quella che fu Rovigno. E la mia domanda relativa a Rovigno, era intesa anche relativamente a queste fotografie. Volevo cioè capire da lei se, nella percezione di una bambina all'epoca, o anche attraverso i racconti che le sono stati fatti negli anni successivi, riesce a descrivermi che tipo di città fosse Rovigno non so, ad esempio anche da un puntoi di vista economico?
R.:"Eh, questo non glielo so dire, però gli aspetti che ha descritto prima posso dirle. Anche dei ricordi di bambina, di ragazzina. Perché tenga conto che io sono stata portata in fasce a Rovigno, nel '26, e per quattordici anni ho vissuto praticamente sempre a Rovigno, ho fatto le elementari e, allora non c'erano le medie, c'era l'istituto tecnico. Io poi però sono andata a Biella perché mio padre voleva che io facessi il liceo classico. Però fino a sedici anni, sedici-diciassette, io sono andata a Rovigno. Allora, lei mi domanda che tipo di ambiente era... Questo è molto interessante, perché Rovigno è stata austriaca fino alla precedente guerra mondiale e dopo è diventata italiana. Prima ancora era stata veneziana; insomma, aveva subito molti passaggi, per cui era multietnica e multiculturale. E l'Austria-Ungheria, aveva lasciato una grossa impronta, io credo. Era una cittadina elegante, anche nelle figure dei suoi personaggi importanti: c'era il dottor B., medico condotto, il dottor Z., direttore dell'ospedale, l'avvocato M., tutti amici di famiglia. [C'era] poi anche la baronessa H., proprietaria di nove isole ed interi terreni, che era tedesca e che fu tragicamente uccisa alla fine della guerra, di questa ultima guerra. E questo ha creato un ambiente di una certa qualità culturale e di eleganza. Noi eravamo fortunati perché noi vivevamo in questo strato sociale del direttore dell'Istituto, però questo lo so, e lo posso testimoniare da allora, che la popolazione slava non era trattata bene dagli italiani e dal fascismo. Io poi ho avuto modo adesso di andare in giro per la campagna e parlare, ammettere anche questo ed ottenere delle dichiarazione di persone che hanno avuto dei parenti. Ma allora, col senno di allora, ricordo benissimo non che la nostra famiglia trattasse male, anzi abbiamo sempre avuto - e questo è un altro aspetto della cultura familiare - un non conformismo, un'identificazione anche con gli altri e non solo con la nostra cosiddetta classe, classe sociale borghese. Anche se questa non possiamo negarne la realtà, perché sarebbe troppo camuffarsi. Ebbene, io ricordo che venivano chiamati i s'ciavi, gli schiavoni: già allora c'era un certo disagio, ed erano nettamente separati dalla popolazione costiera, perché loro vivevano soprattutto nell'interno. Venivano dentro, e del resto avete le fotografie di mio padre, venivano in città per lavorare: gli scaricatori di bauxite, i contadini che venivano a vendere le loro frutte e verdura e forse non so se lavorassero anche nella Fabbrica Tabacchi, questo non lo posso dire. Però si, facevano, in sostanza, i lavori più umili, e il fascismo certamente ha avuto una pessima conduzione dei rapporti politici: era obbligatorio parlare l'italiano, e questa gente aveva la madrelingua slava quindi, ecco, questo era un aspetto. L'altro aspetto è quello che ho cercato di descrivere prima, che era quello di questa cultura più internazionale che derivava dalla precedente nazionalità. E poi si aggiungeva a questi miei ricordi il fatto che per qualche misteriosa ragione che io non saprei dirle, Rovigno era anche sede di una visita annuale di due navi da guerra, di cui era, diciamo il capo, la persona importante, Thaon De Revel, detto il duca del mare. E allora io da bambina provavo per questo duca del mare un senso di grande stupore. Per cui venivano fatti dei rinfreschi in onore del duca del mare, e mi ricordo che io ero piccola e c'erano tutte queste persone che bevevano dei liquori e io una volta avevo bevuto i fondi dei bicchieri ed ero stata anche aspramente sgridata da mia madre e, quella volta chissà, mi ero anche seduta sotto un tavolo... E c'erano anche questi rinfreschi importanti. E cos potrei dire altro? Che c'era anche il famoso Ospizio marino, dove io fui operata di mastoidite a dieci anni, che era retto dal dottor Z., un personaggio molto noto e importante a Rovigno perché aiutava e favoriva la colonie marine, tutti questi aspetti anche sociali. E sono persino stata l'altro anno, invitata da Marino B., che lei conosce, a Rovigno, perché c'era stata la transazione delle ceneri di questo dottor Z. da non so quale città italiana al cimitero di Rovigno, perché lui voleva essere seppellito a Rovigno. E questo mi fa venire in mente un particolare, in associazione ai cimiteri, che un nostro cugino primo, un cugino primo di mio padre, Ettore B., figlio di una sorella di mio nonno e perciò cugino primo di massimo, era venuto a Rovigno per lavorare all'Istituto ed era morto di polmonite l'anno in cui sono nata ed è seppellito a Rovigno. E questo per dirle anche questi forti legami tra Rovigno e noi."
9) Lei ha anticipato la mia domanda, nel senso che io volevo parlare del rapporto tra la popolazione e cioè tra la componente italiana e quella croata: in base alle molte interviste fatte e a quanto ho letto, io credo che si possa fare una considerazione. E cioè che c'erano due mondi separati, quello italiano da una parte e quello slavo dall'altra...
R.:"Si, penso proprio di si. Già come ho detto io penso proprio di si. E venivano in contatto per queste ragioni di lavoro più umile attuato dagli slavi. E credo che le fotografie di mio padre di Rovigno, illustrano questo. Se le considera tutta la saga degli uomini rossi, i diavoli rossi della bauxite, i quali venivano per la maggior parte dall'interno. E difatti, per esempio, mi viene in mente una fotografia in cui c'è la madre di un di loro vestita come... Si capisce che era un costume originario, anche se semplicissimo, che aveva portato un secchiellino con da mangiare e c'è il figlio che mangiava la pastasciutta o la minestra o quello che era. Oppure quando lei considera quelle donne che venivano con tutte quelle fascine di legno... Non so perché portassero queste fascine, le portavano a Rovigno per bruciarle, per fare i fuochi, si vede. Camminavano altere, come mitologiche, quasi".
10) Potremmo dire, secondo lei, che la componente italiana, soprattutto, come ricordava prima, quella che frequentava la sua famiglia, poteva essere considerata una sorta di élite?
R.:"Eh si, era un'élite. Erano quelli che si chiamavano i maggiorenti della città: eravamo amici del podestà e la moglie era molto amica di mia madre, mia madre era diventata presidente della Croce Rossa, io ero amica intima - e lo sono stata fino alla sua morte, perché è coetanea - della figlia di questo podestà. Ecco, per dirle un altro esempio, che è un altro tipo di divisione... La mia famiglia è sempre stata antifascista: mio padre sempre, non c'è stato cambiamento di rotta, perché lui aveva subito valutato, aveva subito valutato la cattiva qualità del fascismo. Come aveva valutato la qualità del comunismo reale in Russia, un totalitarismo, ecco. E le conto una vignetta: questa mia amica, Atonia si chiamava, Atonia detta Lella, eravamo compagni di scuola, e lei era fascista, perché suo padre era podestà e allora viveva in quell'ambito. E lei diceva: viva il duce! E io dicevo viva il re! Tanto per dirle che poi c'erano anche i fascisti e gli antifascisti, oltre che gli slavi e gli italiani. Io allora non ne sapevo niente, ovviamente, però sentivo, orecchiavo."
11) Il fascismo in Istria porta avanti un'opera di italianizzazione...
R.:"Italianizzazione nel senso di cercare di soverchiare la popolazione locale imponendo con mezzi forti, si, si."
12) Io credo che con gli occhi di un bambino tutto ciò non si può interpretare, però magari lo si vede. Lei prima mi parlava dell'obbligo di parlare italiano o di alcune conversazioni con avute la scorsa estate con alcune persone dell'interno. Si tratta di un ribaltamento dei valori di cui poi, anni dopo, si servirà in senso contrario anche Tito relativamente ai rapporti con la componente italiana.
R.:"Si, forse posso dirle quello che mi ha fatto venire in mente quanto lei dice. Quello che le ho raccontato prima, viva il duce, viva il re, è puro automatismo infantile: cioè io non sapevo niente, e il re mi sembrava rappresentare una cosa che stava contro il duce, non so, e quindi mi allineavo con la mia famiglia ma così, automaticamente. Dall'altro lato io posso ricordare benissimo, ma così, col senno di poi, di vere subito anche io la propaganda fascista. E adesso le devo raccontare anche io una piccola storiella. Un anno, forse avrò avuto dodici anni, era venuto in visita a Rovigno Achille Storace. E allora [ci fu] un grande traffico nella scuola, perché si facevano le adunate. Ero piccola italiana, con la mantellina, e mi piaceva molto, con le borchie... Sa, ai bambini quelle cose piacciono! E allora ero stata prescelta dalla scuola, in realtà, sospetto, in quanto figlia del professor S., a portare il gagliardetto, e dovevano scendere dalla scuola che un po' in alto, per la via Roma, al seguito di Storace, come avanguardia. Dovevamo essere allineate per tre, e io dovevo portare il gagliardetto, per dirle come l'influenza si esercitava sui bambini. Si doveva portarlo: il gagliardetto era un'asta che si infilava nella cintura, e si teneva col dito, ed io ero in mezzo con questo gagliardetto. A un certo punto, questo per dirle il contrasto con la cultura familiare, pare che io fossi uscito senza portare un indumento di lana che dovevo assolutamente portare perché recava freddo, ma io volevo essere più bella, non so. Ed erano i mutandoni, lunghi fin qui [dopo il ginocchio], che io odiavo. Arrivata alla metà di questa strada, via Roma, da un sottoportico, un arco, sbuca Eufemia, che lavorava con noi, mi prende per un braccio e mi mostra questo fatto increscioso, e quindi io sono stata tolta e ho dovuto cedere il gagliardetto a una mia compagna e così. E' una stupidaggine, ma per dire anche il contrasto tra me bambina e la mia famiglia che era non conformista e badava al sodo. Tant'è vero che io mi sono poi presa molte volte l'otite e mi sono ammalata in realtà per sfuggire alle regole salutistiche [della famiglia]."
13) Le chiedo di fare un'ultima considerazione sulla componente slava. Prima ha pronunciato un termine, s'ciavo. Lei cosa ci vede dentro questa parola?
R.:"Adesso o allora?"
14) Prima allora e poi adesso...
R.:"Il disprezzo, una categoria di seconda classe, cittadini di second'ordine. Ma in termini anche così, no pensati dalla gente. Perché io ritengo che il pensiero collettivo, gli slogan collettivi non sono veramente pensati dalle persone, vengono ripetuti e basta. Io forse adesso ho esagerato a raccontare troppo, caso mai poi tagli i pezzetti della piccola italiana, perché io non voglio raccontare di me, voglio raccontare l'esperienza di una ragazzina che subiva e come hanno effetto queste culture totalitarie che con questi orpelli, gli stemmi, i gagliardetti e le borchie colpiscano i bambini, la parte infantile della personalità adulta, anche."
15) E invece pensandoci ora cosa ci vede in questo termine?
R.:"Nel termine s'ciavi?"
16) Si, esatto....
R.:"E' più denigratorio che schiavone, che poi vuol dire schiavi, in realtà anche. IO non so l'etimologia [della parola], forse lei lo sa. Forse i veneziani avevano chiamato Schiavonia la costa dalmata, ma non lo sapevo, l'ho immaginato. E quindi da Schiavonia, schiamone. Ecco, una cosa che ricordo che si diceva, e questo lo condividevamo, si diceva che erano un po' crudeli come popolo, gli slavi. E si nominavano gli stocchi, come tagliatori di teste. Ed effettivamente, forse come cultura sono crudeli, forse più di noi, che siamo un po' così, vanagloriosi, ma non lo so, sono cose complesse da raccontare e da pensare. Io vorrei parlare di mio papà."
17) Prometto che ora lo facciamo, ma prima dovevo chiederle un po' di cose! Allora, suo padre lascia Rovigno quando?
R.:"Nel 1943, all'8 settembre."
18) Ecco, mi spiega come mai suo padre va via?
R.:"Ah, è stata una fuga avventurosa! Io non c'ero già [più], ero a Quittengo, tra l'altro. E' stata avventurosa perché lui aveva pianificato di fuggire a bordo di un grosso motoscafo dell'acquario chiamato Belhoe, che è il nome di un animale marino, e non so bene quale, anzi mi fa senior voglia di andare a cercarlo, dopo! L'Istituto aveva due mezzi di navigazione, la sua flotta: il San Marco, che era un peschereccio, ma grande e questo Belhoe. E aveva pianificato di fuggire con una dottoressa tedesca, perché, ovviamente, c'è tutta la storia dell'Istituto Italo- Germanico, e i tedeschi erano nell'obiettivo. Forse qualche altro impiegato dell'acquario o scienziato, non lo so [dovevano fuggire con lui]. Nella notte precedente, si vede che qualcuno ha parlato, hanno fatto saltare in aria questo motoscafo. E allora lui, questa dottoressa e altri, sono partiti in bicicletta e sono andati a Trieste in bicicletta su queste strade che c'erano, molto disastrate allora. Da Trieste poi han preso un treno e sono arrivati a Biella, eccetera. Questo per dirle solo la fuga."
19) Se non sono indiscreto, posso chiederle perché suo papà è fuggito?
R.:"Da Rovigno?"
20) Si.
R.:"Eh, ma era gravissima la situazione! Ammazzavano non soltanto quelli... Cioè, facevano la pulizia etnica in previsione dell'arrivo del governo di Tito! Basta aver letto certi libri per saperlo! Io ho letto anche i libri di Gianpaolo Pansa, che tutti li criticano e che io [invece] ho trovato fonte molto importante e trovo sbagliata la critica. Voglio spezzare una spada:non saranno dei grandi romanzi, però dicono le cose che sono veramente avvenute e, tra parentesi, [ci] sono tutti [i] nomi, [le] date eccetera, non è accademia come note a piè pagina! Ho letto su internet, ho letto i suoi libri e so che c'era come in Italia - non solo nel triangolo rosso - la preparazione per l'arrivo del comunismo reale, e quindi Togliatti è stato bravo."
21) Suo padre è quindi fuggito per non cadere nelle violenze che hanno toccato e colpito la popolazione italiana dell'Istria...
R.:"Si, d'accordo. Beh, mio padre è fuggito perché è stato ben consigliato a fuggire, perché sebbene lui fosse amatissimo da un grande raggio di persone, e anche all'interno perché lui con la campagna anti-malarica era popolarissimo, e quindi non bastava quello, perché non erano le forze interne, ma erano quelli che venivano da Belgrado che agivano per preparare il terreno, e quindi è fuggito per quello. Io non lo so come lui l'abbia saputo, ma per fortuna! Rischiava di andare nella foiba! Le faccio un piccolo dettaglio, le dico un piccolo dettaglio: la baronessa H., detta Barbelis, quella con cui aveva scoperto la miniera dei tartufi nell'interno dell'Istria - che anche questo è un argomento bellissimo - era sfollata con l'aiuto di mio padre a Vigliano Biellese. Lei che era proprietaria di queste isole, friggeva dal desiderio di andare a vedere che cosa succedeva, e nel '46, quando ancora non era stato deciso il destino della Zona A e della Zona B, dell'Italia eccetera, ha voluto tornare. E mio padre - e lo so questo - le diceva: non andare Barbelis! E' pericoloso! Lei è andata, era una donna molto volitiva ed energica che difendeva le sue cose, era tedesca. E' andata e l'hanno ammazzata, annegata davanti alla sua isola di Sant'Andrea, oggi chiamata Cvreni Otok [Isola Rossa]. E bisogna accettare anche i fatti così come sono avvenuti: Cverni Otok, che vuol dire Isola Rossa, Otok è isola".
22) Lei mi ha parlato delle foibe. Posso chiederle quando ne ha sentito parlare per la prima volta e in che termini? Cioè, avevate la percezione della loro esistenza?
R.: "Io penso di si. Non saprei dire quando [ne ho sentito parlare]. Era un discorso che veniva fatto, e quindi io l'ho captato, non so come. Però poi ho approfondito il tema in questi ultimi anni, dopo che ho smesso di lavorare di più nella mia professione, e quindi avevo più tempo, anche per leggere. E c'è stato anche un documentario, non male. Cosa vuole che le dica, io ne ho sempre sentito parlare delle foibe, e le ho anche viste le foibe. Io sono andata anche a Pisino a vedere la grande voragine, e tra l'altro è anche bellissimo il castello di Pisino. [Ci] sono andata diverse volte, e mio fratello aveva fatto anche un anno di liceo a Pisino, [mio fratello] Alfonso. C'è una cosa che vorrei dire e che lei dice nell'epilogo [del libro Istria allo specchio] anche. Mi è piaciuta molto l'immagine dell'albero sradicato che deve essere trapiantato in un nuovo terreno. E' bellissima come immagine per il cambiamento necessario che comporta però anche... Cioè bisogna guardare anche l'aspetto positivo della necessità del cambiamento: lei ne fa un piccolo accenno, ma non lo approfondisce molto. Noi nel nostro mestiere, nella psicoanalisi, nella teoria, si può associare a quello che chiamiamo cambiamento catastrofico, [e cioè] che ogni cambiamento appare una catastrofe, però comporta anche la necessità o magari lo slancio a risistemare o a ristrutturare il proprio sistema interno, mentale e di modello del mondo che abbiamo e di noi stessi. Io credo che lo spirito dell'intimo del conservatorismo, ma quello bieco, è proprio l'incapacità di superare la sofferenza di questa catastrofe e di voler restare attaccati al solito modello, di ripetere quello e non abbandonarlo mai."
23) Parliamo ancora un attimo delle foibe. Mi diceva di aver visto quella di Pisino e di averne sentito sempre parlare...
R.:"Si ne ho sentito sempre parlare, e ho anche sentito dire una cosa interessante, che in qualche devo aver persin scritto. [E cioè] che mio padre ricordava un libro di Giulio Verne, Il Mattia Sandov, il cui Mattia Sandov era prigioniero nel castello di Pisino, e per fuggire aveva fatto le solite lenzuola legate e si era calato giù nella foiba. E attraverso la foiba era riuscito - questa era la congettura e l'immaginazione di Verne - era riuscito a passare attraverso i fiumi sotterranei e le grotte per riaffiorare poi a Valle e fuggire dal Castello di Pisino. E lui lo raccontava, perché raccontava a me tante storie, [mio padre] era ricchissimo di immaginazione. Ecco, questo è un aspetto della foiba, come luogo anche dove qualcosa sprofonda ma che ha un suo percorso sotterraneo e che poi sfocia da qualche parte. Tra l'altro, questo lo voglio dire, perché mio padre ha sfruttato questo discorso del discorso sotterraneo per la scoperta di dove sfocia il fiume foiba. Lui mise delle anguille marcate che, spinte dall'istinto andavano verso il Mar dei Sargassi, e pescandole poi lungo la costa e scoprendo il percorso. Un'altra leggenda della foiba, invece, era quella molto più triste di un pastorello, che doveva pascolare le pecore per conto di un possidente - forse era uno schiamone, non lo so - che però aveva scoperto che se buttava qualcosa nella foiba, riaffiorava a valle. E così buttava le pecore, e il padre gliele raccoglieva e poi le prendeva morte per mangiarle. Sicché però è stato scoperto, e un giorno il padre cosa ha visto arrivare invece delle pecore? Il figlio, ammazzato. E questa è una leggenda istriana, non è inventata. Questo, quindi, per quanto riguarda le foibe e la loro terribile storia che in qualche modo...Perché è anche vero che la foiba ha qualche cosa di orribile, come l'idea di essere buttati vivi dentro. Ha qualcosa di satanico...E quindi questo noi questo aspetto lo avevamo vissuto. Come una pattumiera, e anche i morti buttati come una pattumiera. Ecco, la pulizia etnica, e la sua triste memoria! Pattume. Orribile e terribilmente denigratoria!"
24) Suo padre lascia Rovigno l'8 settembre del 1943. E dopo cosa accade?
R.:"Lui vive a Biella, e le citerò un pezzettino di una lettera, indirizzata forse a sua moglie, a mia madre. Intanto bisogna dire che lui ha sofferto due terribili perdite, l'una vicina all'altra: l'Istria, cioè l'Istituto che era stata una sua creatura, e sua moglie, perché è morta nel 1943. Mia madre è morta il 23 dicembre del 1943. Quindi lui l'8 settembre è fuggito da Rovigno, e due mesi dopo ha dovuto subire la morte di mia madre. Allora, in una lettera lui disse - forse è una lettera successiva, non mi ricordo, la devo cercare - disse: il mio amore per la scienza in questi anni ha ceduto il posto al mio interesse per l'arte, la letteratura, l'aspetto umano per la vita. Ed è per questo che io ho chiamato una cosa che ho scritto [su di lui] Uno scienziato umanista. Però queste due cose non sono mai state dissociate: quando era uno scienziato, la sua cultura - perché lui aveva una forte cultura umanistica legata alla sua modalità di fare scienza- non era uno scienziato puro, lui ha sempre svolto lavori scientifici come la campagna antimalarica a contatto con la popolazione, questa storia delle anguille, o la ricerca delle rotte dei tonni, che si diceva non uscissero dal mediterraneo e invece andavano anche nel mare del nord. Allora disse quello. Quindi quando è venuto a Biella ha fatto però una svolta, ma ha conservato i suoi caratteri umanistici e [la sua] attività di scrittura, fotografia del biellese, glottologo e studioso del dialetto, uomo d'azione per immettere la coltura delle trote nei torrenti. E poi c'era la musica, il pianoforte, un aspetto fondamentale della sua cultura. La musica, la musica, il pianoforte, che sempre ha suonato a Rovigno. Quindi, la svolta è stata questa, cioè con una preponderanza verso gli aspetti più letterari e artistici rispetto a quelli più scientifici fino al '43, diciamo. Però è stato un passaggio."
25) E invece lei nel '43 dov'era?
R.:"Io? Ero a Quittengo, e l'abbiamo visto arrivare...Abbiamo visto arrivare lui, abbiamo visto arrivare mio fratello Alfonso, alpino, e mio fratello Luca, artigliere, perché lui era ingegnere. Alfonso a quel punto doveva ancora decidere della sua carriera artistica, che ha deciso dopo la guerra quando ha abbandonato del tutto il suo lavoro in fabbrica, e per cui aveva disegnato - non c'entra con mio padre - un disegno in cui c'era uno sdraiato con dietro i tetti della fabbrica, un camino e un fumo nero che si spandeva su tutto il cielo. Però sopra il fumo nero c'era il cielo azzurro, e la scritta [sul dipinto] diceva: inutile piangere quando si è dimenticato il colore del cielo. E questo era lo stato d'animo di lui che voleva invece fare il pittore."
26) Lei il biennio 1943-1945, lo ha vissuto qui.
R.:"Io? Si, io facevo il liceo".
27) Ecco, posso chiederle che ricordi ha della guerra?
R.:"Eh, non è un ricordo, è un commento. La sola affermazione che posso fare è che io ero fuori contatto con la guerra e con la guerra partigiana. Da ragazzina, quando è scoppiata la guerra, [dicevo]: ah, è scoppiata la guerra! Devo ammetterlo - allora avevo forse tredici anni - non avevo un contatto serio. E questa è una mancanza della mia famiglia: un vero contatto con il movimento partigiano. Anche se i miei fratelli sono stati partigiani per un periodo, ma poi sono andati in Svizzera, perché i partigiani che c'erano nel retroterra delle nostre montagne erano di quel tipo comunista che preparavano l'avvento. L'avvento. E loro non potevano condividere, e neanche mio padre poteva: lui era in contatto con Radio Londra, era antifascista, ma non era in quel senso, questa è la verità. Io sentivo, orecchiavo tutto questo, ma non ero individualmente coinvolta, tranne un episodio, che se vuole le racconto."
28) Certo.
R.: "Non so esattamente che anno fosse: c'erano i repubblichini - cosiddetti, poveretti anche loro - a Biella, e c'erano i partigiani, anche, nella valli. E io andavo a scuola. Non so se lei è mai stato a San Gerolamo."
29) No, veramente mai.
R.:"Bisogna poi che la portiamo! Allora, io scendevo con la mia cartella - allora non c'erano i sacchi [zaini] - giù per la collina, e all'ultimo tratto c'è un grande cancello e un viale di platani, che poi diventano ippocastani, ma al primo tratto sono platani. Allora, durante la guerra, avevano coltivato a grano una parte che scendeva verso Biella. E io vedo, di corsa, venire su per San Gerolamo un giovane ragazzo, avrà avuto vent'anni, era poco più giovane di me, che perdeva sangue e che, a un certo punto, è dirottato verso questo campo di grano. Il mio primo istinto era stato quello di dirigermi, di andare verso questo ragazzo, non avevo visto nessuno. Contemporaneamente dal ponte della Maddalena, che è alla base di questo viale, spunta un drappello di repubblichini, i quali arrivano su correndo, stavano inseguendo il ragazzo, e mi vedono. Mi vedono che stavo dirigendomi verso questo ragazzo, e mi hanno fermato proprio fisicamente. Hanno capito che io ero una scolara e che non ero coinvolta con questo qui - bisogna dargliene atto a questi qui - e mi hanno detto: via! Mi hanno mandata via e sono tornata a casa quel giorno. Sono tornata indietro spaventata, non hop visto più niente. Le tracce di sangue mostravano [però] dove il ragazzo si era nascosto: ho sentito una sventagliata di mitraglia e ho capito cosa succedeva. E forse l'orrore era tale che uno fa muto verso la percezione più autentica dei fatti. E sono andata verso il mio convento, rifugium peccatorum, dove tutto era un po' protetto. E devo dire che questa era un po' la situazione in cui io ho vissuto in questi due anni. Poi ancora una cosa: il giorno dopo, andando a scuola, vedo il cadavere di questo ragazzo davanti alla fabbrica Pria. E lì c'è ancora adesso una targa, dove qualcuno ogni tanto continua a portare fiori."
30) Le chiederei ancora una cosa, tornando ancora a parlare di Rovigno e di ciò che ad essa si collega. Lei ha avuto la percezione dell'esodo della popolazione italiana dell'Istria, oppure è un elemento che passava in secondo piano nell'Italia dell'epoca?
R.:"Avrei molte cosa da dire riguardo allo stato d'animo di quelli dell'esodo , anche se non mi piace la parola esodante, però la usano... Esodante è un po' come badante, tute queste parole così! Io, forse, ho vissuto di più la storia dell'esodo che non la guerra partigiana e le vicissitudini qui, perché io fino a quattordici anni ero rovignese, e già come le ho descritto al visione di Rovigno le dà un'idea."
31) Lei si rendeva conto dell'esodo?
R.:"Si, si, subito dopo la guerra. Perché io subito dopo la guerra sono andata a stare a Venezia, e ho incontrato delle rovignesi... Eh si, perché lì ci sarebbe anche un altro capitolo: ho fatto un errore di memoria! Uno sleep come si direbbe in termini freudiani. E cioè, mio padre è andato a Venezia, il Consiglio Nazionale Delle Ricerche gli ha dato una sistemazione. Io sono andata lì, mi sono iscritta all'università a Venezia e abitavo con lui, a Riva Sette Martiri, [dove] avevamo una mansarda. Tutta la parte dell'Istituto, diciamo la parte amministrativa e la biblioteca, è stata portata a Venezia. E lì c'erano due figure di rovignesi che lavoravano all'Istituto, che mi piace nominare B. e C., che hanno mantenuto un contatto amichevole e amicale con noi finché sono morti. E quindi mio padre si divideva... o poi avevo sposato presto un veneziano, smettendo allora di andare all'università, ma l'ho ripresa poi, dopo. Mi sono sposata nel '49, e quegli anni, dal '46 al '49, abitavamo metà a Venezia e metà a Biella, in parte a Venezia e in parte a Biella. Ma a Venezia non avevo tanto la percezione [dell'esodo]. E' stato forse dopo, negli anni in cui sono tornata a Rovigno, che man mano... Ecco, potrei dire forse un processo, interiore, di presa di coscienza della mia vita, della mia situazione, dei miei interessi più veri, ha subito un lungo tragitto che soltanto adesso ha raggiunto la realtà dei fatti. Quindi non posso dire e non posso dare dei giudizi. Si, sono andata a Rovigno quando c'erano ancora gli slavi duri che trattavano malissimo gli italiani che andavano. Ci hanno sputato sui piedi una volta quando ci han sentito parlare italiano. Per fortuna, sui piedi!"
32) L'ultima domanda che le faccio è questa: lei mi ha detto di essere ritornata spesso a Rovigno in questi ultimi anni, e di continuare a frequentarla. Posso chiederle cosa prova quando ritorna?
R.:"Ma, provo sempre, più o meno, lo stesso sentimento, anche se più maturo, di gioia, nel ritrovare luoghi. Soprattutto luoghi e immagini. Io sono molto come i gatti, che più che alle persone restano attaccati soprattutto ai luoghi e alle situazioni - va beh, anche alle persone - , alle strade, alla campagna. La campagna particolare, arsa, quella particolare campagna mediterranea ma adriatica, che è diversa da quella della Sicilia e del su, perché è più nordica, ha anche piante più verdi che arrivano fino vicino al mare e si conservano. Questo [è ciò che] provo io, ma io. Poi non so gli altri [cosa provino]. E man mano ho trovato delle persone, e mi sono identificata sempre di più con la loro storia, come rivivendola attraverso di loro. E c'è una cosa da dire, anche leggendo le cose che lei ha scritto e che altri hanno scritto: per noi, pur rovignesi per vent'anni e molto identificati con il posto, lo sradicamento c'è stato, ma non ovviamente così aspro e decisivo come per gli istriani che sono andati via. Perché noi avevamo già delle radici altrove, queste radici altrove funzionavano e la linfa di quelle radici era anche nella nostra natura e nella nostra mente. E quindi non possiamo reclamare una condivisione di identificazione con i rovignesi. Una vicinanza vissuta, una possibilità di riconoscimento del loro dramma. E credo che questo mio padre, come anche noi, possiamo testimoniare. E i miei fratelli. E voglio ricordare mio fratello Luca, che è morto a quarantaquattro anni, prematuramente, il quale cantava. Perché una caratteristica dei rovignesi era il canto. E lui cantava nel coro, ed è venuto qui a Biella, e ha perpetuato insieme a un triestino di Nome N. S. un canto dalmata, istriano e rovignese, attraverso un coro che era stato fondato dalla Genzianella. E lui aveva una bella voice baritonale, Luca. I miei fratelli, forse, erano più identificati di me con la cultura di Rovigno e col dialetto, che loro parlavano. Io lo capivo, ma non l'ho mai parlato, perché io ero profondamente identificata con la cultura familiare e con mio padre, che mi ha allevata, per così dire. Mia madre si è ammalata molto prematuramente, anche se io la ricordo ancora molto bene in quei primi anni a Rovigno."
21/12/2008;
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