C00/00352/02/00/00005/000/0043
Intevista a Gianfranco M.
Nasce a Pola nel 1939. Lascia la città nel 1947 con la famiglia e arriva a Venezia, dove resta per qualche mese nel centro raccolta profughi denominato Caserma Sanguinetti. Da qui si trasferisce a Mogliano Veneto, rimanendovi fino al 1956 anno in cui si trasferisce a Torino con tutta la famiglia. La sua traiettoria nel capoluogo piemontese è differente rispetto a quella tracciata da molti altri suoi conterranei. Infatti non è ospitato nè alle Casermette nè va ad abitare al Villaggio di Santa Caterina. E' stato intervistato il 16 aprile 2012. Intervista e trascrive Enrico Miletto
1) Le chiedo innanzitutto u po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?
R.: "Sono nato a Pola il 5 marzo 1939."
2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine, quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...
R.: "Dunque... La mia famiglia eravamo i genitori più due figli, io e mia sorella che è più anziana di me di undici anni. Eravamo quindi in quattro e ai tempi di cui si parla avevamo la nostra casetta, molto piccola, nella periferia del centro di Pola. Diciamo che quella era la Casa M... Poi avevamo parecchia proprietà da parte della famiglia di mia mamma, che loro erano venuti dall'interno dell'Istria. Nel 1869 son venuti a vivere a Pola e han cominciato coltivando un piccolo terreno che è diventato poi grandissimo, anche perché lì la terra era brutta, arida, ci andava tanta fatica a lavorarla e costava poco. Questa era la famiglia da parte di mia madre, il nonno paterno lavorava pure lui all'Arsenale (disegnatore); mia nonna paterna negli anni a cavallo dell'800 e 900 era nota come "la socialista" - oggi si direbbe "suffragetta" - perché era sempre nelle prime file delle dimostrazioni per l'emancipazione femminile. Mio padre lavorava all'Arsenale di Pola come tutti i veri polesani - o quasi tutti - [mentre] mia madre faceva la casalinga, normalissima. Diciamo che mia madre aveva la quinta elementare - con una cultura sua propria però molto interessante - mio padre invece credo abbia studiato alle [scuole] tecniche o cose del genere. Lui alla fine era un operaio, lavorava all'Arsenale e faceva anche molto [quello che] oggi lo chiameremo volontariato: lui era pompiere, interveniva in tante occasioni, come quando ad esempio c'era bisogno dei pompieri, non solo per il fuoco ma anche per l'acqua. Infatti aveva preso una medaglia - non mi ricordo di che metallo - quando a Pola era affondato un sommergibile e lui si era buttato dentro e aveva salvato qualcuno rompendosi una gamba. Gli han dato una medaglia. Comunque faceva il pompiere, e grazie anche a questo noi altri avevamo gli ingressi liberi ai teatri dove facevano la lirica, e Pola era una città che amava molto la lirica: io ero piccolissimo - avrò avuto cinque o sei anni - ma mi ricordo la Butterfly, [che è stata] la prima opera che ho visto, mentre mia sorella e mia madre le avran viste tutte, perché son passate tutte di là. E a Pola noi vivevamo una vita normale, quella di gente che lavorava regolarmente. Insomma, niente di evidente, ecco."
3) Pola che città era? Riesce a descrivermela?
R.: "Beh, Pola si, diciamo che di industrie ne aveva parecchie se contiamo l'Arsenale, Scoglio Olivi - Uljianik si chiama adesso - che mi pare all'epoca facesse 8.000 operai, pertanto enorme rispetto alla popolazione civile di Pola, che mi pare fosse sue 30-35.000 abitanti, dove però era importantissima la presenza militare, che mi raccontavano che in qualche momento arrivasse fino a raddoppiare la popolazione. Pertanto militari esclusi - perché si dovrebbe dire che Pola era una città militare - la città era si, decisamente industriale, grazie al fatto dell'Arsenale e di altre fabbriche. Mi ricordo che c'erano alcune fabbriche non grandi, la Fabbrica Lucchetti, la Manifattura Tabacchi, [dove], insomma, qualche centinaia di persone ci lavorava. Ma sicuramente era il fatto dell'Arsenale e l'indotto - oggi si direbbe - dell'Arsenale che occupavano moltissime persone. Credo che veramente tutti i polesani abbiano prima o poi lavorato all'Arsenale. E pertanto Pola era una città industriale grazie alla sua presenza e alla posizione geografica che aveva, con questo mare piuttosto difeso, perché quello di Pola era un porto difeso naturalmente da queste penisole che lo han fatto diventare un bellissimo porto militare molto usato dall'Austria, [anche perché] era l'unico sbocco militare dell'Impero austro-ungarico al mare, perché Trieste non poteva essere considerato porto militare, era troppo aperto, mentre Pola era difeso. E pertanto c'era questo Arsenale Militare che ha fatto diventare Pola una città fondamentalmente industriale."
4) Parliamo un attimo della distribuzione della popolazione...
R.: "Dunque, per quello che so io - io conoscevo solo italiani - la popolazione era notevolissimevolmente italiana. I numeri dell'esodo parlano che il 90% e giù di lì sono andati via, e diciamo che sono andati vi al 90% italiani. Ritengo che Pola fosse veramente italiana per una serie di motivi. Era italianissima. Gli slavi erano considerati cittadini di serie B, si direbbe oggi. Anche nella nostra famiglia, quella di mia mamma che viveva e lavorava in campagna, gli operai erano slavi. Addirittura mia nonna che aveva perso suo marito molto presto, si era messo con un lavorante delle nostre campagne che era croato e che [poi] è diventato mio nonno, cioè io l'ho conosciuto come mio nonno e l'ho sempre chiamato nonno. E lui parlava istro-croato, quello strano idioma che è veramente strano che parlano gli istriani dell'interno e cioè i croati in sostanza. Diciamo pure che Pola era italiana e che attorno a Pola nelle campagne c'erano gli slavi, che erano un po' i fratelli poveri, perché i commerci, i traffici e le industrie ce l'avevano in mano gli italiani e loro erano un po' delle riserve, non dei cittadini di serie A, decisamente. E se vogliamo, questo è stato uno dei motivi che hanno determinato il nostro esodo, forse il secondo motivo, perché il primo è stato la non accettazione del regime che stava arrivando, mentre il secondo era questo fatto che i cittadini di serie B diventavano padroni. Quello che i miei non hanno mai accettato e che è stato il secondo motivo per cui ce ne siamo andati. Pertanto, per rispondere alla sua domanda, Pola era italiana e gli slavi stavano nelle campagne e facevano vita più grama, insomma."
5) C'erano contatti tra italiani e slavi?
R.: "Si, io credo di si. A parte la differenza di lingua - che ognuno stava con la sua -c'era la possibilità di parlare questo strano linguaggio che credo si sia praticamente perso adesso, che rendeva più facili i rapporti. Diciamo che noi italiani - per quello che mi ricordo io - vedevamo lo slavo come un cittadino di secondo livello, ecco, questo si. Non c'erano - generalizzando - dei rapporti paritetici: c'era questa asensazione che l'italiano era meglio dello slavo, però non mi ricordo di auricolari cose negative. Addirittura noi quando siam venuti via abbiam lasciato la nostra casa in affitto - che l'ha pagato per tre mesi - a una partigiana jugoslava - croata di lingua croata - che parlucchiava anche italiana. Questo è un piccolo esempio per dirle che non c'erano - almeno da noi - dissidi: in faniglia avevamo un nonno croato ed era un convivere abbastanza tranquillo. E questo era anche dovuto ai vecchi che sono stati sotto l'Austria, e sotto l'Austria la multinazionalità era piuttosto gradita, era piuttosto rispettata, ecco. C'era questa forma mentis che li faceva convivere abbastanza tranquillamente."
6) Cosa che poi dopo - col fascismo prima e con Tito poi - non è più avvenuta. Indubbiamente lei era molto piccolo, quindi credo che del periodo fascista ricordi davvero pochissimo. Tuttavia le hanno raccontato degli episodi particolari?
R.: "No, dell'epoca fascista io personalmente son venuto a saperne quando ho approfondito per conto mio leggendo dei vari libri, Oliva e non Oliva, che ne ho a casa parecchi. Non sapevo molto e l'ho imparato per conto mio studiando. Invece sapevo - anche perché avevo visto qualcosa da ragazzo - e mi ricordo di una colonna di soldati - erano tanti - che poi li han fucilati tutti. Han sparato più o meno per un giorno e mezzo, han sparato per delle ore, adesso non mi ricordo. Avevo sei anni e allora avevo capito che c'era qualcosa. Altrimenti del resto non sapevo. Del fascismo io non avevo sentito parlare delle nefandezze e delle cose che anche i fascisti han fatto, mentre si sapeva che gli slavi ce l'avevano con noi. E infatti noi siam scappati nel '44, siamo andati via un anno e mezzo sfollati, perché mio papà era a Lero in Grecia, cioè lui era andato lì per guadagnare qualche lira di più ed è invece stato lì sette anni - sei anni e mezzo - perché è stato fregato dalla guerra. Mia madre era sola con due figli, e allora siamo andati ad abitare a Buie, dove c'era mio zio e il fratello di mio cognato, che ci ha fatti venire lì perché lì era più tranquillo, [mentre] a Pola si rischiava. Si rischiava [di prendere] botte e si rischiava anche di essere buttati da qualche parte. Insomma, si sapevamo di queste cose, lo sapevamo anche noi ragazzi di queste cose che capitavano con i titini, ma assolutamente io di fascisti allora non avevamo mai sentito [parlare]. Ma non si parlava neanche di fascisti allora, non so."
7) Mi ha parlato di una colonna di soldati. Mi racconta più precisamente l'episodio?
R.: "Erano ragazzi giovani - vecchi per me che avevo sei anni - ed erano soldati, credo italiani. Mia sorella dice italiani e lei, avendo undici anni più di me, ha più memoria storica di me. Lei dice che sicuramente c'erano degli italiani e forse anche dei tedeschi. Erano tutti militarizzati, perché avevano tanti la stessa maglietta - una maglietta intima bianca, non militare - ed erano legati col fil di ferro così davanti [ai polsi], e marciavano in file di otto dieci persone. Passavano sotto al paese, tutti legati col fil di ferro e di fianco marciavano sti soldati di Tito già ben vestiti, perché all'inizio erano vestiti un po' casuals, cioè vestiti un po'così, come potevano e lì invece avevano già - mi ricordo- la divisa, la bustina, la stella rossa e i mitra. E li scortavano e andavano verso fuori: avevano attraversato il paese, sono andati abbastanza lontano e poi si è sentito sparare per tanto tempo. E mi ricordo uno che fumava e fumando [avendo i polsi legati], doveva portarsi la sigaretta alla bocca e quelli che gli marcavano vicino dovevano anche loro alzare le braccia. Questo tizio che fumava mi è rimasto impresso, e anche gli altri che dovevano alzare pure loro il braccio per consentire a lui di mettersi la sigaretta in bocca. [Questo] è l'unico avvenimento un po' così che ho sentito o che ho visto in questo caso. Questo è successo a Buie nel '45, adesso non so il mese, ma siamo stati lì dal '44 - fine anno - fino al '45 - fine anno - ed è stato in quel [periodo] lì, un momentino un pochino bruttino, ecco. Mi sembra che ci fossero ancora i tedeschi, ma non voglio dire inesattezze...Non so se la guerra fosse finita, non posso dirlo, non me lo ricordo."
8) C'erano ancora i tedeschi, mi ha detto. Posso chiederle qual è il suo ricordo dei soldati tedeschi?
R.: "Mah, io me li ricordo bene. Mi ricordo i tedeschi casinisti che facevano tanto rumore, e me lo ricordo bene. Il tedesco era apprezzato da noi, mia madre lo parlava, era nata sotto gli austro - ungarici e lei parlava tre o quattro lingue, per forza! [Il] suo patrigno era croato pertanto doveva parlare croato, l'italiano lo parlava, il tedesco lo parlava perché le scuole erano fatte tutte lì. Il tedesco da noi non era mal visto, era gente considerata corretta, gente dura, gente organizzata e inquadrata...Teste quadre le chiamiamo noi, pertanto era considerato positivamente, mentre erano considerati un po' così, come dei sempliciotti gli slavi, ecco."
9) Prima mi diceva - immagino parlando dei partigiani titini - che erano vestiti un po' casuals. Parole le sue che coincidono con molte altre testimonianze. Lei cosa ricorda dei partigiani titini?
R: "Io non mi ricordo tanto l'ingresso dei partigiani, perché non eravamo presenti, eravamo a Buie. Però ricordo un grosso gruppo di partigiani croati - slavi, che son venuti a casa nostra di notte perché avevano fame. E me li ricordo seduti per terra nella cucina - erano sette o otto - e mia madre che dava quel pochissimo che avevamo da mangiare - perché non ce n'era - e loro si son seduti, dopo aver lasciato fuori le sentinelle. E poi si davano il cambio, entravano e mangiavano un pezzo di pane, non ricordo cosa mangiassero. Però erano tutti veramente mal combinati, non sembravano militari, per me non lo erano. Si, erano militari perché avevano i fucili e le robe così, le armi, ma quelli che ho conosciuto io erano abbastanza mal combinati, anche al fondo della guerra. Seppure poi pian piano [migliorarono un po'] come ad esempio quelli che scortavano a Buie questi ragazzi nel '45 legati col filo di ferro, quelli erano ben vestiti. Quelli che da bambino mi hanno messo addosso una giacca - me la ricordo ancora adesso - era una giacca militare di quel panno pesante."
10) Quando è avvenuto questo episodio della giacca?
R.: "Eravamo a Buie, e loro si erano rifugiati nel sottotetto [della casa] dove abitavamo noi. E io ero ragazzino, avevo sei anni, e li vedevo. Noi però giocavamo, non ci rendevamo conto di niente di strano. Mi ricordo che non ci capivamo, perché loro parlavano slavo e noi italiano, e un giorno mi han preso e mi han portato su sopra questa rampa e lì erano tutti seduti. Tanti ce n'erano otto o dieci, roba così. E io ero un ragazzino e mi han messo addosso questa giacca che mi ricordo era verde, pesante di panno militare, che aveva una bustina con la stella rossa e poi mi han dato sto mitra che pesava moltissimo. Ma lo han fatto per ridere, poi scherzavano, anche se io non so poi cosa dicessero, io non mi ricordo. Io pensavo a sto mitra, perché sto mitra era una cosa che mi dava un po' di soggezione e avevo paura. Però non mi han trattato male, scherzavano."
11) La guerra lei l'ha vissuta a Buie, quindi dei bombardamenti di Pola non ricorda nulla...
R.: "Si, si, perché a Buie sima stati solo dal '44 in poi, pertanto i bombardamenti mi ricordo. Mi ricordo del fumo nero e mi ricordo che scappavamo nei rifugi, che poi erano delle cantine vicino a casa nostra: c'era chi aveva la cantina e noi ci mettevamo lì dentro. Mi ricordo di aerei che cadevano, dei traccianti di notte. Poi a un certo punto non correvamo neanche più, tanto che mia madre faceva mettere me e mia sorella in cucina sotto il tavolo e stavamo lì. Insomma, bombardamenti da noi ce ne sono stati pochi, è caduta qualche bomba ma non moltissime, perché noi eravamo un po' fuori, non in campagna ma vicino non avevamo industrie, non avevamo niente, e lì bombardavano le industrie o robe militari che dalle parti nostre non c'erano. Pertanto non c'era un pericolo diretto, mia madre ci faceva correre, mi ricordo. A casa ho anche una spoletta di una bomba che è caduta sfiorando mia sorella - sa che la bomba ha la spoletta dietro che mentre cade si svita - e me la sono portata a casa mia. La bomba è caduta vicino a mia sorella mentre correvamo al rifugio, e ci andavamo sovente, però a un certo punto erano talmente tanti sti bombardamenti che restavamo a casa. C'era l'oscuramento, non c'era la luce, e quando si accendeva avevamo tutte le finestre coperte con della carta o degli stracci. E mia madre ci faceva stare a casa coi bombardamenti, me li ricordo. Mi ricordo che erano tanti, e che c'era un continuo via vai di aerei con sti rumori di aerei carichi e pesanti che poi sganciavano bombe o passavano sopra la testa per andare oltre...Ho visto cadere tanti aerei durante il giorno. Per noi era non dico divertimento, ma quasi: avevamo sei o sette anni e non ci si rendeva conto di quello che era. Io vivevo con mio cugino che ha un anno più di me, ed eravamo quasi sempre insieme. Poi della guerra mi ricordo ste case rotte, ste case bombardate. Mi ricordo anche quando ero all'asilo, che lì in asilo tante volte ci facevano andare sotto i rifugi, e mi ricordo calcinacci, coppi, mezze case che cadevano. Noi eravamo sotto e da un abbaino a livello strada si vedevano queste cose. Comunque si, mi ricordo dei bombardamenti, ma non abbiamo avuto grazie a dio problemi. E poi, ripeto, noi bambini non ci si rendeva conto delle difficoltà e dei pericoli, come tutti i bambini. Mi ricordo anche particolarmente di Vergarolla, di cui sicuramente ha sentito parlare."
12) Cosa ricorda di quel giorno a Vergarolla?
R.: "Quello me lo ricordo bene. Me lo ricordo come questo grande scoppio che abbiamo sentito chiarissimo. Noi abitavamo a Castagner, che è uno dei sette colli di Pola, che dicono che Pola assomiglia a Roma perché ha sette colli e in effetti è vero, sono colli di ventidue metri di altezza. Noi stavamo su una di questi colli, monte Castagner che è più alto degli altri e avevamo davanti il mare. Abbiamo sentito uno scoppio - me lo ricordo benissimo - e abbiamo visto questa grandissima colonna di fumo che saliva. Poi abbiam capito cosa era successo, ma diciamo che il fumo era abbastanza normale - anche sa la guerra era finita, di bombardamenti ne avevamo visti tanti - ma quel fumo lì è stato eccezionalmente grosso e ha terrorizzato tutti. Mi ricordo che mia madre era terrorizzata, perché mia sorella era lì vicino: loro erano fuori con la barca, e son stati risparmiati per sedere, perché mio cognato aveva una barchetta a vela e veleggiavano lì davanti. Pertanto son stati investiti dall'onda d'aria, ma non hanno avuto nessun problema. Mentre io mi ricordo di questo grande scoppio e di questa grossissima colonna di fumo che saliva. Grossissima rispetto a quelle dei bombardamenti, che erano piccoline rispetto a questa qua. Perché lì c'è stata una sberla mica mael,eh!"
13) E le ambulanze che sfrecciavano per le vie della città le ricorda?
R.: "No, quelle no perché l'ospedale era prima di casa nostra, pertanto non arrivavano fino da noi e non mi ricordo nemmeno se si sentivano le sirene. Mi ricordo invece dei funerali, di tutta la gente."
14) Funerali molto partecipati?
R.: "Eh la madonna! Si, si. Noi eravamo proprio ai giardini, e tutti c'erano, è stata una cosa grandissima, anche perché son morte 70-80 persone. E anche lì noi [come famiglia] non abbiamo avuto nessuno che ha avuto male, ma eravamo lì come cittadini della città di Pola. Però sa, 80 persone [morte vuol dire che] famiglie ne sono state colpite tantissime. C'era un'immensità di gente, i polesani per quello che so io erano molto amici tra di loro, era gente che cantava, beveva volentieri, mangiava bene per i tempi di allora. [Questo per dire che] si viveva molto in comunità, e [Vergarolla] ha toccato molto la comunità, moltissimo, e decisamente sotto il profilo esodo è stata una botta importante che ci ha fatto prendere forse le ultime decisioni ai miei genitori. Mio padre aveva già deciso prima, perché mio padre è rientrato dalla Grecia nel '46. Nel 1938, per guadagnare qualche lira in più dato che non poteva fare carriera all'Arsenale di Pola non avendo mai voluto iscriversi al PNF/Partito nazionale fascista aveva fatto domanda per andare a Lero nel Dodecanneso ad aggiustare navi sempre in un Arsenale Militare. E' partito che avevo tre mesi, ed è tornato che avevo sette anni, per cui quando io l'ho visto non sapevo fosse mio padre perché non l'avevo mai visto in teoria. Poi lui è andato subito a Venezia, perchè già allora si sapeva o si aveva paura che le nostre terre passassero sotto la Jugoslavia e a lui è stato offerto di andare a Spezia, a Venezia e a Taranto, nei tre arsenali militari che avevamo da questa parte dell'Adriatico. Lui ha scelto Venezia per essere più vicino e se n'è andato nel '46, subito. Come è arrivato da Lero, è partito subito accettando subito il posto a Venezia, ed è per questo che noi non siamo venuti subito a Torino."
15) Parliamo dell'esodo. Voi quando siete partiti?
R.: "Nel febbraio del '47. A fine febbraio, perché io ho compiuto otto anni sulla nave. Che io compio gli anni al 5 di marzo, pertanto eravamo sulla nave, stavamo sbarcando - adesso non mi ricordo - e ho compiuto gli anni. E abbiamo fatto Pola - Venezia sul Toscana."
16) Lei lo ricorda il viaggio?
R.: "Mi ricordo tanto freddo. Mi ricordo tanto freddo, tanto freddo, perché si doveva stare parecchio fuori, roba così. E mi ricordo freddo, tanto freddo. Forse, magari poi ho anche dormito, ma questo non lo ricordo, mentre il freddo, tanto, lo ricordo. [Poi] mi ricordo che correvamo noi ragazzini lì sul ponte della nave. Il viaggio in sé non è che me lo ricordi tanto. Mi ricordo il distacco da Pola perché mia madre piangeva. Mi ricordo il distacco da Pola, e mi ricordo che poi come si usciva c'era un cartello stradale con su scritto Pola. Ecco, mi ricordo questa cosa qua, poi però il vaggio in sé non me lo ricordo. Mi ricordo l'arrivo a Venezia, che è stato abbastanza tragico, perché siamo attraccati a Riva degli Schiavoni e non ci lasciavano scendere. Mia madre che di nuovo piangeva, perché mio padre non c'era, era già a Venezia e, tra l'altro, non ci aspettava all'arrivo della nave, e questo non so perché. Non ci aspettava. Lui lavorava a Venezia e probabilmente ci siamo visti dopo. Non ci lasciavano scendere, perché c'erano questi qui con le bandiere rosse che ci dicevano fascisti, fascisti! E mia madre che piangeva e diceva: ma come, siamo andati via di là e adesso veniamo qua e non possiamo scendere? Poverina, era un po' in difficoltà. Questo mi ricordo del viaggio...Però il viaggio in sé non lo ricordo."
17) Quindi c'era una folla di persone che vi aspettava per non farvi sbarcare?
R.: "Non una folla, un gruppo di ragazzetti, un gruppo di gente che avevano cinque o sei bandiere rosse, mi ricordo questo. Noi li vedevamo dall'alto che piantavano cine e non volevano lasciarci scendere e gridavano: fascisti, fascisti! Poi questo me lo ha raccontato anche mia mamma dopo, e anche mia sorella. Lei sentiva bene, e piangeva perché questi qua sotto non ci lasciavano scendere. E lei diceva: cosa farò adesso senza marito e con due figli? Insomma, aveva - poveraccia - un po' di problemi. Insomma, mi ricordo questo del viaggio, la partenza e l'arrivo."
18) A proposito della partenza. Pola ha visto partire circa 28.000 dei suoi 32.000 abitanti. C'era la percezione di una città che si svuotava?
R.: "Si, si...C'erano tutti sti carri trainati da buoi e da cavalli, qualche camion, qualcosa...Prima di tutto io mi ricordo i martelli e le casse che si inchiodavano. Noi eravamo ragazzi, correvamo di qua e di là, e in ogni casa per tutto il giorno si sentiva solo battere e inchiodare casse. E poi si, io Pola vuota non me la ricordo più di tanto, però mi ricordo di tanta gente che andava via: noi stessi, quando siam partiti, il molo era pieno di gente e di masserizie. Che, tra l'altro, aveva nevicato, era una delle poche nevicate, che di neve ne era venuta abbastanza e faceva tanto freddo. Da Pola sono andati via tutto, però, quando siamo andati via noi, altri son partiti dopo. Io l'ho vista mezza vuota [la città] per quello che mi ricordo io. [Ho visto] - questo si che me lo ricordo - dei miei amici che erano già partiti, oppure che sarebbero dovuti partire subito dopo di noi. Indubbiamente si è svuotata, ma questo probabilmente l'ho saputo dopo, anche se io mi rendevo conto, perché si vedevano sti carri passare [per le strade della città] coi mobili sopra. Perché il trasporto allora si faceva con carri normalmente trainati da buoi, che i buoi lavoravano la terra e li usavano anche per portare i carri con sopra qualcosa. E quella volta sui carri, che andavano tutti verso il porto, c'erano i mobili. Io mi ricordo il Toscana e sta città in movimento, sto inchiodare le casse mi ricordo io, anche perché a casa nostra era un continuo inchiodare! Tutti inchiodavano casse, che poi anche i chiodi mancavano, può capire, non c'era nulla, mancava tutto e ci si aggiustava come si poteva. Io mi ricordo questo, e sicuramente Pola si era svuotata, questo sicuramente."
19) Della sua famiglia siete partiti tutti oppure qualcuno è rimasto?
R.: "Dunque, lì c'è stata un po' la rottura. Mia madre era del 1902 e mio padre del 1900, pertanto siamo andati via che mia madre aveva quarantacinque anni e mio padre quarantasette. Non [erano] vecchi, però per allora erano già vecchiotti, perché allora a cinquant'anni si era già non dico vecchi, ma avanti nell'età. Da parte di mio papà i vecchi [della sua famiglia] erano morti tutti, [ma] lui aveva anche un fratello che è rimasto lì, a Buie. Lui è rimasto lì perché aveva un buon lavoro, gestiva la centrale elettrica di Buie, aveva un buon posto di lavoro che gli è stato mantenuto anche dalla Jugoslavia, perché lui era un tecnico della luce, e allora c'era bisogno di chi sapeva fare un mestiere e lui lo sapeva fare bene e ha deciso di rimanere. Anche perché viveva a Buie, che era un po' più fuori mano, un po' più tranquilla, mentre forse a Pola c'era già un po' più di casino. Mio padre invece ha deciso di andare [via] anche sotto la spinta di mio cognato, quello che poi sposò mia sorella, che era del '25 - è morto l'anno scorso - e lui si trovava a ventidue-ventitre anni e voleva andare via, lui lì non voleva stare. I miei...Io tante volte ho chiesto a mia madre il perché siamo andati via, beh, non me l'ha mai saputo dire. Purtroppo mio padre è morto che io avevo sedici anni, e queste domande non ho mai potuto fargliele. Mia madre non ha mai spiegato...Non è stata forse una decisione [tutta loro], lo ha forse deciso più mia sorella in funzione di suo fidanzato, che poi è diventato suo marito. Loro erano giovani e non volevano stare lì. Mia madre è venuta via non dico contro voglia, ma con parecchio sforzo più dei giovani. Ed è rimasto lì suo fratello, che era quattro anni più vecchio - era del 1898, mi pare - che lui non voleva assolutamente muoversi. Lui lavorava la terra, [mentre] mia madre aveva invece lasciato la campagna perché mio padre aveva un mestiere ed è venuta ad abitare in città, mentre nella campagna - e ne avevamo tanta!- è rimasto invece suo fratello. Il terzo fratello - erano in tre - verso la fine degli anni Venti, perché lui navigava. Ecco, a Pola, chi non lavorava nell'industria navigava, erano tutti marittimi. Uno di questi era mio zio, terzo fratello di mia madre, che lui una volta che passavano da New York, è sbarcato e non è più risalito sulla nave, ha chiesto asilo lì ed è stato lì. E' morto poi in Australia, ma comunque sarebbe morto negli Stati Uniti se fosse rimasto là. Pertanto, di tre fratelli, uno è andato, l'altro è rimasto uno era già andato via. Chi è rimasto ha fatto vita molto grama, e diciamo che ci son stati anche dei problemi per le terre, che noi avevamo tantissima terra. Terra, mucche...Insomma, lavoravano, ci davano dentro, erano dei grossi lavoratori e in campagna si difendevano bene, e quando siamo andati via abbiam perso tutto. C'è stata comunque questa divisione. Il fratello di mio padre, quello che lavorava alla centrale elettrica, è durato tre o quattro anni, poi un giorno - lui aveva un Falcone della Guzzi, un 500 - ha caricato la moglie dietro e la figlia davanti e con la moto è andato a Trieste e non è più tornato indietro. Non ha neanche portato una borsa, è scappato così e basta, pertanto è partito due o tre anni dopo. L'altro zio da parte di mia mamma, invece ha continuato a fare il contadino per il resto della sua vita ed è rimasto lì. Comunque della famiglia si, ci siam divisi e, sostanzialmente, in quell'occasione, siamo andati via noi per primi."
20) Voi siete andati via, ma una minima parte di italiani è rimasta. In proposito posso chiederle secondo lei come mai chi rimane fa questa scelta? Solo per motivi politici - che indubbiamente ci saranno stati - o anche per altre ragioni?
R.: "Vede, [ad esempio] mio zio è rimasto perché aveva un'età un attimo più avanzata di quella di mia madre. Lui era sua cinquant'anni e voleva stare lì, voleva morire lì, tanto lui - e questo lo diceva anche dopo quando nel '59 siamo ritornati per la prima volta - continuava a vivere lì. Ha fatto vita grama, sapeva che a stare lì non andava a star bene, così come presumeva che noi che siamo andati via avremo avuto delle difficoltà a star bene, perché era finita la guerra per tutti, pertanto anche a venire qui non è che sarebbe stato facile. Infatti noi avremmo dovuto andare via, andare in America o in Australia e forse lì sarebbe stato più facile inserirci. Chi è rimasto - mio zio in particolare - lo ha fatto per una questione di età e per una questione di coraggio, [perché] ci va del coraggio a prendere una decisione così, e lui non ne aveva molto: era un contadino, un grosso lavoratore e tanto di cappello. Mia zia uguale. Pertanto non erano comunisti, non erano di nessun colore, non ho mai sentito niente che mi dicessero di che tendenza fossero. Neanche i miei peraltro: io non ho mai capito mio padre per chi votasse. Non me lo ha mai detto, non l'ho mai capito: credo che fosse un DC, come la maggioranza degli italiani di allora. Pertanto per chi è rimasto, nel caso mio, non nsi è certo trattato di una decisione [presa] per motivi politici. No, avevano meno coraggio, avevano un'altra età e [si son detti che] per stare male via sto male qua, almeno sono a casa mia. Una cosa di questo genere. Indubbiamente ci sono stati della gente che invece è stata lì per motivi politici. Tra l'altro mi fa venire in mente [la storia] di una persona che ho letto su [un libro] di Pansa - che ultimamente si è convertito!- dove c'è il nome di un nostro parente, che era Ferruccio Nefat. Lui è andato a finire a Goli Otok, all'isola Calva, insieme a tutti i veri duri comunisti di allora. L' hanno messi lì perché dopo la rottura tra Tito e Stalin, chi ha voluto mantenere le idee tradizionali del comunismo era malvisto in Jugoslavia, e li hanno mandati là. Lui era un nostro cugino di secondo grado, che pure lui è andato a finire a Goli Otok, da dove è tornato vivo, grazie a dio. E lui sicuramente è rimasto lì per motivi politici, qui non ci piove. Come tanti. Come [ad esempio] quella partigiana jugoslava di cui le parlavo prima che ha affittato la nostra casetta in via Monte Castagner: lei era una convintissima partigiana comunista, ma proprio di quella che sfilavano con le bandiere. E quindi quelli son rimasti per motivi politici. Ma non tutti i rimasti lo hanno fatto per motivi politici, non tutti."
21) Le chiedo soltanto più una cosa sull'esodo. E cioè che cosa siete riusciti a portare via con voi?
R.: "Il pianoforte che suonava mia sorella, e pochissima altra roba, [e cioè] la stanza da letto dei miei genitori, qualche piccolo mobile...Ma non avevamo neanche mica tanta roba da portare via, non c'erano le case guarnite come le abbiamo adesso. Diciamo che poi la nostra casa era piccolina, non c'erano tanti mobili. Abbiamo portato via abbastanza roba, non abbiamo lasciato lì molto: abbiamo lasciato la cucina, abbiamo lasciato il bagno...Abbiamo portato via abbastanza roba...
Comunque, fondamentalmente, abbiamo portato via la stanza da letto dei miei genitori e il pianoforte."
22) Lei dopo essere partito da Pola arriva a Venezia. E cosa succede?
R.: "Lì andiamo a finire in una caserma che si chiamava Sanguinetti, che era un grosso capannone che chiamavano caserma e mi pare che esista ancora adesso. Lì ci han messo in un enorme camerone con tante colonne e con gli spaghi tirati da una colonna all'altra su cui ci si appendevano le coperte per dividerci. Che ognuno aveva un box, uno stand per dividerci all'interno del salone: ogni famiglia aveva un box, e vivevamo lì dentro. Ci siamo stati un po' di mesi, ma noi abbiamo avuto la fortuna che siccome mio padre era venuto via prima e già lavorava a Venezia all'Arsenale e si era fatto un po' di amici [tra gli abitanti] locali, abbiamo trovato una stanza a Mogliano Veneto tra Venezia e Treviso, e pertanto dopo pochi mesi - siamo stati pochi mesi a fare la vita alla caserma Sanguinetti - siamo riusciti ad andare via. [Siamo andati a stare] in una stanza [che] forse era ancora più piccola di quella che avevamo in caserma, ma almeno in mezzo a dei muri! [E lì] ci stavamo tutti e quattro, io, mia mamma, mio padre e mia sorella. Di Venezia mi ricordo sta caserma Sanginuetti."
23) Riesce a descrivermi com'era la vita all'interno della caserma?
R.: "Io mi ricordo che si mangiava in delle gamella di alluminio, su dei tavoloni, visto che eravamo tanta gente. Si mangiava...Mi ricordo che qualcuno ci dava da mangiare, [perché] noi nel posto che ci avevano assegnato non c'era la possibilità di cucinare, ci stava un letto e stop. E probabilmente un armadio...Si, noi un armadio lo avevamo, ma non era nostro, perché la nostra mobilia l'abbiamo avuta dopo. Pertanto non ci poteva far da mangiare, qualcuno ce lo faceva - soldati o chi fossero non lo ricordo - e noi, comunque, si mangiava pranzo e cena."
24) All'interno della caserma c'erano dei servizi come ad esempio scuola, asilo o infermeria?
R.: "No, no, io mi ricordo una caserma nuda e cruda. Forse da qualche angolo c'era qualcosa che io non ho visto, ma non mi ricordo. Era proprio una roba preparata il giorno prima, cioè deciso il giorno prima di mettere lì questa gente. Era una caserma dove tutta la nostra nave Toscana, è stata scaricata tutta lì. Ed eravamo tanti eh! Poi da lì noi siamo andati via per conto nostro, perché mio papà aveva trovato questa stanza [a Mogliano Veneto], e siam rimasti lì fino al '56, quando poi mio papà è morto per malattie prese durante la prigionia giù nel Dodecanneso, che lì è stato prigioniero un po' dei tedeschi e un po' degli inglesi, è stato un casino da non finire! Direi che noi siamo andati via dalla caserma per conto nostro e gli altri li abbiamo persi di vista."
25) La vita in caserma era dunque come quella nel campo profughi...
R.: "Si, si. Noi giovani stavamo magari fuori, [anche se] faceva freddo, perché quando siamo arrivati non era bel tempo. E io mi ricordo poi di un cortile dove giocavamo - avevo otto anni allora e mi ricordo di questo cortile - però se vogliamo parlare di intimità e queste cose, non c'erano proprio per niente. Si era tutti insieme, c'era sta coperta ma comunque si sentiva scoreggiare e qualunque roba!"
26) Quando arriva a Torino e come mai?
R.: "Perché mio cognato, che è sempre stato l'artefice della nostra vita, pure lui si era fermato a Mogliano Veneto e aveva iniziato delle attività e ha trovato difficile sopravvivere. Contemporaneamente suo cognato - cioè quello che aveva sposato la sorella di mio cognato- era venuto a Torino perché diceva che a Torino - città grande di qua e di là - ci sarebbero state maggiori possibilità di stare meglio, e pertanto lui - cioè il cognato di mio cognato - è partito per primo, dopo un po' è partito mio cognato, poi nel '50 si è spostata mia sorella ed è venuta a Torino. Io, personalmente, sono venuto a Torino la prima volta a fare la prima magistrale - ho fatto due classi di magistrali - nel '52-'53, che son venuto qui una volta e poi son ritornato giù. Poi siamo venuti su tutti quando mio papà è dovuto andare in pensione - poi è morto subito dopo - e nel '56 ci siam trasferiti tutti qua perché c'era mia sorella."
27) Siete andati a stare nel Villaggio di Santa Caterina?
R.: "No, no. Noi dalla Caserma Sanguinetti in poi non abbiamo più fatto parte dell'universo dei profughi."
28) Suo padre lavorava all'Arsenale ed era quindi un dipendente pubblico al quale lo Stato aveva in un certo senso tenuto il posto di lavoro. Un po' come le tabacchine...
R.: "Si, si. Addirittura ce lo avevo anche io: quando mio papà è morto - io ero ancora giovane - a me è stato offerto [un posto all'Arsenale. Infatti] quando poi ho fatto a diciotto anni la visita di leva e son stato dichiarato esente dal servizio militare perché ero figlio unico maschio di madre vedova, mi hanno detto che se volevo potevo andare. Siccome, nonostante fossi stato dichiarato esente, mi hanno fatto scegliere l'arma dove nel caso di necessità avrei preferito andare - io ho detto Marina, può capire!- e allora mi hanno detto che dato che mio papà era un dipendente dell'Arsenale di Venezia, anche io come figlio avevo il diritto di entrare in Arsenale. E fra l'altro è stato anche un momento che ci ha fatto pensare in famiglia, perché abituati come eravamo che mio padre ha sempre lavorato in Arsenale, mia madre forse avrebbe preferito che fossi andato anche io. A me invece non piaceva, ho detto di no e siamo venuti a Torino ed è cominciata la nostra vita qui. Però, ripeto, non ho vissuto molto con gli istriani: non conosco istriani e ho ripreso i contatti [con loro soltanto dopo] il primo giorno del ricordo."
29) Posso chiederle, ricollegandomi al vostro arrivo a Venezia prima e a Torino poi, come siete stati accolti, che tipo di accoglienza avete ricevuto dalla popolazione locale?
R.: "Diciamo che... No, fascista no, io non mi ricordo di queste parole, non mi ricordo di queste parole, a parte le bandiere rosse sotto la nave. Con noi non mi ricordo di gente che ce l'ha avuta a male. Con mia sorella forse si, perché lei era maestra e ha preso il diploma - lei dice me l'hanno regalato, e forse in parte è anche vero!- nel '45-'46, quando andava tutto bene. Non aveva studiato probabilmente, e non c'era neanche tanta possibilità di studiare...Comunque lei è diventata maestra, e quando è venuta qui - anche nel veneto - lei per il fatto di essere profuga aveva avuto dei punti in più. E questo la recava malvedere dai suoi colleghi, perché gente che magari aveva più anni di anzianità, che pretendeva il posto fisso e non più la supplenza, veniva magari superata da lei e in quel caso mi ricordo che mia sorella era malvista dai suoi colleghi. Per questo fatto che c'è stata questa regalia, questo omaggio, fatto dal governo italiano a noi profughi e in particolare a mia sorella maestra. Di mio padre non ho sentito che è stato male accolto a Venezia, invece con mia sorella si, lei diceva sovente che aveva avuto problemi con questi punti che le sono stati regalati, che poi era suo diritto ottenerli, ma che ci facevano mal vedere un po' dai locali che si trovavano un po' baipassati da noi altri che arrivavamo sicuramente da fuori, se non dall'estero."
30) Anche perché credo che le persone non avessero la minima idea di quelle che erano state le vostre vicende...
R.: "Questo si, anche se mi è sempre sembrato strano. Mi è sempre sembrato strano, ma probabilmente è così, perché tutt'oggi, anche se si fa un po' di rumore, c'è gente che non sa. Miei amici cui devo spiegare io le cose. Ancora oggi c'è gente che non vuole parlarne o non vuole saperne di queste cose. Sicuramente allora c'era gente che non ne sapeva, e forse questo è comprensibile, perché i problemi erano altri e tutti ne avevano da vendere, per cui non era il caso di interessarsi ai problemi altrui."
31) Prima, parlando delle foibe, mi ha detto una frase che mi ha colpito, e cioè noi sapevamo che la gente spariva. In che senso?
R.: "Ma perché si parlava. Si parlava e si diceva: sai che quello stanotte sono venuti a prenderlo...Sentivo mia madre che parlava di queste cose, diceva son venuti a prenderlo, chissà se lo vedremo ancora."
32) Quindi delle foibe voi avete sentito parlare fin da subito...
R.: "Noi si sapeva anche allora, però per quello che mi ricordo io sembravano avvenimenti molto sporadici, quasi vendette personali. Le foibe ci son sempre state da noi, probabilmente c'è dentro tanta gente che per motivi vari, nei secoli, sono stati buttati là dentro o si son buttati. Allora si parlava di queste cose, si sapeva, però se non proprio negli ultimi tempi quando si è deciso di andare via, io non mi ricordo si alludesse a problemi politici. Cioè le foibe, diciamo che non le ho legate mai se non negli ultimi tempi agli aspetti politici. Però poi si, quando negli ultimi tempi la gente spariva si capiva, anche perché poi magari spariva gente compromessa che si conosceva. Diciamo che mia madre diceva sempre che quelli che erano i veri compromessi, hanno tagliato l'angolo prima, hanno annusato l'aria e hanno deciso che era meglio darsela. Però, indubbiamente, si sapeva che esistevano [le foibe], non si conosceva l'entità perché si avevano poche informazioni, però nel nostro piccolo - perché la gente mormorava - si sapeva che la gente spariva. Sempre di notte, e questa cosa della notte io me la ricorderò sempre. Sempre di notte: arrivavano di notte, li prendevano e li portavano via. Sempre le solite scene: prendevano il padre e il figlio da casa, questo si, me lo ricordo, tante volte ne ho sentito parlare. Ho sentito parlare di gente che abitavano vicino a noi che poi son spariti e probabilmente non si son mai più trovati. Noi avevamo paura, la stella rossa a me ancora oggi mi incute terrore, anche la divisa. Più che altro [la divisa] prima mi incute rispetto e poi mi fa un po' paura. E loro [i titini] lì facevano paura e poi erano descritti...Ad esempio anche la stampa locale [li descriveva]...Noi avevamo un giornale locale umoristico, si chiamava l'Espin, cioè la spina della rosa, ed era un giornale umoristico dove c'è sempre stato anche in tempi non di guerra fredda o di problemi tra le due etnie, c'è sempre stato un po' di campanilismo spinto e il croato era descritto sempre come uno straccione, sempre con la barba lunga, sempre come un poveraccio, sempre mal combinato, sempre ignorante. E pertanto diciamo che i croati - per me bambino- erano delle persone che mi facevano paura: l'orco cattivo, parlava croato, insomma, ecco. Ce l'avevamo un po' dentro."
33) Lei torna spesso a Pola?
R.: "SI, si."
34) Ne ha nostalgia?
R.: "Beh, io l'ho scoperta la nostalgia. Come le ho detto, io mi sono allontanato volutamente dagli ambienti istriani, perché, mi sono detto, sto a Torino, parlo piemontese - mi difendo!- ho sposato una ragazza di Alba e pertanto non ho niente da fare con gli istriani. Ho tentato di piemontesizzarmi. Di nostalgia per l'I stria ne ho molta, ma l'ho scoperta dopo. E in questo mi ha aiutato mia moglie, perché lei ha scoperto delle belle terre, dei bei posti, ha scoperto i parenti che ho ancora lì, perché noi siamo tornati nel '59 - cioè dodici anni dopo, e mio padre che era già morto non sarebbe mai tornato -, mia sorella è tornata solo in occasione delle morti di mio cugino e di mia zia altrimenti lei non sarebbe mai andata e mio cognato nemmeno. Loro proprio l'hanno patito questo colpo. Io mi sono sposato nel '65 e subito dopo abbiamo fatto qualche scappata giù: allora mia moglie ha visto sto mare, ha visto i miei cugini che poi son bravissimi...Che loro erano tre fratelli, di cui una è rimasta, l'altra le ho dato io asilo politico, perché è scappata e me la son vista un giorno arrivare a casa per cui ho dovuto io garantire per lei ed è rimasta con noi un po' di tempo e ora abita a Trieste. Poi c'era mio cugino, che lui ha fatto la traversata dell'Adriatico a remi, con la barca: son partiti in tre e li han trovati vicino ad Ancona, mezzi morti, dopo tre giorni a remi. E pertanto della famiglia di mi zio, il fratello di mia madre, che è rimasto lì perché contadino e perché vecchio, i [suoi] figli sono andati via tutti. Mia zia che è molto, molto vecchia, è rimasta lì con una figlia e ha avuto una brutta vita anche lei, perché i figli son scappati tutti. Sempre per il regime, perché allora sono scappati decisamente per il regime, non per altro, avevano vent'anni. Nostalgia...Ho scoperto che amo quei posti grazie a mia moglie, perché forse...Io ho girato abbastanza il mondo e l'Europa, ci sono posti che mi piacciono e forse lì [in Istria] non sarei andato nemmeno io più di tanto, ma è mia moglie che ha scoperto della gente brava, che si sta bene e pertanto è nata la nostalgia, è nata la voglia di approfondire queste cose e di andare ogni tanto così, per respirare gli odori. [E l'Istria] è una terra strana, è una terra ingrata, se vogliamo - perché ci sono più sassi che terra! - è una terra brutta, che però per me è bella. E allora la nostalgia stranamente mi è ritornata da trent'anni a questa parte, e ci ritorno volentieri. E ci vado anche perché con il mio cugino che è scappato in barca e che abita a Parigi, l'altro che è su in Svezia, io che vivo a Torino, andiamo a Pola e ci troviamo ad agosto. E comunque ci vado volentieri perché la nostalgia c'è, stranamente perché son venuto via molto presto. Potrei non averla ma ce l'ho dentro, ce l'ho nel DNA, non lo so. Comunque ci vado volentieri e la nostalgia ne ho tanta. E conto di andarci anche quest'anno, con piacere, perché poi alla fine io lì ci sto bene, anche con la gente perché adesso son diventati normali pure loro! Mi ricordo che quando siam tornati noi per la prima volta nel '59, c'era gente italiana che non ci parlava, facevano finta di non capire l'italiano. E questi erano probabilmente i comunisti di allora, anche perché secondo me ha giocato molto - moltissimo - l'aspetto politico. Poi son stati forse disillusi anche loro, e comunque ognuno raccoglie quello che semina e va bene così. Comunque, diciamo, che a Pola ci vada pure, perché se non la conosce vale davvero la pena!".
16/04/2012;
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