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Intervista a Eufemia M.
Eufemia M. nasce nel 1929 a Rovigno, da dove parte insieme al marito e alla suocere nel 1948. Arrivata in Italia resta qualche giorno al Silos di Trieste e da qui va poi al centor di smistamento di Udine. Da Udine si trasferisce al Villaggio Giuliano di Roma, all'Eur e poi al campo profughi di Latina, dove resta fino al 1949. Nel 1949 la suocera, dipendente pubblica, riceve un posto a Cossilla nel biellese. Lo accetta e parte insieme al figlio e a Eufemia M. Da Cossila, nel 1950, si trasferisce a Cossato, dove abita ancora oggi. E' stata intervistata il 20 giugno 2008. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nata?
R.: "Io son nata il 30 del 5 del 1929 a Rovigno d'Istria."
2) Può parlarmi della sua famiglia di origine? Quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...
R.:"Insomma, io ero orfana... Mio papà avevo sette anni [quando] è mancato, poi [quando avevo] quattordici anni, mia mamma si è sposata. Dopo un anno ho trovato il ragazzo, il fidanzato. Poi nel 1945 mi sono conosciuta. E praticamente aveva già perso la guerra l'Italia, le aveva dato Trieste, e nel '45 è entrata la Jugoslavia, il partito comunista. Non le dico che essere italiani, e stare sotto di loro, era una cosa pazzesca."
3) Perché era una cosa pazzesca?
R.: "Era una cosa pazzesca perché erano compagni, e sotto Tito nessuno voleva stare sotto Tito. Se rimanevo là come la mia mamma - che io sono andata via e lei era rimasta -, aveva la nazionalità italiana e la cittadinanza jugoslava. Io siccome che avevo il fidanzato, avevo una scelta dura da fare, ma dura: ero figlia unica, e dovevo lasciare la mamma, oppure lasciare il fidanzato. Non è come al giorno d'oggi che [si] cambia, una volta quando avevi l'anello era una cosa seria, capisce? Allora, insomma, dopo tanto, dopo tante lacrime, ho fatto le carte per venire in Italia."
4) Ho capito. Questo lo vediamo dopo, magari. Vorrei chiederle sua mamma che lavoro faceva...
R.: "Lavorava nella Manifattura Tabacchi. La Manifattura Tabacchi l'hanno venduta a Canfanaro, adesso non c'è più. E infatti c'è il mio figlioccio che lavora a Canfanaro. E io lavoravo in Fabbrica Sardine, quella del pesce che penso, e non vorrei sbagliarmi, che sia chiusa. Mia mamma ha lavorato lì tanti anni, fino a che non è andata in pensione, e sarebbe stata la seconda fabbrica d'Italia di tabacchi. E c'erano tante donne che lavoravano, tante."
5) Lei riesce a descrivermi Rovigno: cosa faceva la popolazione, dove lavorava...
R.: "Era bellissima, una città bellissima. Si stava bene. C'era quelle due fabbriche, poi c'era i pescatori e tanti negozi, tutti i negozi. La fabbrica Tabacchi era nominata tanto, tanto tanto."
6) E senta, da un punto di vista demografico com'era la situazione?
R.: "L'elemento italiano era in città, i croati erano fuori. Perché quando ha perso la Jugoslavia, è entrata la Croazia, e tutta la gente di su veniva giù. Perché ci sono tanti croati."
7) Posso chiederle com'era il rapporto tra gli italiani e gli slavi?
R.: "Eh, non tanto bello! Ancora adesso eh! C'è sempre quell'odio, eh! Insomma, quelli lì, sti slavi, li chiamavano gli s'ciavoni, in dialetto."
8) E questa parola vuol forse dire che non è che fossero visti molto bene o sbaglio?
R.: "No, no, gli italiani li odiavano, e gli altri odiavano gli italiani. E' sempre stato così."
9) E quest'odio, secondo lei, potrebbe essere dovuto, in parte, anche alla politica adottata dal fascismo nei confronti degli slavi?
R.: "Prima c'era il fascismo. Io ero bambina, ma c'era il fascismo."
10) E lei ad esempio cosa ricorda di quel periodo?
R.: "Eh, se si voleva lavorare, mio papà doveva portare il distintivo, sempre. Il fascismo era un po' duretto! Io non capivo tanto quello, perché avevo sette anni. Mio papà era nelle navi, che faceva da Rovigno a Trieste, navigava. E lì per lavorare bisognava avere il distintivo, se no non si lavora."
11) Lei ha dei ricordi, oppure le hanno mai raccontato qualcosa relativamente alla politica fascista nei confronti degli slavi?
R.: "Eh, insomma, che anche il fascismo non era tanto facile, come dicevano. Si odiavano: io sentivo alle volte mio papà, che c'era delle discussioni... C'è sempre quel cattivo in mezzo che dice: sei un fascista, e poi dopo... Cioè, io quello che ho capito, è che era come una dittatura. Che poi Rovigno era molto socialista, quello si. Il socialismo era molto..."
12) Parliamo un attimo della guerra. Lei cosa ricorda della guerra?
R.: "Della guerra? Che nel 1948 mi son sposata. Prima di sposarmi, quando ho fatto le carte per andare via, mi hanno licenziato dalla Fabbrica Sardine. Poi tutti i panettieri che non volevano stare sotto di loro andavano via. A me mi è successo che - devo dirlo - dei parenti, che oramai sono morti, mi odiavano - parenti da parte di mia mamma - e hanno detto che volevano impiccarmi, sia a me che a mio marito, perché andavo via. Loro erano comunisti, erano comunisti forti, forti, forti! Io, nipote, mi dovevano impiccare in mezzo a piazza perché non ero comunista come loro. Io non ci tenevo."
13) Ecco ma della guerra, di quel periodo ricorda ad esempio i bombardamenti?
R.: "Si, si, li ricordo. C'era dei bombardamenti e c'erano dei camion [con] dei giovani che andavano sopra, che andavano via. Poi li hanno portati persino a Trieste o in altri paesi dell'interno, che poi dopo c'erano le foibe. E che anzi mio marito, che aveva diciassette anni, come tutti gli altri giovani era andato nel camion, poi sua mamma che faceva la postina l'ha visto e l'ha fatto venire giù."
14) Ecco, ma questi camion cos'erano?
R.: "Questi camion erano tutti giovani che li portavano via."
15) Chi li portava via?
R.: "Eh, quelli che comandavano, i comunisti, subito dopo la guerra."
16) Mi ha parlato adesso delle foibe. Voi sapevate che esistevano?
R.: "No, no."
17) Lei quand'è la prima volta che ne ha sentito parlare?
R.: "Io ne ho sentito parlare nel '46. In termini un po' brutti, perché li han portati via e poi li hanno uccisi tutti, anche tanti di Rovigno."
18) E lei vedeva queste persone che andavano via?
R.: "Si, si, tutti giovani, tutti giovani italiani."
19) Tornando invece un po' indietro nel tempo, lei i tedeschi li ricorda?
R.: "Si, si. Erano un po' duri, un po' cattivi. Perché io avevo uno zio a Rovigno, che si vede che era del partito comunista, e i tedeschi lo hanno ucciso. Poi i tedeschi sparavano, bisognava essere chiusi in coprifuoco, e noi ne avevamo tanta, tanta paura."
20) E lei se lo ricorda l'ingresso in città dei titini?
R.: "Eh, sono entrati, e dicevano compagni. E hanno iniziato a comandare loro, e allora quelli che andavano via - amici di mio marito anche - li mettevano in prigione. Poi tutti i panettieri li hanno messi in prigione. E anche mio marito è stato in prigione, perché aveva detto che non voleva stare sotto Tito, come tutti quanti non volevano stare sotto Tito. Certamente che è stata dura, molto dura."
21) Parliamo della sua partenza: quando lascia Rovigno?
R.: "Al 7 di settembre del 1948."
22) Quindi lei ha vissuto qualche anno sotto la Jugoslavia...
R.: "Si, si. Ed era dura, molto dura. Ci odiavano tutti, tutti ci odiavano, tutti. Era una vita da cani. Ad esempio uno con l'altro bisognava stare attenti anche di uscire. Poi quando che han saputo che gli italiani vogliono andare via, allora c'era un odio tremendo. Poi non si poteva più andare in chiesa: sposarsi in chiesa significava che non si poteva più andare a lavorare sotto di loro, che io per esempio ho dei cugino che si sono sposati in comune, ma non in Chiesa. Battezzare... Io son stata madrina di un bambino e a porte chiuse, di nascosto, siamo andati a battezzarlo, se no, altrimenti... Che il padre era comunista, ma la madre voleva battezzarlo. E allora lì non si poteva andare in chiesa."
23) Facendo poi riferimento ad altre testimonianze, i primi anni con la Jugoslavia c'erano forse dei problemi legati alla sussistenza. Cioè, per intenderci, molti mi hanno detto che non c'era da mangiare...
R.: "Si! C'era la tessera, la tessera. Davano il pane o qualsiasi cosa ma tutto contato, contato, contato, eh! Io, fortuna, che mio marito faceva il panettiere, e non mi mancava. Eravamo fidanzati e mi dava il pane. Però, insomma, a chi le mancava più che mangiare patate e polenta, perché di altro non si mangiava. Caffé latte d'orzo pranzo e cena, e questo me lo ricordo io. Era una vita molto dura. Dovevi vivere male, ti odiavano. Io quando che poi ho fatto le carte per venire via, mi odiavano proprio."
24) Quindi se si facevano le carte per venire via, si veniva licenziati...
R.: "Si, si, licenziati dal lavoro, sia io che mio marito. Mia suocera e anche mio cognato. Ti licenziavano appena avevi iniziato a fare le carte. Comunque, insomma, era dura."
25) Lei parte da Rovigno nel 1948.
R.: "Si, nel 1948".
26) Si ricorda com'era Rovigno in quei giorni?
R.: "C'era il treno - adesso non c'è più -, son partita di notte e ho fatto notte e giorno nel treno. Poi mio marito l'hanno messo in prigione con altri panettieri."
27) Mi scusi, ma non ho capito come mai lo hanno messo in prigione...
R.: "Perché ha detto che lui non vuole lavorare sotto Tito. L'ha detto dentro al forno, con gli altri operai. Poi tutti quanto andavano via, e li hanno messi tutti dentro, e mi ha fatto partire. Mi ha fatto partire con mia suocera, perché io avevo diciannove anni, e dove vado da sola per il mondo? E [a] mio cognato non le davano il passaporto, e allora mia suocera lasciava sui figlio in prigione. Che era venuta anche una signora a dirci che lo aveva visto nel treno, che lei ci ha detto: di sicuro lo fanno andare via. E invece lo hanno portato a Pola, in carcere. E mio cognato non le davano il passaporto: noi avevamo da partire la notte, e alle dieci di sera, c'era una zia di mio marito che era socia con uno del partito, e allora ha detto: è una vergogna metterne uno in prigione e l'altro lasciarlo qui! E alle dieci di sera le hanno dato il passaporto, così siamo venuti via tutti e tre."
28) Lei si ricorda che atmosfera si respirava a Rovigno in quegli anni?
R.: "Si, tutti andavano via. Tanti, tanti, tanti andavano via, tanta gente è andata via. Era vuota. Poi son venuti giù quelli dalla Jugoslavia e si son fatti padroni."
29) Mi racconti un po' il suo viaggio...
R.: "Parto di notte, perché c'era il treno di notte da Rovigno fino a Trieste. Il viaggio è stato duro, perché ho lasciato mia mamma e poi son stata sette anni senza vederla."
30) Lei ha portato via tutto quello che ha voluto?
R.: "No, no. Io ho portato via una cassapanca con delle lenzuola - insomma, il corredo - e mia suocera i suoi mobili, ma non tutto. Al confine ci hanno controllato, era tutto chiuso in un vagone. Poi siamo andati a Trieste, e a Trieste ci siamo fermati per un giorno."
31) E a Trieste dov'è andata a stare, al Silos?
R.: "Si, al Silos".
32) Lei riesce a descrivermi il Silos?
R.: "Eh... Era come una prigione, era dura, era dura, sa? Eh, insomma, come c'è i soldati che hanno quelle camere lunghe con il corridoio lungo e poi c'è come un'altezza che non si vede dentro, era fatto così. Con delle brandine, in pagliericcio. Eravamo tutti insieme, quelli della nostra famiglia."
33) Lei mi ha detto di essere partita. Posso chiederle quali sono stati i motivi che l'hanno spinta a prendere questa decisione?
R.: "Il motivo era che mio marito con sua mamma e mio cognato andavano via. O mi lasciavo, o partivo. Poi siccome che mia mamma si è sposata la seconda volta, aveva la sua compagnia. Perché se mia mamma non avesse avuto la sua compagnia, io andavo via lo stesso, e sarei andata a Torino che lei andava in Fabbrica Tabacchi. Ma con il tempo, eh, perché diciamo che prima si doveva andare nei campi profughi, eh. Quindi si può dire che sono andata via per amore. Se no io sarei rimasta anche lì, perché a me piace tanto. Poi dove son nata è una cosa pazzesca!"
34) Lei dunque è andata via. Però dall'altra parte c'è stato - anche se una minima percentuale - chi è rimasto. Secondo lei perché hanno fatto questa scelta?
R.: "Perché, vede, tanti avevano paura di andare in giro, perché non avendo nessuno in Italia, allora son rimasti lì. Per esempio un mio cugino era andato giù in Sicilia, ma poi è ritornato indietro: si è trovato solo nel campo profughi, e allora è ritornati indietro. Era dura, sa... Poi ci son di quelli che sono stati lì per motivi politici."
35) Lei quindi arriva a Trieste, fa la sua trafila al Silos, dopo di che cosa succede?
R.: "Sono andata a Udine, tre giorni a Udine. Udine era come un campo di smistamento."
36) E riesce a descrivermelo?
R.: "Era una caserma, una caserma. Una caserma grande, e lì si dormiva tutti assieme, era tutto aperto. Siamo stati tre giorni, finché loro non ti mandano a destinazione. Prendevano i nomi, bisognava dargli i documenti e tutto quanto, e poi ti mandavano a destinazione."
37) E dove vi hanno mandato?
R.: "Ci hanno mandato a Roma, siamo stati cinque giorni. All'EUR. Siamo stati cinque giorni. Perché mia suocera, sotto l'Italia, a Rovigno, faceva la procaccia: andava a prendere la posta ai treni, e faceva tutte quelle cose lì. E c'era la titolare a Rovigno - era dalle parti di Firenze - che lavoravano a Roma, era la direttrice della posta. E allora siamo andati a Roma sempre avendo una spinta di questa signora qui, avevamo quindi già qualcosa, un po' una spinta. E là siamo stati cinque giorni, finché dopo cinque giorni c'era da scegliere di andare definitivamente al campo profughi di Latina. C'era della gente anche lì che si parlava e diceva: no, non andare a Gaeta, cercate di tenere sempre fermo a Latina, perché a Gaeta si sta proprio male."
38) Perché c'era la doppia possibilità di andare a Latina o a Gaeta?
R.: "Si, si, ti mandavano loro dove c'era posto. Andavi a Roma e poi loro ti mandavano o a Latina o a Gaeta. E allora mia suocera è andata dentro [in direzione] e [le hanno detto]: signora, deve scegliere, deve venire dentro e noi la mandiamo a Gaeta. Allora lei è stata un bel po' fuori, poi è tornata dentro e ha detto: guardi - ha fatto l'indifferente -, accetto a Latina come mi ha detto lei. C'era un altro impiegato, e allora ci hanno mandato a Latina."
39) E com'era Latina?
R.: "Uh! Un anno sono stata, un anno. Mamma mia! C'era le camerate lunghe, come che le ho detto prima, poi c'era una porta lì aperta, che mettevi una tenda e c'era due brandine in pagliericcio senza lenzuola. Ci han dato una coperta così così, per non dire uno straccio, e siamo stati lì. E lì c'era tanti tanti profughi, dalla Tunisia e da tanti posti. Questa gente qui della Tunisia dicevano che erano contenti, che si mangia bene e tutto quanto, però per dire la verità ci si accontentava, si era giovani e bisognava mangiare per forza. E allora noi cosa abbiamo fatto? Sia io, sia mia suocera e mio cognato - che poi nel frattempo in novembre, dopo due mesi è tornato mio marito - e allora nel frattempo hanno trovato qualche giorno da fare il panettiere che andavano a cercare. E poi ci siamo adattati a fare tutti i lavori: allora, io sono andata in cucina, con quelle stufe cariche di fumo - che ho gli occhi ancora adesso che ci vedo poco - e distribuivo il mangiare a tutti i profughi. E prendevo 100 lire al giorno, perché un panino non bastava, sa, quando si ha diciannove anni o venti si mangia di più! Poi non è sostanzioso quel mangiare! Poi mio cognato si è messo a scopare tutto il campo profughi - che era grande - tutti i giorni, anche lui, e mia suocera e mio marito lavavano le camerate, pulivano i gabinetti e i lavandini. Ci siamo adattati, che gli altri profughi, i tunisini e quella gente lì, non si adattavano."
40) A Latina di giuliani eravate comunque tanti...
R.:"C'è n'erano tanti, tanti tanti. C'era gente di Dignano, gente di Valle, di Parenzo, c'era tanta gente."
41) E questo campo a Latina che cos'era?
R.:"Era una caserma, che una volta andavano i soldati. Era in mezzo alla città. Ma non era male, perché erano tutti italiani, anche quelli tunisini, ti fai capire. Mi sono trovata [bene], era brava gente, insomma."
42) All'interno del campo c'erano dei servizi come scuola, asili, luoghi di ritrovo e ricreazione?
R.: "No, nel campo no. Erano fuori."
43) E come si passava il tempo libero? Io ho visto alcune foto di altri campi dove si ballava, si suonava. A Latina era così?
R.: "No, no, poi anche non si poteva, mancavano i soldi. In campo non c'era niente. Ci si trovava fuori al pomeriggio, fuori dalla camerata e si parlava, che c'era gente di Rovigno e di Dignano e si parlava, così."
44) E ricevevate, oltre al sussidio, qualche altro tipo di assistenza come vestiario o pacchi dono?
R.: "No, no, niente, niente. Solo il sussidio e il mangiare e basta. E' stata una vita dura."
45) E a Latina come siete stati accolti dalla popolazione?
R.: "Ci hanno accolto bene, no no, ci hanno accolto bene."
46) Lei dunque sta un anno a Latina, dopo di che cosa succede?
R.: "Dopo di che mia suocera, da parte di quella direttrice [della Poste] che era a Rovigno una volta, le ha mandato un telegramma che vada a Roma e che dica che a Cossilla dove abitava questa qui, c'era posto. E allora lei ha fatto di tutto e le ha dato il posto di fare la postina a mia suocera. Allora lei è venuta su da sola, e noi siamo stati giù. Poi dopo sei mesi ha trovato una stanza e ha fatto venire su mio cognato, suo figlio, e noi siamo rimasti giù, finché poi con il tempo, dopo un anno, ha trovato un'altra stanza e siamo venuti su a Cossilla nel 1949."
47) Arrivata a Cossilla?
R.: "Eh, non è stato facile. Mia suocera che conosceva, [ha fatto entrare] mio marito...Però mio marito lo hanno chiamato a fare il militare, che lo ha fatto qui perché era venuto via. Nel 1950, lo ricordo, io ero vestita da carnevale, vengo a casa e mio marito mi dice: sei vestita da carnevale? Si dico. Domani devo partire e devo andare a fare il soldato. Allora mi sono adattata a fare tutti i lavori: sono andata in fabbrica che era al Bottalino, vicino a Biella, una fabbrica tessile che poi è andata in fallimento e allora sono stata a casa. Poi mi sono adattata a fare qualche lavoro, un po' di qua e un po' di là, perché [senza] non si poteva stare, capisce? E poi dopo siccome che mio marito aveva il papà che faceva anche lui il procaccia postale, che poi suo papà è morto e ha preso il posto sua mamma, e siccome che poi il suo nonno di mio marito aveva lavorato tanti anni nelle poste, allora lo hanno praticamente assunto qui a Cossato nelle Poste. E allora nel 1950 siamo venuti ad abitare qui a Cossato."
48) Che accoglienza vi hanno riservato a Cossilla prima e a Cossato poi?
R.:"No, io dico la verità... Perché la prima cosa è il lavoro che fai, e per entrare in Posta bisogna fare il giuramento davanti al Sindaco. E allora essendo fatto il giuramento, anche la gente ci hanno accolto bene, bene, bene. Anche se io non sono di quelle che parla tanto, per dire. Quelle attaccabrighe ci sono, ma io le elimino quelle persone, non mi piacciono."
49) Le ho chiesto questo perché qualche giorno fa un altro profugo mi ha invece detto che l'accoglienza non è stata poi così buona...
R.: "Ma, all'inizio... Dicevano fascisti, e siccome che qui a Cossato la città è di comunisti, allora ci hanno accettato non tanto bene."
50) Posso chiederle come mai?
R.: "Perché, guardi, sapevano che in Istria comandavano i comunisti, perché per fare la carta d'identità o il passaporto hai tutto scritto, e allora ti segnavano con il dito. Però noi non si dava risposta e via. Ti segnavano come quello che scappava dal comunismo, ecco, e allora non eri visto bene. Fortuna che mio marito lavorava nelle poste, e allora sa, cambiava già."
51) Questi problemi iniziali si sono poi risolti?
R.: "Si, si."
52) Come?
R.: "Ma, essendo postino, mio marito conosceva tanta gente, e c'era chi era contento, e chi non era contento. Ma si è inserito abbastanza bene."
53) Facendo un calcolo molto sommario, posso chiederle, secondo lei, dove sono andati a lavorare i profughi giuliani che sono arrivati nella zona?
R.: "Ma, chi nelle fabbriche - si sono adattati a imparare -, chi il manovale. Tanti lavori - come mio marito e mio cognato - avevano fatto prima di andare a fare il postino. Si sono adattati a fare tutti i lavori. E io mi sono adattata a fare tutti i lavori: a fare le pulizie, ad andare a stirare, poi dopo, con il tempo, sono andata in fabbrica tessile qui vicino, a Quaregna."
54) Posso chiederle come si faceva ad entrare in fabbrica? Cioè, c'era qualcun che magari spingeva per farvi entrare?
R.: "Si, si, avevi una spinta dal parroco."
55) Lei oggi ritorna a Rovigno?
R.: "Si, si, tutti gli anni."
56) E ne ha nostalgia?
R.: "Si, quando torno mi trovo...Io la nostalgia l'ho avuta sempre e l'avrò sempre."
57) Senta, lei dal mare di Rovigno si ritrova a Biella, dove di mare non vi è nemmeno l'ombra. Credo sia stata un'esperienza traumatica...
R.: "Uh! A me Cossato non è mai piaciuta, solo che il lavoro bisognava tenerlo. Perché mio marito aveva chiesto anche il trasferimento, aveva chiesto di andare dalle parti di Mestre per essere un po' più vicini, ma non gliel'hanno dato. Per me è stato un grosso trauma venire qui, tanto tanto. Perché io poi non ho visto mia mamma per sette anni. Poi dopo è venuta, ma per sette anni... C'era una persona che mi voleva male, e mi diceva che la fotografia di mia madre era a Zagabria, ma che non ricevevano nessuna risposta. Avevo il passaporto lì da un anno, scaduto, finché poi mio marito è andato... Conosceva quelli dei treni, gli ha detto: la fai scendere - sa, ero giovane, un po' timida - e l'accompagni. Poi dopo gli ha detto di accompagnarmi, ed ero agitata, e infatti quando sono andata dentro dal console quello mi fa: mi dica, che lavoro fa suo marito? Mio marito lavora nelle poste. E allora mi ha fatto un foglio e ha dichiarato che sotto la sua responsabilità, avrei fatto venti giorni [in Jugoslavia], e sono andata. Dopo sette anni ho trovato un cambiamento enorme. Ero agitata, un signore mi ha riconosciuto e mi ha portato da mia mamma e ho trovato dei cambiamenti enormi: mia mamma, che l'ho lasciata da sette anni coi capelli castani, l'ho ritrovata coi capelli bianchi, e mi ha fatto un effetto che non so dirle! Poi dopo dieci minuti la casa era piena di parenti, che si vede che le mancavo a tutti, e mi ha fatto un effetto! E da lì ho avuto tanta amicizia e tante belle cose, e quando vado a Rovigno non tornerei più indietro."
20/06/2008;
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