C00/00352/02/00/00005/000/0044
Intervista a Lionello B.
Nasce a Montona nel 1935 da una famiglia di origine contadina. Nel 1949 è tra gli ultimi a lasciare il paese in seguito al grande esodo della popolazione italiana. Arrivato a Trieste, resta per qualche giorno al Silos, prima di trasferirsi a casa di parenti presso il rione cittadino di Santa Croce. Da qui raggiunge il centro raccolta profughi di Tortona, dove resta fino al 1959, anno in cui è assegnatario di un'abitazione INA Casas. A Tortona lavora prima come imbianchino e, successivamente, come operaio in due aziende cittadine. Nel 1962 si sposa e decide di accettare un lavoro alla Fiat Mirafiori. Si trasferisce quindi a Torino, nel quartiere Mirafiori, dove vive ancora oggi. E' stato intervistato l'8 giugno 2012. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?
R.: "Sono nato a Montona d'Istria il 23 ottobre del 1935."
2) Mi parli un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, cosa facevano suoi genitori...
R.: "Dunque, beh, la mia famiglia...Eravamo padre, madre e quattro figli, due maschi e due femmine, e con noi è convissuto fino all'ultimo lì a Tortona anche un fratello di mio papà che non si è mai sposato. Perciò mia mamma aveva il suo da fare. Mio papà faceva il contadino, perché in quel paese la maggior parte si era contadini, salvo quei quattro o cinque benestanti - signoroni - che tenevano su tutta la baracca. Però, la maggior parte, si era contadini."
3) Quindi Montona era un paese agricolo...
R.: "Si, contadino, perché a quei tempi lì c'era il dottore del paese, il farmacista, il falegname, un calzolaio, il maniscalco, poi c'era una fabbrichetta di gazzose e il mulino che macinava tutto il grano del contado. Ma soprattutto [era un paese] di contadini, mio papà era un contadino di vecchia data, e uno di quelli duri, perché il terreno era duro lì, eh! Avevano una zappa che pesava cinque o sei chili, non era quella zappa [che usano] dove il terreno è morbido, lì la terra era dura. [Anche] il paese era duro, perché col cucuzzolo...E allora ha temprato il fisico e anche la mente di chi ha vissuto lì, degli autoctoni."
4) Parliamo un attimo della distribuzione della popolazione. Com'era? Gli italiani in paese e i croati al di fuori?
R.: "Forse Montona dato che è un po' nell'interno, a venti chilometri dal mare, che dal cucuzzolo si vedeva il mare di Parenzo, che era [quello] più vicino che si vedeva. Era proprio un cucuzzolo in mezzo al piano, e io sono nato proprio in rialto, che era in principio del paese e poi c'era il borgo, che si arrivava fino a sopra, fin sulle mura del castello. [Era] bellissimo come paese, antichissimo! Noi a Montona abbiamo sempre parlato l'italiano, e lì d'intorno c'erano tutte le frazioni che lì la maggior parte- quasi tutti- erano slavi, che erano venuti già da secoli prima a popolarsi le campagne, a tenerle vive ste campagne. Cioè, nel mio paese nessuno parlava slavo, ed è anche un male, perché è anche bello saper le lingue, però non c'era quel grande attrito con gli slavi, come [a volte] si dice."
5) Questo mi interessa molto e cioè sapere com'erano i rapporti tra le due componenti...
R.: "I rapporti...Non è che c'era dell'attrito, ma c'era della goliardia, perché dato che Montona è un paese abbastanza robusto, sui 1.500 abitanti [che] poi con tutto l'intorno ne faceva 2.500. Ad esempio, non so, quando c'era la leva che [gli slavi] dovevano venire a fare il militare, allora loro venivano al paese e c'erano un po' di contrasti tra i giovani, ma così, per dire...Però mia mamma di cognome era una L., di origine veneta. Loro erano una famiglia numerosa, però erano abbastanza benestanti, avevano i terreni e facevano i commercianti di bestiame, erano cinque femmine e quattro maschi. Di questi quattro maschi, uno ha sposato una ragazza di Montona, gli altri tre han sposato delle slave, per dirti che si era in buona armonia."
6) Molte testimonianze che ho raccolto, fanno più di un riferimento, relativamente al rapporto tra italiani e slavi, a una parola e cioè al termine s'ciavo. Cosa stava a significare secondo lei?
R.: "Era un po' dispregiativo. Perché i montonesi si consideravano un po' dei signoroni, [mentre] questi qui erano quelli che vivevano nel contado e nelle campagne. Loro poi, la loro lingua era slava, perché anche lì sappiamo che tra croati, serbi e bosniaci si odiano tra di loro, [mentre] nel mio idioma la parola odiare non esiste. [Certo], puoi avere antipatia, ma odiare è una brutta parola. Invece tra di loro sono duri, sono tosti. Loro parlavano quel dialetto s'ciavizzato, ma mai pulito, perché era in lingua straniera. E stavo dicendo che il rapporto era buono, [come è accaduto] ad esempio s tre miei ziii, che hanno sposato delle ragazze che venivano al paese dal contado a servire i signori: le han conosciute e se le sono sposate, tanto è vero che queste mie zie parlavano l'istriano che però era s'ciavizzato. Ecco perché noi diciamo s'ciavon, perchè giù di là c'erano la schiavoneria, cioè quei paesi interni alla Jugoslavia. Invece noi ci siamo sempre sentiti italiani, [d'altronde] prima con i romani, [e poi] cinquecento anni con la Repubblica di Venezia non potevano sentirci altrimenti. Nel senso che non si è mai parlato [slavo]: chi parlava qualche parole di slavo, [lo faceva] perché magari aveva sposato qualche croata , o perché si era a contatto. Perché ad esempio la domenica venivano giù nel paese, [dove] c'era il duomo e venivano a messa lì. Poi c'era il comune, dove andavano a prelevare le pratiche, per cui c'era contatto. Poi dopo c'era la goliardia com'era in tutti i paesi. Nel paese ci si conosceva tutti e poi si viveva in armonia. Io son rimasto lì fino a tredici anni e mezzo, poi son venuto qui a marzo, nel '49."
7) Abbiamo parlato dei rapporti tra la componente italiana e quella slava. In proposito c'è un periodo - e mi riferisco al fascismo - in cui la componente slava è particolarmente vessata: il cambio dei cognomi, il divieto di parlare sloveno e croato rappresentano probabilmente i punti più drammatici. Di questo periodo lei ricorda qualcosa?
R.: "Si qualcosa mi ricordo, poi però molto me l'hanno raccontato. Io premetto [una cosa]: che qualunque dittatura, di qualunque colore sia è da condannare. Per quello che ricordo io, e quello che so, il fascismo è stato una dittatura, [che] per me ha fatto tre sbagli: mettersi in guerra, la firma delle leggi razziali - che quello è stato sbagliato in pieno. Però devo dire che qualcosa di utile lo ha fatto, perché fino a che non è venuto il ventennio in Istria non c'era la luce, non avevamo l'acqua - che mia madre andava nei pozzi o nelle sorgenti a prendere l'acqua per fare il bucato o per bere - e ha portato l'acquedotto istriano che ha portato l'acqua dappertutto ed è stata una manna. [Poi] ha anche fatto delle cose sociali, come le colonie e gli assegni familiari, tutte cose che son stati utili. Cero che quando uno dice va in guerra e fa tutto quello che ha fatto, tutto quanto si viene a dimenticare. Però da quello che ricordo io nel paese non c'è stato fastidio, non ha fatto niente di male, anzi ha fatto del bene, e io non posso denigrare. Il fatto è che ogni dittatura ha le sue regole, spesso e volentieri sbagliate, e allora anche quello di voler italianizzare i cognomi slavi. Però a suo tempo, prima ancora, gli slavi hanno cercato di invertire le cose, no...Comunque, mio papà si chiamava B., e quando è arrivato il fascismo gli dicono che deve cambiare il cognome in Brecelli, B. e mio papà gli ha detto di fare come volevano, dal momento che mio padre guardava la campagna e la famiglia. Poi la politica non [gli interessava]. E di conseguenza hanno deciso loro, i gerarchi o chi era nell'ufficio comunale che ha detto ma si, facciamo B. come [quella] di Porta Pia, ma si, lui gli ha detto, fate così. E quindi gli hanno cambiato il cognome, perché prima era Bressevich e poi [è diventato] B.. Vessazioni...Io sono andato via nel '49 e quando son tornato al mio paese per la prima volta, son tornato 23 anni dopo, nel 1972, e quando sono arrivato da lassù che ho visto il mio paese, mi è venuto un nodo alla gola...Perché sedici anni e più, son tanti...No, aver fatto delle cose strane e brutte no. Anche al mio paese, una volta, ero affacciato alla finestra con mia mamma e vedevamo i tedeschi quando sono arrivati su, sul castello. Che poi, tra l'altro nel 1942 c'è stata una pestilenza nelle campagne del paese che ha portato via tutto. Allora, durante la guerra, dato che i tedeschi avevano tutti i migliori uomini sotto le armi, avevano bisogno di manodopera e allora avevano costituito la Todt, che erano quell'associazione di lavoratori che andavano dietro l'esercito a ricostruire i ponti e a lavorare. Mio papà quando ha saputo questo, [visto] che c'era stata quell'annata che non c'era più niente, è andato, si è iscritto anche lui ed è stato quasi un anno in Germania. Però c'è da dire questo: si può dire tutto quello che vuole, ma la professionalità e la serietà dei tedeschi è tutta da elogiare. In piena guerra, tutti i mesi, a mia madre arrivava il vaglia dei soldi, tutti i mesi, e mia madre apriva gli occhi, perché poteva fare un po' di spesa o che. Poi, tra l'altro, mio papà, quando c'era la crisi per la campagna, era così tanto ben visto... Perché lui oltre a lavorare la sua campagna, avevamo tante particelle nostre, che la più grande era a mezzadria e quando c'era bisogno chiedeva aiuto al padrone del campo che aveva il mulino, e quando però non poteva pagare con il liquido, faceva le giornate da questi signori che prestavano i soldi per pagare i debiti. E quando arrivavano sti soldi mia mamma [era contenta], perché sai quattro figli, più mia nonna ancora in casa, più il fratello, era una manna, no!? E da quel lato lì, [i tedeschi] erano precisi."
8) Mi ha parlato della guerra. Vorrei soffermarmi un attimo su questo periodo chiedendole sa ha dei ricordi vivi e diretti della guerra...
R.: "Ce li ho si, si. Ho le schegge ancora dentro nella gamba! Sa come sono i ragazzi, no? Al pese noi si giocava: guardie e ladri, cavallina,l e cose così. Io ero un po' più bischero rispetto a mio fratello, [lui] era un po' più calmo, tanto è vero che mia madre gli diceva che lui sarebbe stato il bastone della sua vecchiaia! Difatti mia mamma è morta a novantanove anni, e mio fratello è rimasto in casa con mia mamma fino all'ultimo, non si è sposato. Io invece ero più bischero, e un giorno ho detto ai miei cugini - che poi sono andati in Australia e sono morti in Australia - andiamo giù nel canneto, prendiamo una canna ciascuno col ciuffo e poi prendiamo i pipistrelli. Mi han detto si, si, Nello, andemo, andemo. Allora andiamo giù nel canneto e c'era un po' di fanghiglia, perché si vede che aveva piovuto il giorno prima. Andiamo giù nel canneto - io ero primo a mio cugino era a fianco a me e l'altro cugino e l'amico erano dietro a me- vado avanti, guardo per terra e vedo un affare rosso. Che io a quel tempo lì cosa ne sapevo di bombe o non bombe. Vedo sto affare qui, lo prendo e lo tiro su. Lo prendo e vedo mio cugino che era un po' più grande di me - aveva tre anni più di me - che mi dice: è una bomba, buttale via! E allora io, non pensando che fosse buona, l'ho buttata solo così, vicino, non l'ho buttata lontano. Pom, è scoppiata davanti, avevamo schegge dappertutto. Me ne è arrivata una fino a qui in faccia, che per un pelo non mi acceca! Allora, tutti insanguinati, siamo arrivati fuori dal canneto, ci siamo messi sulla strada e mio cugino mi fa: dai Nello, preghemo, preghemo! Intanto gli altri due che erano dietro, che non si son fatti niente, son corsi su al paese [gridando] una bomba, una bomba, è scoppiata una bomba! Allora è arrivata mia mamma con tutti quanti a prenderci in braccio, e ci hanno portati dall'unico dottore che avevamo, che era vicino al cimitero - D. si chiamava, era un bravo dottore - e che ci ha curato con l'infermiere che era lì, ci ha tamponato bene, bene. E [dopo] mio cugino, che era più grande di me, lo hanno spedito a Trieste all'ospedale, a me [invece] mi han curato in casa: tutti giorni veniva l'infermiera, mi toglieva le schegge e comunque sono ancora qui. Per dire, però: giochi cretini di bambini scemi!"
9) Parlando sempre degli anni del conflitto, credo che Montona non sia stata bombardata o sbaglio?
R.: "No, no, difatti passavano gli aerei - che venivano dal Veneto, da vicino a Vicenza dove c'era l'aeroporto - e andavano a bombardare Fiume perché c'era il siluruficio e Pola che c'era il porto e le cose militari e [il cantiere navale] di Scoglio Olivi. Tant'è vero che quando è scoppiata questa bomba, i paesani non ci pensavano, dicevano ma si, saran stati quei mona che han tirato una bomba, tanto per scaricare l'aereo! E invece erano noi i bombaioli! Da quel lato lì niente, però ci son stati degli episodi...Qualche episodio c'è stato. Ad esempio i tedeschi - ed eravamo già verso la fine, nel '44-'45 - chiamavano uomini per fare delle trincee: chiamavano diversi uomini del paese, li caricavano sul camion e li portavano giù. Facevano le trincee e [poi] li portavano su. Il bello è che han chiamato anche mio padre. Senonchè mio padre quando è stato quell'anno in Germania ha imparato il tedesco - mentre invece durante la prima guerra mondiale è stato prigioniero in Russia per trentasei mesi - e allora quando sono arrivati a casa sti due [soldati] tedeschi, gli ha detto in tedesco - si è fatto capire- che era malato, e allora lui non è andato. Ci è invece andato mio zio e altri del paese. Quando hanno finito che stavano venendo su, caricati sul camion, son saltati fuori dal bosco, dalla foresta, i partigiani e hanno cominciato a mitragliare facendo secco mio zio e un altro che son morti. Mio zio aveva trentatre anni, e ha lasciato la moglie e due figlie, le mie due cugine. Trentatre anni aveva ed è morto così, stupidamente. Ed era quasi la fine della guerra. Poi c'è stato un altro episodio, [quando] hanno arrestato cinque, sei o sette uomini del paese e dei dintorni, che li hanno messi in prigione vicino al castello, che vicino alla prigione c'era il castello. Sono andati in prigione e son rimasti un po' di tempo in prigione, una settimana quasi. Poi li han presi, li hanno caricati su un camion, e li hanno portati sulla strada che va a Pisino, che è diciotto chilometri da Montona. Li han portati a metà strada, poi li han fatti scendere dal camion e li han fatti secchi. E questo lo hanno fatto i partigiani, quando la guerra era quasi alla fine. Li hanno ammazzati, tanto è vero che adesso hanno fatto una specie di stele, l'associazione che è a Trieste. Quel posto lì dove son morti, è ricordato come Cava Cise, perché lì dove hanno ammazzato sti montonesi c'era una cava di bauxite."
10) E come mai queste persone son state prese?
R.: "Eh, per qualche ragione politica. E poi noi dopo perché siamo andati tutti via? E' stato una cosa perché più che altro, quando sono arrivati loro..."
11) Lei ricorda l'arrivo dei partigiani di Tito a Montona?
R.: "Mi ricordo si. Che poi tra l'altro lì, qualcuno ha abbracciato la loro politica. Ricordo come adesso che c'era un cugino di mia mamma che ha abbracciato - come tanti - la politica croata, che da come parlavano sembrava il paradiso in terra, e lui è rimasto lì. [E' stato] l'unico che è rimasto lì. Però tra di noi, nessuno ha abbracciato questa cosa. Allora quando sono arrivati, è arrivata una dittatura, perché ti levavano tutto. Noi [ad esempio] avevamo delle particelle di terra e di bosco e ci hanno portato via tutto. Sono entrati coi trattori e hanno spianato tutto: adesso a Montona non vedi più le varie particelle, è tutto spianato! Le vigne e l'orticello che ti lasciavano, tutto quanto quello che raccoglievi dovevi portarlo all'ammasso, una specie di cooperativa di adesso. Poi la lingua non la potevi più parlare perché non c'erano più le scuole italiane, la religione idem - perché noi siamo stati sempre cattolici di vecchia data - e allora questa è stata una specie di pulizia etnica. Te eri italiano e dovevi andare fuori dalle cosiddette storie. Che poi mi ricordo che [i titini] si mettevano nella piazza e parlavano in dialetto - un dialetto anche un po' ignorante - e facevano propaganda. Cioè loro con la loro politica cercavano di convincere la gente ad abbracciare il loro credo. Ma noi, [che siamo stati] cinquecento anni sotto la repubblica di Venezia, ci sentivamo italiani al massimo. Non parlavamo la lingua, non potevi fare questo e quell'altro e allora [ci siamo detti] ma cosa stiamo a fare? Però l'arrivo dei partigiani a Montona, in particolare, non me lo ricordo. I tedeschi me li ricordo [invece]."
12) Come lo ricorda l'arrivo dei tedeschi?
R.: "I tedeschi me li ricordo perché ero bambino, e mi ricordo che venivano qualche volta a casa. Mio papà - che il tedesco lo sapeva - e che era coltivatore di vino - vino buono, veramente! - gli dava da bere, e loro ci portavano del cioccolato e qualche cosa così. Parlavano un po' di loro e poi se ne tornavano in caserma."
13) Parliamo ora di un'altra tragedia che colpisce la sua terra e cioè le foibe. Lei sapeva dell'esistenza delle foibe e dell'uso che ne veniva fatto?
R.: "Dunque, l'uso che si sapeva - sempre [sentendo] parlare i grandi perché io ero bambino - è che erano delle cavità carsiche, tipiche. Ma a Montona di foibe e buchi profondi non ce n'erano. La più grande e la più vicino che ricordo io era quella di Pisino, la foiba grande, quella enorme, quella vicino al castello. Non mi ricordo bene, ma mi ricordo che dicevano in dialetto che lì c'erano dei busi, dei buchi, dove buttavano le carcasse degli animali morti, oppure buttavano dei mobili vecchi, degli scarti. Li buttavano lì e non li vedevi neanche, perché lì erano profonde centinaia di metri. Ma il fatto di buttare paesani miei nelle foibe, che sappia io no. Io [questo] l'ho saputo dopo, ma prima di ste foibe vere e proprie [non lo sapevo], perché al paese mio non ce n'erano. Che sappia io di infoibati montonesi non ci sono stati. Sono stati ammazzati quei sette lì, ma il resto no."
14) Ritorniamo all'episodio di queste sette persone uccise. Perché sono state uccise?
R.: "Sono stati ammazzati sempre durante la guerra, ma l'anno esatto non me lo ricordo. Dove è stato fatto molto di infoibati, è stato dopo l'armistizio, nel '43, l'8 settembre, che lì si è sfasciato l'esercito italiano e tutti quanti cercavano di scappare. Tanto è vero che anche al mio paese mia mamma ci ha dato a un militare un vestito e qualcosa che aveva per poter andare in Italia. Molti sono andati e si son salvati, ma molti se li prendevano li facevano secchi. E dopo sono arrivati i tedeschi e hanno preso tutta l'Istria, ma nel '43 è stato il boom degli infoibamenti. Se eri italiano eri fascista per forza, anche se tu pensavi solo alla tua famiglia e a lavorare. Perché poi a Montona c'era la maestra, il maestro, c'erano gli impiegati del comune, che erano gente che veniva anche dall'Italia, ma anche meridionali. La mia maestra mi pare che era di Foggia, che venivano lì dal sud italia. Al mio paese c'era [poi] anche un carabiniere che aveva fatto famiglia con una slava, aveva quattro figli, era mio amico, abitava sopra di me. Questi sette sono stati ammazzati nel '43. Probabilmente qualcuno era fascista anche, senz'altro, perché non lo metto in dubbio. Anche se poi non possono aver fatto niente di male, ma poi quando c'è una dittatura c'è quell'attrito, perché magari c'erano le camicie nere che davano l'olio di ricino a qualcuno o quei dispetti lì. Non ammazzare magari, ma fare delle cose che poi si son vendicati. E poi c'è stata una vendetta esagerata! Quindi questi li han presi, li han messi in prigione per qualche periodo, poi gli han fatto i processi sommari - come succedeva in quei periodi lì - e li han portati in sta cava vicino Pisino e li hanno fatti fuori. E lì - che si chiama Cava Cise - hanno messo adesso sto sacrario."
15) Mi ha detto di essere andato via nel 1949. Quindi lei dal '45 al '49 vive di fatto in Jugoslavia...
R.: "Mi becco quattro anni di Jugoslavia!"
16) Ecco. E come sono stati questi quattro anni di Jugoslavia?
R.: "Nel '45 avevo già dieci anni. Cambiano le cose, perché la scuola non c'era più, son riuscito ad arrivare fino alla quinta o alla quarta, poi quando son venuto in campo a Tortona ho ripetuto la quinta - tanto per aggiornarmi! - e sono andato a fare un po' di serali. Poi cambiava tutto, ed ecco perché mio papà, essendo un contadino di quelli radicati, che nel '49 cominciava ad avere cinquantadue anni, [e che aveva vissuto] una vita lì...Tanto è vero che mia mamma gli diceva: ma cosa fai qui?! La scuola non c'è più, la religione neanche, ti han portato via tutto, devi dare tutto all'ammasso, ti lasciano l'orticello e noi con quattro figli che facciamo?! Cosa facciamo qui? [Pensa] all'avvenire dei tuoi figli! E allora mia mamma che era abbastanza aggiornata - perché lei era figlia di mio nonno, che era uno che leggeva molto - dice cosa stiamo a fare qui?! E allora [mio padre] si è convinto, e nel marzo del '49 siamo partiti."
17) Torniamo per un attimo alla Jugoslavia. Molte delle testimonianze che ho raccolto parlano di miseria, negozi vuoti e l'OZNA che era molto presente nella vita quotidiana delle persone. Era così anche a Montona?
R.: "Mi ricordo che c'era la tessera. Mi ricordo in particolare che c'era una strada che si vedeva da casa mia, da dove veniva giù il camioncino. E allora mia mamma mi diceva: guarda Nello, c'è il camioncino. Che sto camioncino andava giù alla cooperativa dove vendevano la roba. E allora arrivava il lievito e la roba, e mia mamma faceva il pane in casa, per quello che poteva. E allora andavo giù io, mi dava il soldino e la tessera, andavo giù e facevo la fila, aspettavo e finché arrivavo lì prendevo un po' di lievito che portavo a mia madre per fare il pane in casa. E quello era quel po' che potevamo racimolare, ma era tirata la cosa. Era molto tirata. Che c'era scarsità di mangiare, e si doveva allora aspettare quando arrivava il camion da Pisino e si andava in cooperativa a comprare quel che si poteva comprare, sia perché c'era poca roba, sia perché c'erano pochi soldi. I dinari erano scarsi."
18) E l'OZNA...
R.: "Ma guardi, in paese...Magari queste cose capitavano più nelle grandi città [come] Pola, Fiume, Dignano, Parenzo, i posti lungo la costa...Capodistria...Ma noi al paese certe cose non si captavano. Certo, venivano a mancare molte cose e, per prima cosa, mancava la nostra identità. Noi profondamente ci sentivamo e ci sentiamo ancora adesso istriani, anche se un po' nei secoli si è mescolata la popolazione, come succede adesso qui."
19) Lei ha sentito parlare dei monfalconesi?
R.: "Dei monfalconesi si, però a Montona non son venuti. Loro andavano soprattutto a Fiume, perché a Fiume c'era il siluruficio e a Pola. Perché nella propaganda che avevano fatto, anche quelli che lavoravano al cantiere - perché c'era anche il cantiere navale sia a Fiume che a Pola - a Monfalcone, la propaganda li ha talmente convinti ad andare di là, perché dicevano che era un altro mondo. [Anche] perché in Italia, appena finita la guerra, era crisi, era quello che era - figuriamoci - e allora andando di là dicevano: staremo meglio. Invece purtroppo per loro, molti di loro li hanno presi e li hanno messi in campo di concentramento all'Isola Calva che c'è nel Quarnero e molti ci hanno lasciato le penne. Però a Montona non sono arrivati, perché a Montona erano tutti contadini."
20) Parliamo dell'esodo. Lei mi dice che va via nel '49...
R.: "Marzo del '49. Però a Montona sono andati via prima, un po' a scaglioni e [il paese] ha incominciato a spopolarsi. Hanno incominciato ad andare via quelli che forse erano un po' più benestanti, e allora ha incominciato a vuotarsi. Nel '46, qualcosa, poi nel '47 e nel '48. noi nel '49 credo che eravamo tra gli ultimi, anche se qualcuno è venuto via ancora dopo, addirittura nel '60."
21) Voi quindi avevate la percezione di un paese che si svuotava?
R.: "Si, proprio quello. Perché, ripeto, cose gravi da prenderci e portarci via e ammazzarci, in paese - salvo quei casi lì - non ci son state. Ma per il resto - salvo i signorotti - noi eravamo tutti contadini, non c'era il timore, ma ci veniva a mancare tutto, per prima la nostra identità, la nostra cultura, la nostra religione, e cosa stiamo a fare?"
22) Voi perché siete andati via?
R.: "Siamo andati via soprattutto per quello, perché non c'era un avvenire per noi bambini. Mia mamma ha deciso così, soprattutto mia mamma più che mio papà. E poi ci sentivamo un po' circondati, circondati da un altro popolo, da un'altra lingua e da un'altra cultura. Dato che noi siamo stati con la lingua italiana cinquecento anni sotto la Repubblica di Venezia, usi e costumi e religioni...Cioè, tutti son passati - persino i francesi con Napoleone che ci è passato dieci anni- e hanno lasciato [nome al paese] Montona. Arrivano loro e lo cambiano!"
23) Mi ha detto che siete stati circondati. Le chiedo in proposito una cosa: quando gli esuli partono lasciando vuote le loro case, quelle stesse case sono occupate da persone provenienti dall'interno della Jugoslavia?
R.: "Allora, in principio il paese sembrava un paese morto, perché nel paese mio - che io sappia - proprio montonesi son rimaste due o tre famiglie. Una era di fronte a noi - M. si chiamavano, erano di origine veneta - erano sei figli, tre maschi e tre femmine. Due sono andati in Canada - i due maschi più vecchi -, mentre il terzo maschio, che era mio coetaneo, è andato in Francia nella Legione Straniera e poi si è piazzato in Francia! Le tre ragazze, una è andata a Como e una è a Trieste, la più piccola. L'unica che è rimasta è Natalia, la seconda delle femmine. Lei è rimasta lì perché i vecchi - [i genitori] erano vecchi - non si sentiva di lasciarli, e allora è rimasta con loro. Sono rimaste tre o quattro famiglie, per il resto sono andati via tutti."
24) A proposito di chi rimane, vorrei farle una domanda. Io credo ci sia un grande stereotipo, soltanto in parte vero, e cioè che chi resta lo fa solo ed esclusivamente per una scelta politica. Ecco, secondo lei chi rimane perché prende questa decisione? Lo fa solo per motivi politici, oppure si innestano anche altre dinamiche?
R.: "No, ecco,ci stavo arrivando...No, c'è qualcuno come quel mio cugino che le dicevo, che [è rimasto perché] si è messo in testa quelle idee, ma la maggior parte [è rimasta] perché avevano i vecchi, che erano malati o vecchi e non volevano muoverli, chi li muoveva, no? E allora qualche figlio è rimasto lì proprio per quello. Ma le dico, nel mio paese che saranno state 1.500 persone, 2.500 col contado, son rimaste tre o quattro famiglie proprio montonesi."
25) E le case?
R.: "Le case all'inizio sono state vuote, ma dopo un po' ha cominciato a venire della gente dall'interno. Ma sono stati poco, perché han visto che la terra era dura e che non c'era tanto da mordere, per cui son tornati indietro! Venivano e se ne andavano, perché non era il loro ambiente."
26) Mi ha detto che lei parte nel 1949. Vorrei che mi raccontasse il vostro viaggio. Innanzitutto, cosa avete portato con voi?
R.: "Eh...Abbiam portato le gambe! Cioè, abbiam portato veramente niente, veramente niente. Siamo andati via nel marzo del '49, che faceva freddo, era un marzo [rigido]. E' venuto un camion da Trieste, un camion scoperto, un cassone. E noi quel giorno lì eravamo in sette: [genitori], quattro figli e mio zio, che viveva in casa con noi ed è rimasto con noi finchè è morto [in campo profughi] a Tortona. Che lui non si è mai sposato, lavorava la campagna insieme a mio papà. Siamo andati via insieme ai miei cugini da parte di mia mamma, che loro erano in sette od otto. Però uno dei miei cugini - Federico, che adesso è morto e che stava a Novi Ligure - era scappato via prima, perché era più grande e allora c'era pericolo che lo prendevano. Lui è scappato da solo prima, noi [invece] siamo andati via optando, con l'opzione. Italiano o slavo? Italiano, abbiamo optato e siamo andati via in regola. E su questo camion eravamo in quindici con quattro stracci, portando due cassoni di roba, cioè quello che potevamo portare via, e qualche soldino nascosto di brutto, perché ti visitavano [perquisivano] e se lo trovavano, te lo portavano via. Da Montona a Trieste non so quanto ci avremmo messo, forse tre o quattro ore."
27) Il viaggio lo fa in camion, quindi...
R.: "In camion scoperto, un freddo boia! Ricordo che mio zio, il fratello di mia mamma che è poi morto a Tortona abbastanza giovane, quel giorno lì era una sagoma! Lui era un commerciante di bestiame e quel giorno tremava dal freddo, perché il camion era scoperto. Mio padre gli chiedeva: "Bepi [Giuseppe], ti g'ha fredo?!" E lui: "noo!" e intanto tramava come una foglia! Insomma, faceva freddo. E siamo arrivati a Trieste, e siamo arrivati al Silos."
28) Ecco, mi parli del Silos...
R.: "Il classico Silos, un vecchio deposito di granaglie vicino al porto, che lo avevano adibito a centro di passaggio, [dove] si stava qualche giorno, o qualche settimana al massimo e poi si andava via. E da lì [siamo poi andati via, perché] avevamo un cugino a Trieste che abitava a Santa Croce, sopra Trieste in un villaggio. Allora lui che sapeva che venivamo, era venuto giù e ci ha accompagnati a Santa Croce, dopo due o tre giorni che siamo stati nel Silos. Però lui all'epoca abitava in una baracca, dopo han preso la casa, ma loro erano andati via prima. E ci ha portato su. Qui a Tortona noi avevamo un altro cugino, cioè un fratello di mia mamma, che poi sono andati in Australia e son morti tutti quanti lì, tranne uno che è ancora vivo. E loro ci han fatto una specie di richiamo, ci han detto: siamo tutti a Tortona, perché non venite qua? E così siam stati qualche giorno lì a Trieste da mio cugino, e da lì abbiam preso il treno e siamo arrivati a Tortona."
29) Mi ha parlato del Silos. Come se lo ricorda? Riesce a descrivermelo?
R.: "Il Silos? Vagamente...Era un grande capannone enorme, alto, alto, senza soffitto, perché era un deposito di granaglie nel porto. E lì avevano fatto delle separazioni provvisorie con una specie di carton-gesso o che so, e son stato un paio di giorni, perché poi sono andato a Santa Croce. Non è che ho avuto il tempo di girare più di tanto...Quindi, grosso modo, era un affare così, un posto provvisorio dove la gente andava, stava lì un giorno o al massimo un settimana e poi da lì andava via. Era una specie di deposito di smistamento. E questo Silos lo ricordo vagamente, era una cosa provvisoria, brutta! Invece noi a Montona, si, eravamo poveri contadini, però tutto sommato avevamo [una bella casa]: c'era la soffitta, la camera che dormivamo noi due [fratelli] con mio zio, poi c'era sotto la stanza grossa che adoperava molto mia mamma per fare il bucato o per ammazzare il maiale, poi c'era anche la stalla e la cantina."
30) Da Trieste, mi diceva, va poi a Tortona...
R.: "Stiamo una settimana da mio cugino a Santa Croce nella sua casetta, stretti perché capirai loro erano già le figlie, la mamma, marito e moglie...La privacy! E da lì siamo partiti col treno, e siamo andati a Tortona. Arrivati alla stazione di Tortona, ci sono venuti incontro i miei cugini - i quattro che sono andati poi in Australia - con un mio amico che è qui a Torino, un mio grande amico, con cui ci conosciamo da sessant'anni! Che lui è andato dal campo di Padova a quello di Tortona già nel '46, diciamo che a Tortona loro hanno aperto il campo! Le dicevo che appena arrivo a Tortona ci vengono a prendere i miei cugini e questo mio amico, che loro avevano i pantaloni alla zuava, e ci hanno portati al campo e ci hanno messo in questo bel camerone, sulla destra, nella caserma frontale. C'era la polizia all'entrata che controllavano. E ci hanno messo al primo piano, sulla destra, noi e i miei zii: han diviso la camera a metà, che era il classico camerone con le volte alte. Che poi, tra l'altro, in quella caserma lì [a Tortona], ha fatto anche il militare Coppi...Che quella caserma l'hanno fatta nel 1890, circa. E quando siamo venuti noi, prima c'erano ancora i militari, poi il sindaco di Tortona, che in quel periodo a Tortona erano tutti di sinistra...Infatti loro pensavano che arriviamo noi, votiamo tutti Democrazia Cristiana, e ci portiamo via i voti a loro. Che allora c'era anche quella cosa lì. E quel sindaco là aveva fatto la riunione in comune, dicendo facciamo rimanere ancora i soldati e i militari, oppure facciamo venire gli esuli che arrivano? Allora han deciso di far venire noi e i militari li hanno spostati a Casale. E capirai, siam venuti noi...Che noi siam venuti nel'49, ma nel '46 eran già venuti i greci per primi, e poi [con loro] c'era qualche albanese, qualche romeno, qualche libico, che i libici per la maggior parte erano di origine veneta. E di conseguenza, arriviamo lì e l'impatto non è che sia stato proprio [dei migliori]."
31) Parliamone dell'impatto...
R.: "Beh, devo dire che io stesso se fossi stato tortonese avrei detto: ma da dove arriva tutta sta gente? No, capisci? Alla fine eravamo circa 1.500 lì dentro in quella caserma, eh!"
32) Che impatto ha avuto con il campo?
R.: "L'impatto...Torno a ripetere...Da ragazzo...Cioè, anche le cose più brutte, quando si ha una certa età si sopperiscono facilmente, perché quando si ha un pallone, anche stracciato, per tirare due calci e si trova un piatto di minestra, tutto poteva andare bene. Quando sei giovane si sopperisce. Il problema invece è dei genitori."
33) Perché per loro come è stata?
R.: "E' stata dura, perché si aveva niente, arrivi in campo, perché era un periodo balordo, sa il post bellico...Va beh, erano passati già quattro anni, si cominciava a ricostruire e il lavoro non è che mancava se ti adattavi. Però c'era anche un po' di attrito, perché i tortonesi dicevano: questi arrivano e ci portano via il lavoro! Dicevano un po' quello... Dicevano anche che ci portavamo via le ragazze. Però dopo un po' conoscendoci, avevan capito che eravamo gente laboriosa, che non eravamo prepotenti, che non pretendevamo la luna come qualcuno pretende forse adesso, e che ci tiravamo su le maniche adattandoci a qualunque lavoro."
34) Ad esempio quali lavori?
R.: "Mio papà, ad esempio, era contadino, ha preso la vigna che era dietro l'ospedale di Tortona e l'ha rivitalizzata facendo il vino, andava a fare il manovale al campanile della Madonna della Guardia, che in quel periodo lì lo hanno costruito, andava ad asfaltare le strade, che la collina di Tortona era tutto un bosco e allora andavano a disboscare. Poi è andato a fare il campo sportivo intitolato a Fausto Coppi, che era come una cava. E i profughi han lavorato moltissimo a fare queste cose qui, e mio papà era uno di quelli. Che lui non sapeva andare in bicicletta e allora andava con mio zio, che all'andata era in salita e a venire giù lui lo portava sulla canna. Facevan di tutto! Noi ragazzi, appena abbiam potuto, abbiam cercato di lavorare: io ho studiato poco o niente, e un anno e mezzo ho fatto l'imbianchino. Che venivano sul portone del campo e chiamavano, chiedevano chi voleva lavorare. E allora mio zio - mi ricordo che io stavo giocando a pallone nel campo - è venuto e mi ha chiamato, mi ha detto che c'era uno che voleva darmi del lavoro. E gli ho chiesto: cosa? Lui ha risposto: l'imbianchino. E io mi son detto: perché no?! Questo era uno che abitava in collina, aveva la villa e faceva l'imbianchino. Erano lui, il figlio e un cugino, erano bravissimi! Mi son trovato bene. Un anno e mezzo ho fatto quel lavoro lì. Poi sono andato da Cardana, un'officina meccanica che faceva rimorchi e cisterne e poi, dopo due o tre anni, sono andato da Mazzariol, un altro che era sempre di origine veneta. E anche loro facevano cisterne, che arrivavano i camion e si verniciavano. Poi sono andato a militare e son tornato di nuovo da Mazzariol e poi, nel '61-'62, son venuto in Fiat. Comunque, mi son dato da fare! Mio fratello [invece] è diventato falegname, in gamba e conosciuto in tutta Tortona. Noi ci siamo dati da fare. Il problema era per gli adulti, a mettere un piatto di minestra in tavola per sti figli, capisci? Per noi bambini bastava poco."
35) Quindi per gli adulti l'impatto psicologico col campo è stato brutto...
R.: "Per loro l'impatto con Il campo è stato molto, ma molto peggio! Arrivare in un campo profughi l'impatto è stato duro. Si, a casa una stanzetta e un letto l'avevamo, lì invece c'erano due brande tagliate con le coperte, altro che privacy, sentivi tutti i rumori possibili e immaginabili! C'era un corridoio con una parete alta due metri, e dentro diviso con le coperte [in modo che] ognuno aveva la sua stanzetta. E poi c'era il cucinino vicino alla finestra, con una spiritina a gas per fare un po' da mangiare. E poi faceva un freddo boia, che quegli inverni faceva freddo, non come adesso: fino a marzo ed aprile c'era il ghiaccio per terra anche a Tortona. Che poi si era vestiti come si era: io il mio primo cappotto l'ho avuto dopo che ho incominciato a lavorare e a portare a casa qualche soldino!"
36) In campo avevate qualche tipo di assistenza?
R.: "C'era una specie di mensa per chi voleva andare a mangiare, e poi davano mi sembra [un sussidio] di 50 lire o 100 lire a testa. Che poi è logico che, lavorando, abbiamo iniziato ad avere un po' più di possibilità: potevamo comprarci un cappottino, un vestito. Che spesso e volentieri faceva tutto mia mamma, perché le donne di allora in paese facevano tutti i vestiti, anche quelli per la prima comunione e cose così. Ha fatto tutto mia mamma."
37) Si ricorda se in campo vi davano dei pacchi dono con dei vestiti?
R.: "No, no, pacchi dono no, [non ne davano]. Dell'UNRRA neanche. Di robe che sapevo che abbiano dato robe loro no...Se abbiano dato qualcosa non so. Ci si era arrangiati con quel poco che si aveva quando siamo venuti, e poi pian pianino a far qualcosa. Davano, appunto, qualche soldino, c'era la mensa per un po', e poi quando si è andati fuori nel 1959 ci hanno dato un tanto a capocchia [come buonuscita dal campo]."
38) Sul campo profughi le chiedo ancora una cosa. Dentro il campo di Tortona c'erano dei servizi come ad esempio la scuola, l'asilo...
R.: "Si, si, appena entrato c'era una cappella, una bella cappella al piano di sopra, che noi a messa si andava sempre. C'era l'infermeria, c'era l'asilo gestito dalle suore e poi appena entrati, al piano terra, c'era tre o quattro camerini che c'era le scuole, dalla prima alla quinta. E c'erano le maestre di Tortona che venivano a fare scuola dentro. Mio fratello è andato a scuola un po' più di me, perché io ho fatto solo un ripasso della quinta, e aveva una maestra di Tortona che abitava vicino all'ospedale, a Città Giardino, che lui l'ha rivista anche dopo anni."
39) Nel campo come passavate il tempo libero? C'erano, ad esempio, dei luoghi di ritrovo come un bar, un circolo, o cose del genere?
R.: "Noi ragazzi, come ho detto, non è che si usava far molto. Le ragazzine e le bambine si accontentavano di una bambola di stoffa, [mentre] noi maschietti se avevamo un pallone, anche rattoppato, da tirare quattro calci eravamo contenti. Il problema era però per gli adulti: noi si aveva il campo [da calcio], era spazioso, però era tutto sassi, non c'era prato. Si facevano le squadre e c'era un certo Piras, di origine sarda, che teneva sempre il pallone...Si facevano le squadre, si metteva qualcosetta [qualche soldo] e chi vinceva si andava fuori. Che proprio davanti c'era il Foro boario, il mercato del bestiame e nell'angolo - come in ogni mercato del bestiame che si rispetti - c'era il bar, perché a quei tempi bevevano, eccome! C'era il bar dei fratelli P., mi ricordo.E allora si andava lì, si mangiava il gelato e la gazzosa, tutti in compagnia e in allegria. Poi, tra l'altro, abbiamo fatto la squadra di calcio [si chiamava] l'Intrepida, e c'era un certo B., che era un tortonese, che si era preso la briga di fare una squadra di tortonesi e profughi. E loro - io no - sono andati a Genova a fare la finale giovanile contro il Genoa. Hanno perso 2-1, ma sai, loro giocavano sui campetti così, quelli del Genoa giocavano invece sui campi seri e all'erba non erano abituati! Comunque si sono fatti un po' onore. Questo per dire dell'integrazione, che si era amici alla grande. E anche in campo profughi in quegli anni lì si usava molto [fare] le feste in famiglia, specialmente la famiglia V., che abitavano al pian terreno in un camerone grosso. E loro facevano spesso le feste; mettevano un po' di musica, il giradischi e ci si metteva lì tra ragazzi e ragazze, sai, il primi approccio. Si usavano molto le feste in famiglia, sempre sotto il controllo dei genitori, eh...La mamma di mia moglie era vedova, ma le ha tenute sotto controllo ste figlie che sembrava un carabiniere, mamma mia! E allora si faceva così, feste in famiglia, si giocava a pallone e sotto i portici si giocava alle figurine e a scambiarsi i giornalini. Che facevamo la raccolta dei giornalini come Tex Willer, Diabolik, e poi si scambiava...Tutti sti giochi così, ma si era giovani. Poi si è incominciato a lavorare da giovani: io sono andato in pensione abbastanza giovane, ma ho cominciato veramente presto."
40) Parlando della provenienza degli ospiti del campo, credo che la maggior parte fossero istriani o sbaglio?
R.: "Si, la maggior parte eravamo istriani, fiumani e dalmati. Però c'erano delle famiglie rumene, delle famiglie di albanesi che ho conosciuto - un certo V. ad esempio - cioè di italiani in Romania. Poi c'erano i libici e poi soprattutto i greci, che ce n'eran tanti. Credo che dopo gli istriani i più numerosi fossero i greci. E son stati i primi [ad arrivare] loro, nel 1946. Hanno aperto il campo loro!"
41) Prima parlavamo dell'accoglienza, e lei mi ha detto che non siete stati accolti proprio bene dai tortonesi...
R.: "Di primo acchito no, come le ho detto. Torno a ripetermi, mi sarei immaginato in loro, a vedere arrivare tutta sta gente, mezzi straccioni - se vogliamo dire onestamente - e sai, ti arrivano in 1.500...Sai, prima avevano i soldati ed erano abituati ai soldati, ma poi arriviamo noi in 1.500...E 1.500 è un paese, eh! Un paese nel paese, che Tortona ha 29.000 abitanti: era 29.000 - 30.000 allora e son 30.000 adesso. Non si è spostata Tortona. E allora c'era questo impatto, no? Poi pian pianino con l'amicizia e la compagnia è passato."
42) Lei prima mi ha detto una cosa, e cioè che voi eravate visti come quelli che in un certo senso portavano via il lavoro ai tortonesi stessi...
R.: "Si, succedeva anche quello ai primi tempi, che poi in qualche maniera poteva anche essere. E' un po' - se vogliamo - come adesso succede con gli extracomunitari, la logica era quella. E poi c'era anche la politica."
43) In che senso la politica?
R.: "Eh, perché se noi si era abituati con la Democrazia Cristiana, cioè si votava così. Io non votavo, però mi ricordo che i miei votavano Democrazia Cristiana, e allora c'era la faccenda dei partigiani. Cioè c'era i partigiani garibaldini che loro miravano a combattere il nemico ma ad annettersi con l'Unione Sovietica - con cui erano culo e camicia - perché il Partito comunista italiano era uno dei più forti in Europa. E avevano quell'idea lì, mente gli altri partigiani miravano solo a combattere il nemico e non ad annettersi alla Jugoslavia, tanto è vero che anche il famoso omicidio di Poezus che hanno ammazzato quelli là...Insomma combattevano la stessa guerra...E, di conseguenza, anche lì, avendo quell'idea lì, Tortona è sempre stata un po' di sinistra e [la gente pensava che] arrivando noi, che votavamo Democrazia Cristiana, gli portassimo via i voti. E allora c'era anche questo attrito qui politico."
44) Un attrito politico che forse trova sfogo anche nel grande stereotipo di istriano fascista?
R.: "E' quello anche il fatto. Perché uno dice: sei italiano? Perché noi eravamo venuti via perché eravamo italiani, e italiano voleva dire essere fascista, un pulizia etnica."
45) Questo accadeva in Istria. Ma quando siete arrivati a Tortona, c'era lo stereotipo nei vostri confronti di istriano fascista?
R.: "Ma, da ragazzino non so dire tanto...Che poi dopo, crescendo, tutto quanto si è attutito, si è aggiustato, [cioè c'è stata] un'integrazione reciproca. Ma finché ero ragazzino a certe cose non ci facevo neanche caso. Eravamo visti come profughi: profug ci dicevano, sun profug,sono profughi. Come dispregiativo, come noi dicevamo s'ciavon, loro dicevano profug. E allora eravamo due volte vessati noi: da lì perché eravamo italiani e ci hanno fatti andare via, da qui perché siamo venuti via da lì e ci consideravano fascisti oppure stranieri, mentre invece eravamo italiani, perché noi siamo nati sotto l'Italia. E allora c'era questo attrito qui, che però poi pian pianino [si è smorzato]. Molti poi han cambiato idea, ma il primo impatto era quello: sia politico, sia di lavoro. Di attrito c'è, per forza, perché ti vedi piombare in una cittadella tanta gente e capisci che succede questa cosa qua. Invece poi, veramente, tanti, tanti, tanti sono diventati amici. Molti profughi parlavano il tortonese come i tortonesi! Si sono amalgamati, l'integrazione è venuta sotto tutti i punti di vista. Eravamo ben visti."
46) Lei è stato in campo dal '49 fino a che anno?
R.: "Al '59, dieci anni, dieci annetti! Poi ai miei genitori han dato la casa [a Tortona], perché han fatto un gruppo [di case], che quelle più che INA Casa erano proprio le case per i profughi. E poi han fatto anche delle INA Casa, in diverse parti a Tortona. Dove siamo andati noi, nella strada per andare al cimitero, prima c'era solo la nostra, poi ne han fatto un'altra, delle palazzine. A noi ci han dato una scala, eravamo quattro famiglie [di] profughi, mentre gli altri erano tutti tortonesi. Erano delle case ben finite, diciamo, e mio fratello abita ancora lì."
47) Immagino che sarete stati contenti di avere una casa...
R.: "Eh! Lì non c'era [come in campo] il gabinetto in comune, il lavaggio in comune, che c'era ai quattro lati del cortile del campo la fontanella e d'inverno, col ghiaccio, lavare la roba lì sopra, capirai...[Invece nelle case] avevamo il bagnetto, l'acqua calda e t'immagini te! Ognuno aveva la sua stanzetta...Era come toccare il cielo con un dito! Anche se sono casette modeste, però di fronte a quelle quattro coperte!"
48) Mi diceva prima che poi lei è andato alla Fiat...
R.: "Nel '61. Perché lì, vede...Io oramai stavo a Tortona, ero integrato, avevo gli amici, si andava al bar a giocare a carte o a biliardo e si stava bene. Io lavoravo, però il guadagno era quello che era, e si lavorava duro, perché in carrozzeria si lavorava duro, che io tra l'altro facevo il verniciatore. Facendo straordinario, arrivavo sulle 40.000 lire al mese. C'era un mio amico, un certo G., che ha fatto il militare qui a Torino, in corso Unione Sovietica e un giorno viene e mi dice: sai, a Torino c'è la Fiat che chiama. E infatti, nel '61-'62, erano quegli anni che chiamava e moltissimi profughi, anche di Lucento, sono andati in Fiat. [Mi diceva]: sai, alla Fiat si guadagna di più, andiamo su [a Torino], facciamo la visita. E mi ha convinto. Mi son detto: ma si, quasi, quasi...Ero già fidanzato con mia moglie...Mi dico: andiamo a far la visita. Vado a fare la visita e mi han fatto idoneo. Però poi il mio amico - lui era un tornitore in gamba, e lavorava in un'officina a Tortona come tornitore - quando c'era da venire [a Torino] ha rifiutato, mentre io sono andato a lavorare lì alla Fiat. E gli dico: mi hai fregato, mi hai detto di venire e mi hai lasciato solo! Comunque, niente, ho deciso e son venuto su e sono andato qui a Mirafiori e son stato qua ventinove anni. Gli altri dieci anni li ho fatti a Tortona nelle due carrozzerie, e mi è andata bene - e in quegli anni era difficile - che tutti mi hanno messo tutte le marche, mi hanno messo tutto in regola."
49) Alla Fiat, secondo lei, è entrato perché era profugo?
R.: "No, no, chiamavano, chiamavano. In quegli anni lì chiamavano, venivano dal meridione, che era il boom dei meridionali che venivano in officina alla Fiat. Chiamavano da matti: a un certo momento eravamo 60.000 qui a Mirafiori, [mentre] adesso sono arrivati, si e no, a 5.000 gatti! Ho fatto domanda regolare, mi han chiamato e ho fatto la visita, solo che quando entravi ti chiedevano da dove vieni, che idea hai - tessera o non tessera - sai, ti venivano a chiedere. Io non ho mai fatto nessuna tessera, neanche dei sindacati, perché [secondo me] i sindacati son troppo legati alla politica, ed è così. E allora, più che fare il bene dell'operaio, fate il bene vostro. Perché io mi ricordo, che un mucchio di sindacalisti, dopo un po', sono andati tutti in politica. Da Del Turco a Lama, Benvenuto, Bertinotti...Tutti erano sindacalisti che poi sono entrati in politica, e allora io non ho mai preso nessuna tessera: sono neutro, come la Svizzera!"
50) Com'è stato il suo impatto con la grande fabbrica?
R.: "Eh, è stato brutto! Nonostante che io fossi abituato a lavorare in un ambiente così così, perché [nelle] officine a Tortona, allora, non c'era nessun riparo: tu adoperavi la mola senza occhiali e niente, verniciavi senza aspiratore, senza niente. Io alla sera venivo a casa e sputavo tutti i colori di vernice, perché verniciavamo i camion e le cisterne, ma non c'era nessun riparo. E perciò ero già abituato a quell'ambiente. Poi l'impatto della Fiat era con la linea, perché si, lì [a Tortona] lavoravi ma la macchina su cui tu lavoravi era ferma, era lì e tu lavoravi e quando eri stanco ti fermavi un momento. Invece lì in linea dovevi andare, e se ti fermavi o meno, la macchina partiva! E appena entrato mi hanno messo in pomiciatura, a pomiciare con la macchinetta a lavare in fondo con l'acque e gli stivali di gomma, ed è stata dura! C'erano ste macchine che andavano, e se te magari non te la sentivi quel giorno [non importava a nessuno], era veramente duretta, eh! E anche perché non eri abituato, dovevi prendere la mano, che quando prendi la mano, magari, avanzi anche un po' di tempo, ma il primo impatto è stato brutto. Tanto è vero che c'era il mio primo caposquadra che era di Alessandria, e io ci ho detto: ma guarda che io sono del mestiere, ho già fatto il verniciatore a Tortona, così magari mi metti in cabina a spruzzare. [E lui mi ha risposto]: eh no, sai, sei appena venuto e devi stare qui in pomiciatura. E sono stato un po' lì, poi dopo mi hanno messo in cabina a spruzzare, poi a dare i cambi, che ogni venti minuti davo i cambi a tutti quanti della linea. Che facevamo fino a sessanta macchine all'ora!"
51) I rapporti coi suoi colleghi di lavoro com'erano?
R.: "Buonissimi, buonissimi. Si scherzava, si rideva, ognuno diceva la sua. No, no, ci siamo trovati benissimo. Che poi erano di tutte le razze: veneti, meridionali...Stranieri no, non ancora."
52) Istriani ce n'erano tanti, credo...
R.: "Eh, di istriani si. [Anche se] di istriani nella mia linea ne ho conosciuti, ma non ce n'erano tanti. Molti erano in fonderia, al montaggio e in vari posti. La Mirafiori era anche grande no? Io ero in linea di verniciatura...C'erano i veneti, c'era chi veniva da Alba - venivano tutti i giorni a Torino - venivano da tutte [le] parti."
53) Anche perché all'epoca lavorare alla Fiat era un lavoro sicuro...
R.: "E' quello il fatto: era dura, ma i contadini che venivano dalla campagna erano temprati, io che venivo da un paese e che avevo lavorato in carrozzeria ero anche temprato. Però, voglio dire, insomma alla Fiat era dura, però era un lavoro sicuro. Ed ecco perché - tornando indietro - ho deciso di andare: da 40.000 lire che prendevo, ne prendevo subito 80.000, ed era già il doppio! Anche perché avevo intenzione di fare famiglia e sposarmi, e mi son detto: ma si, andiamo a Torino. Sai, 80.000 lire...Che ti pagavano a settimana: ti pagavano a settimana e poi ti davano il saldo. Io mi osn sposato nel '62, a settembre, e siamo andati ad abitare in via Giachino [in Borgo Vittoria]. Che lì c'era un mio amico che era venuto [a Torino] prima [di me], ed era andato lì con la sua famiglia. Poi è andato ad abitare in via Ascoli dove c'erano le Ferriere e la Michelin, alla Spina Tre. E allora mi ha detto: guarda, io vado ad abitare là, e c'è questo posto [in via Giachino], vieni tu. E allora ho detto: andiamo! C'era l'entrata, una camera da letto, un bagnetto sulle scalette e una cucinetta: un freddo boia! Anche perché c'era la stufa a carbone... E io devo dire grazie a mia moglie che mi ha seguito, sta donna che stava così bene a Tortona!"
54) Com'è stato, invece, l'impatto con Tortona?
R.: "La grande città non è il massimo. Venendo da un paesello e poi da un paese a misura d'uomo come Tortona, è come andare in un deserto, perché anche la grande città può essere come un deserto, perché se non conosci nessuno, ti trovi spaesato. C'è stato di buono - soprattutto per mia moglie - che in quella casetta lì [in via Giachino], c'erano la mamma e il papà della moglie del mio amico, che abitavano a fianco, e allora quando mia moglie ha poi comprato la prima figlia, nel '63 ad agosto, le ha dato una mano, perché la signora faceva la levatrice. Era una levatrice di vecchia data. Era piemontese, mentre il marito era bergamasco e faceva il ciabattino all'opificio militare. La cosa buona è stata che abbiamo trovato un'oasi nel deserto, cioè questa signora che ci ha aiutato molto, sia professionalmente che [umanamente], perché era brava e altruista. E lei mi ha telefonato - io ero in fabbrica - quando al mattino mia moglie ha comprato [partorito], e poi l'ha assistita. Poi dopo quattro anni siam venuti qui alle case popolari a Mirafiori, e anche qui mancava l'asfalto alla strade."
55) Com'era il quartiere quando è arrivato?
R.: "Mancava tutto! C'era - dove oggi c'è il parco - un parco sperimentale, che poi l'hanno abbandonato. E in questo parco c'era un mucchio di frutta: quante mele che c'erano! C'erano tutte le strade da asfaltare, le luci mancavano. In fondo, vicino al Sangone, c'era una conceria, e d'estate faceva una puzza! Mamma mia! Poi meno male che l'han levata e non si sentiva più. Però il primo impatto era brutto, capirai...Qui in questa case era tutto in plastica, anche le scale. Solo dopo che han fatto dei lavori han messo il marmo. [Comunque], nel nostro piccolo, mi son trovato bene. Poi la Mirafiori era vicina, andavo un po' in bicicletta e un po' col pullman e poi ho comprato la macchinetta e andavo un po' in macchina."
56) Credo che il quartiere all'epoca -parlando di provenienza degli abitanti - fosse una sorta di porto di mare...
R.: "Arrivavano da tutte le parti, c'erano di tutte le razze. E infatti qui, in qualche modo, ricordava le Casermette che c'erano in via Guido Reni: molti li han presi dalle Casermette e li han portati qui. Poi [invece] quelli che abitavano lungo il Po, che c'erano le baracche, gli han fatto le case a Lucento, ma poi anche un po' qua. Noi siamo venuto qui ad aprile del '66."
57) Lei ritorna a Montona ogni tanto?
R.: "Si, ci son tornato diverse volte. La prima volta dopo ventitre anni. La prima volta che son venuto sono arrivato dalla parte di Visinada, che se si arriva da lì si vede Montona un po' più in basso, e quando ho visto sto cucuzzolo mi è venuto un magone che non finisce più! Poi gli altri anni siamo venuti da sotto, dalla valle, che Montona la vedi [quindi] in alto. Poi son stato diverse volte, siamo andati in un bell'albergo vicino al castello, dove una volta c'era la farmacia dei P., i signori di Montona. Poi una volta sono stato otto giorni proprio di fronte a casa mia, che casa mia adesso l'hanno tutta ristrutturata, che mi ha fatto la sorpresa mia figlia. Mi ha detto: andiamo a Montona. E io: va bene, ma dove andiamo? Andiamo in castello? No - dice lei - in castello non c'è posto. E mi ha affittato una casa proprio sopra la mia, che adesso l'ha ristrutturata una famiglia olandese."
58) Le ho fatto questa domanda per chiederle l'ultima cosa, e cioè se lei ha nostalgia di Montona, oppure se dopo tanti anni questo sentimento si è affievolito...
R.: "Mah, guardi, io sarò tradizionalista o che, ma tutte le volte che parlo o leggo di Montona, mi viene la nostalgia. E' una cosa da non credere, è strano! Insomma, son tanti anni che son qui, son diventato vecchio, eppure ogni volta che leggo qualche articolo o vedo dei paesani mi viene la nostalgia. Sono nostalgico. Apparentemente sono un duro, ma dal cuore tenero!"
08/06/2012;
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